giovedì 28 dicembre 2017

la danza dell'io, parafrasando Fichte

“perciò quell’attività dell’Io riferita al Non-Io non è affatto un determinare ma semplicemente una tendenza un tendere verso la determinazione un tendere infinito. questo tendere infinito è all’infinito la condizione della possibilità di ogni Io: nessun tendere, nessun oggetto, nessun soggetto”

J. G. Fichte


venerdì 22 dicembre 2017

un bicchiere di latte

è venti giorni che non piove
viviamo in un mondo molto violento
e si annoti che nessuno di noi
può fuggire da questa violenza
e nascondersi là dove
vi sia un luogo senza scrittura un buio
che non conosca fondo un colore antico
dum romae consulitur
saguntum expugnatur
il mondo è pieno di cose cose
che non conosciamo tra le quali
io e te dietro ci sono tre fiere
e i trenta tiranni e un unico terrore ma
già gettarsi gettare un fiore nel profondo
abisso è un dono di giove che piove
giove piove
piove

G. Braque, Port Miou, 1907, Milano, Museo del 900

lunedì 27 novembre 2017

il canto di Otsokoru - nzembo na Otsokoru

è una storia, che è come gridare, che è come un pianto, e ogni volta che grido o piango mi frastorna ancora, tanto lontano e tanto vicino, il canto di Otsokoru, di cui non trovo soluzione né assoluzione, senza distanze.

"tienila la caramella stringi
e quando ti sveglierai te la scarto quando ti sveglierai
è tua: sarà domani, vero?" imploravo
impassibili e addormentate le braccina scialbe
quattro giorni di giugno fu così che ad Ariwara
fu spenta la piccola Otsokoru
su un telo di plastica e dietro una tenda sozza
se ne andò, dico io, per rigettarlo
questo mondo. sua madre ci parlai per ore
la notte quando mi insegnò i copricapi muslim
la savana suonava come un acquario sgombro
e mi rassicurò lei lei mi rassicurò
"ora è felice" ora se n'è andata,
ripeto io, "akufi"
e una notte
sono nello stanzone
scorgo un mozzico
di bonbon tra la polvere
Otsokoru canta
chiamo Sylvie
"Otsokoru è morta" ma
Otsokoru canta "ya Manu,
Otsokoru è morta" ma
io lo sento che Otsokoru canta
"Otsokoru è morta" riprende
Sylvie "Otsokoru canta" ribadisco
io che nemmeno ne sentii mai la voce canta
di parole che nemmeno conosco Otsokoru
canta



lunedì 20 novembre 2017

rosa è il tuorlo delle uova dei fenicotteri rosa


rosa è il tuorlo delle uova dei fenicotteri rosa


e il tuorlo delle uova di serpi, aggiunse l'eco del vento, di che colore è?

lunedì 13 novembre 2017

aggiungeva Spinoza

"più comprendiamo le cose singole, 
più comprendiamo D-o"

Baruch Spinoza, Etica V, 24


mercoledì 8 novembre 2017

l’adulto ha imparato a nuotare, il neonato non l’ha mai dimenticato (e. sidenbladh)


sembra quasi che l’uomo nuovo non sappia nuotare: si agita, si agita in continuazione, fa e disfa e si agita ancora, ma non riesce a stare a galla e, anche se gli sembra di avere tutto, non si accorge di non essere più nulla.


martedì 3 ottobre 2017

AWADHIFO domenica 15 ottobre 2017


per tutti quelli che mi hanno chiesto "ma, allora, com'è andata? come sei stato? com'è laggiù?"... eccoci!
non sono mai stato bravo a raccontare, ma quando le storie sono così belle, diviene facile anche per me... AWADHIFO!


venerdì 15 settembre 2017

heureusement



là dove non c'è nulla ma c'è già tutto, dove le case non servono a dividere ma a riunire, dove l'arte non esiste perché non bisogna aggiungere nulla di più, neppure un soffio, alla realtà.
papa Sabho, che mi accompagnava, mi guardò, sorrise e aggiunse:

"heureusement notre dieu est congolais"
per fortuna il nostro d-o è congolese



 






lunedì 4 settembre 2017

cosmologia lugbara


ecco il racconto di Atsidri
di Madimi di Assero
che questo mundu ascoltava
durante le notti ventose
'ba azi osile si be ni yo
"nessuno nasce coi denti"
ma adesso il mundu ripete
e voi ascoltate sotto le stelle
ubriache e stanche e festose
il racconto del nostro mondo:

Gborogboro il primo uomo
senza vesti e senza armi
lo Spirito forgiò un uomo
che prese Meme la donna
e nel suo grembo fu il cosmo
iPescileCapregliAironileOnde
delMareFormicheeManioca
lo Spirito mostrò l'amore
versando sangue di capra nel suo grembo
e lei generò
due figli generò maschio e femmina
li generò e da ogni coppia venne una coppia
di generazione in generazione sino Jaki
e il cannibale Dribidu. una lebbrosa gli diede
il fuoco lui la curò d'affetto
la pose sua donna poi morì
sul monte Eti al centro del mondo
e allora ci dividemmo allora
in rossi e neri gialli e bianchi
(noi che camminiamo a testa in giù)
ma sotto terra il nostro volto colto da rughe
appesantito volge sempre al monte Eti
dove venimmo dall'alito del cielo
Jaki fu il padre dei Lugbara
così noi nascemmo da dèi, noi figli d'eroi


e il racconto finiva
le donne ridendo danzavano con salti
gli uomini mirando le tenebre tacevano
e tutti ci caricavamo le spalle di nostalgia
"non ci sono bianchi nella notte" scherzavo io
ed era scesa, la notte



ps. che vuol dire, ho intuito poi io, che sono i rapporti sociali a determinare la dimensione cronologica, a regolare questa fisarmonica del tempo: no, non esiste il mito o il futuro o l'età dell'oro perduta, ma solo noi e le nostre mani, che ci stringono o ci allontanano. è questo movimento ciclico a creare la nostra storia, in cui siamo tutti fratelli o tutti stranieri, all'alba o al crepuscolo del mondo umano.
i Lugbara credono questo e io ora so che è vero.





lunedì 28 agosto 2017

se dovessi raccontare una sola storia...




quando qualcuno ti chiede di raccontare è il momento più difficile.
è difficile non perché manchino le parole, tutt’altro, ma perché se ne avrebbero così in abbondanza che sarebbero tutte parimenti inefficaci, inutili. 
è difficile perché nell’esatto momento del racconto, si sente la grandezza di quanto manca, si sente il vuoto.
è ancora più arduo quando qualcuno ti chiede di raccontare una sola storia, un dettaglio solo, il più significativo tra migliaia di volti, di avventure, di emozioni: arduo come riassumere un poema omerico in un verso, un’intera vita in una foto.
nella vita tuttavia bisogna fare delle scelte e io voglio parlare di Anuarite, consapevole che mi sembrerà di trascurare le peripezie di Jean Claude, l’amicizia di Sylvie e Suza, la piccola Gloire, che se ne è andata dopo giorni stringendo tra le mani una caramella, i giorni di gioia con canti e danze, la saggezza di mama Pascaline, il nome e il volto di Odrele. nonostante mi sembrerà di trascurarli per un attimo li ho tutti fissi e ardenti in me, nei miei occhi.
non dimentico come, senza scrittori o libri, passeggiare tra i villaggi con Justin, lipasa na ngai ("gemello mio"), potesse raccogliere e tutta la poesia e la filosofia del mondo. tutta la poesia e la filosofia del mondo.
ma bisogna fare delle scelte e io ho voglio parlare di Anuarite, poiché Anuarite è la mia Bibbia.


Anuarite ha circa 4 anni, credo, ed è di Maratsà, un centro di una decina di capanne nel nulla, distante una ventina di km da Ariwara.
pelle scura come la notte, occhi leggermente affusolati, denti sottili, vestita sempre di un pany giallo e rosso, liso e sporco di fango e polvere. non parla se non il dialetto della sua tribù, non sa leggere e forse non imparerà mai.
una bambina come milioni di altre, senza nient’altro di apparentemente speciale da segnalare, e infatti non mi ricordo neanche quando l’ho vista la prima volta, in un giorno assolato di marzo, ma so che da quando l’ho incontrata è stata un dono ineguagliabile, per sempre.
occhi fissi.
sorriso incessante.
bontà sfrontata senza paura.
stava così per ore, per mattinate, per giornate intere a fissarmi e sorridere alla porta dell’amministrazione mentre io, indaffarato, correvo da una parte all’altra dell’ospedale, lavoravo al pc, discutevo con infermieri e dottori, parlavo con degenti, mi arrovellavo con alti funzionari. mi fissava, sorrideva: aspettava pazientemente il mio saluto e dopo il mio saluto sorrideva ancora, più luminosa.
appena mi liberavo, passavo da lei, cercavo col mio lugbarati di scambiare qualche chiacchiera, qualche risata e solo ora capisco che il mio non era il tentativo “alla rinfusa” di conquistare la sua amicizia, ma di ricambiarla per la gioia che mi dava, con quella inspiegabile abilità di farmi sentire unico, capace di bellezza.
stavamo a volte interi pomeriggi così, in compagnia di tanta altra gente, bambini e mamme, nei corridoi e nei cortili dell’ospedale, spesso alla capanna degli indigenti, finché alcune settimane dopo la madre, guarita, poté ritornare a casa.
sì, mi è mancata molto dopo la sua partenza, ma ero felice per la consapevolezza che lei ci fosse, al mondo, e che stesse bene.


un giorno decisi di andare a trovarla a casa: dopo una lunga camminata la cercai per un pomeriggio intero sotto il sole, mentre tutte le capanne di Maratsà sembravano uguali, e la ritrovai solamente guidato per mano da un suo fratellino.
occhi fissi.
sorriso incessante.
bontà sfrontata senza paura.
la salutai, col timore in cuore che non l’avrei più rivista, che la mia fosse stata un’inutile e avventurosa ricerca a senso unico, ma io sbaglio sempre, con i miei calcoli e i miei ragionamenti sotto un cielo pieno di stelle.



mancava una manciata di giorni prima di partire per l’Uganda, per l’Italia, per casa, avevo la testa ingarbugliata di mille futili pensieri e Jolie mi chiama dalla cassa: “c’è qualcuno che ti cerca”. era lei, lo capite benissimo, mentre io non lo capivo ancora e pensavo di ritrovarmi qualche impiegato o qualche lavoro scomodo. awadhifo, Emmanueli e io Mungu dri: “grazie, Emanuele” e io “siamo nelle mani di d-o”.
aveva ascoltato il mio folkroristico saluto alla radio, il giorno prima, ed era venuta a darmi il suo. non ho mai pianto a nessun saluto, neppure a quello profondo del mio migliore amico Justin, neppure a quello solenne del personale dell’ospedale, neppure a quello commosso di madre Claudine e neppure a questo, eppure questo è stato il saluto più grande ricevuto.
occhi fissi.
sorriso incessante.
bontà sfrontata senza paura.
non è la tenerezza facile dei bambini, non lo crediate, quanto la forza di mostrarsi nulla, povera, indifesa, ma di mostrarsi come si è, con totale fiducia. questo mi ha insegnato, lasciandomi senza difese.
Anuarite è la mia Bibbia. la verità, la povertà, la felicità, la bellezza, la semplicità, la forza autentica, il dialogo: tutto questo è per me Anuarite e Anuarite non è né un libro, non un eroe, neppure un’idea: Anuarite è una bambina di circa 4 anni, credo.







martedì 22 agosto 2017

andre iri yo - non ci sono due madri


il chiasso dei bicchieri il coro
di voci discordanti la luce
artificiale l’aria che appesantisce
come un reduce
ma ata lamilani ripeto
in me ma ruoni
lugbara: il lusso
è non possedere che due soli panni
e la casa non di mura ma di amici
dove l’ossessione di alcatraz pervade
ansia di vivere vivere d’ansia
mi distraggo qui ma un cielo ricorda
di odrele che la guerra non ha ancora termine
asfalto dopo kilometri di cammini illimitati
queste quattro pareti profumatamente serrate
eppure non respiro riposo solo sonnolenza 
mentre perdura 
la nostra guerra non ha termine 
in quel silenzio limpido
dove persiste il nome d’odrele
andre iri yo non ci sono
due madri




mercoledì 12 luglio 2017

"casa loro": Biringi (RDC), 7h45


che ci fa una lunga carovana di una quarantina di camion e tir sulla strada che va dalle miniere di Durba al confine, tutti rigorosamente con targa ugandese? non siamo alla tangenziale nord di Milano, all'altezza del casello di Terrazzano: qui a Biringi c'è solo polvere, savana, povertà e... questa carovana quotidiana verso Kampala, l'imbarco più vicino per Europa, America o Asia.quando sento parlare di "aiutarli a casa loro" mi viene in mente l'assurdità di questa immagine, perché dovremmo toglierci la maschera di una certa ipocrisia, fatta di corruzione, di armi, di falsi aiuti umanitari, di dittature imposte (e dalla durata imprevedibile, potremmo aggiungere da qui), tutto per la sfrenata concessione di risorse sfruttate a prezzo di saldo.
forse avremmo dovuto permettere che casa loro fosse davvero casa loro, o quantomeno dovremmo incominciare a permetterlo oggi.
prima di dicembre, prima che, per queste dittature e per queste miniere, ci siano nuove scintille di guerra in Congo e nella zona dei Grandi Laghi, una regione che conta 150 milioni di abitanti.

venerdì 7 luglio 2017

na baninga banso na ngai / à vous tous, mes amis


“outi wapi?” basengi
babengi emmanuel
mundele na poto
nakaboli bomoi na bino
nasokabola esengo na bino
na bino banso zambi
libota na ngai aza mosika
libota na ngai aza awa
“okende wapi?” bosengi
nasokende na bokonzi
na nzambe pembeni tokende!
nalingi koboya pongi
nalingi kokina lokola bandeke
o likolo fulele o bilanga
yanga kawa
nazali awa
ndeke akimi

lugbara mundele moko

giovedì 22 giugno 2017

Cadeau Alio Neema


Cadeau che ha un volto da bambina, vent'anni e tre figli
Cadeau che ha un grembo colmo di nuova vita
Cadeau che salta e danza e scherza e ride
Cadeau che attende il suo uomo: non arriva
Cadeau con la morsa della fame nella notte: un pugno di riso donato e delle erbacce strappate sulla strada
Cadeau che ama rivedere le sue foto, ma si nasconde il volto dietro a un panno
Cadeau che va al mercato a vendere i manghi raccolti nella brousse
Cadeau che nella sera mi canta "patoro lezu ozipi Lamila muzu mazuale nzuzu Butemboa"
Cadeau con in braccio Isaac, un pargolo pieno di capelli
Cadeau, abbandonata in corsia da un uomo che non tornerà, che ha preso un'altra giovane
Cadeau che dorme stretta sul pavimento dai suoi bambini
Cadeau che salta e danza e ride e scherza
Cadeau senza un soldo, senza sapere come pagherà l'ospedale
Cadeau che s'inginocchia alla soglia della chiesa, apre le mani e non entra: prega
Cadeau con la fine della sua storia, una fine che non conosco, non conoscerò, ma so che tutte le storie hanno una fine
Cadeau che salterà e danzerà e scherzerà e riderà
Cadeau che mi invita a mangiare a casa sua, verso Tsandi Akua, quando tornerà a casa, quando torneremo a casa: quando torneremo a casa sarà tutto così bello che anche i cieli danzeranno con noi e la terra riderà










giovedì 15 giugno 2017

il tempo il cammino gli amici incontrati

il tempo il cammino gli amici incontrati
mi convincono giorno per giorno sempre più 
che lo scontro in atto non sia
tra musulmani e cristiani
neri e mundele
preti e atei
uomini e donne
ricchi e poveri
omosessuali ed etero
professoroni e analfabeti
immigrati e italiani
padri e figli
nemmeno tra barbari e romani
ma tra chi trincea se stesso, chi possiede la ragione e semina odio
e chi, per amarsi, cerca di coltivare il dialogo e ha il coraggio di ri-conoscere l'altro, alla ricerca faticosa di una verità, in cammino verso la pace.
e che a volte sia solo questione di atteggiamenti quotidiani, mescolati e sfumati.

"et Pax in terra hominibus bonae voluntatis".
"mpe o nse Boboto na bato ba ye ba bolingo".


mercoledì 31 maggio 2017

pagine di diario - odrele

Martedì 9 maggio 2017

ODRELE. Poche settimane, piange a letto, solo. Mi avvicino, chiedo, do un’occhiata alla fiche: malaria, anemia, malnutrizione, piaghe nella zona anale. Caso frequente, caso grave, nonostante sia arrivato in ospedale e nonostante la trasfusione in corso, l’ho imparato anche io. Gli porgo un dito e lui con la sua manina lo stringe forte, manina da pelle sfinita, e smette di piangere. Poco dopo vedo arrivare la mamma, Aloko, non più di 14 anni, con un viso da bambina e seni grossi da madre, occhi inesperti e impauriti. Ingravidata da qualche ragazzo in un rah notturno del suo villaggio, Modusu, lasciata sola come una bambina con la sua bambola.
Arriva anche la nonna, che avrà la mia età, solcata dalla fame, e sul suo dorso un altro bambino: anche lui soffre visibilmente di malnutrizione, lo dicono le occhiaie gonfie, quei ciuffi di capelli ingialliti. Saluto e torno ai miei lavori.
Ripasso per caso dopo un paio di ore: nella corsia la mamma si tiene la nuca con le mani, come un ragazzino in panico; capisco e corro a chiamare un infermiere, ma è solo per constatare il decesso.
ENEKU ODRELE, di 5 mesi, nato in un giorno imprecisato di novembre e spentosi il 9 maggio, figlio di Odrele e Aloko, cattolico, non è più. Non dorme, non dorme con quegli occhi bianchi che non si chiudono, con quella bocca rigida e spalancata come a cercare un ultimo respiro.
Justin, l’infermiere di turno, incomincia a bendarlo con garze e pany e intanto canta, come se fosse l’ultima ninna nanna per chi non ha conosciuto oltre la vita. È un canto sottovoce, un canto inverosimilmente dolce e insieme struggente.
Rimane qui col corpo solo la nonna, come per caso, guardandosi attorno, mentre la figlia è corsa fuori: la rincontrerò a vagare fuori dal padiglione di chirurgia, con un’espressione alienata e la riaccompagnerò mano nella mano. Storie di fame, di solitudini, di disperazione senza voce.
Ma Dio si ricorderà di questo nome, Odrele, o è già stato avvolto dal nulla?

Mercoledì 10 Maggio 2017

All’ospedale entra una nonna che mi sorride e con la quale scambio allegramente due chiacchiere in lugbara, un canto, due risate. È contenta, mi dice, perché ha raccolto dei manghi nella brousse attorno e con questi riuscirà a trovare qualche soldo. Mi trovo appena fuori dal cancello dell’ospedale con Benjamin e Michel, prendo il tempo di qualche parola con loro.
Trenta secondi dopo la nonna ritorna, sembra si diriga verso me, anzi cerca proprio me, ma con un’espressione molto differente da poco prima: “mundele, akufi!” dice, e capisco immediatamente anche io.
Ha lasciato i manghi a terra e corre a casa ad avvisare il resto della famiglia, mentre la notte scende e lacrime rigano fitte il suo volto, la voce è stravolta. Anche Monde è morto e vedo che il suo letto è già occupato: ADRIKO TOTO, con una mamma appena tredicenne, che mi sorride e spera, mentre è in corso la trasfusione di sangue, mentre il ventre ondeggia disperato e gli occhi tremano all’indietro. Dice di avermi già incontrato alla festa di Kamakà a Pasqua, io le sorrido e intanto mi chiedo “Dio si dimenticherà di loro?” mi chiedo “Dio si dimenticherà anche di loro?”.
Ne guarisce uno e ne entrano altri cinque.
È una mietitura di sangue e innocenti.
È la strage di Erode a Betlemme.
E prima di chiudere gli occhi, stasera, senza ben capire perché, mi appaiono le parole “Non uccidere” e ne sento i brividi di terrore.

Venerdì 12 Maggio 2017

Stamattina Toto è morto.
È venuta la mamma stessa, Bhileni, a dirmelo; è passata a cercarmi alla cassa e mi ha parlato con un sorriso timido sul volto. È forse per questo che ho pensato di non aver ben capito, ho chiesto conferma a Noella ma c’era troppo trambusto. Ieri avevo dato loro qualche soldo per un pasto decente e ieri sera gli occhi di Toto mi riconoscevano, quasi sorridevano: anche se non sapeva parlare, ne sono sicuro.
Il tempo di arrangiare ciò che sto facendo e, arrivato in pediatria, lei è già partita col suo corpicino, il suo posto è occupato da un altro.
Chiedo a Mireille: “Sì, il bambino del primo letto è morto”, ma stavolta non ce l’ho fatta, ad avvicinarmi al nuovo arrivato.
Silenzio. I pugni allo stomaco fanno male anche quando te li aspetti.
Silenzio. Lo sapevi, Lele.
Silenzio.
Ne guarisce uno e ne entrano altri cinque, mi ripeto chiudendo gli occhi, respirando l’aria calda e la sabbia del cortile: torna a finire il tuo lavoro, Lele.
Ma io che posso fare? Io non posso fare nulla, ma non per questo mi devo arrendere.
I poveri si prendono tutto, talvolta anche quello che non avresti voluto dare. Anche il dolore.
Spesso ti riempiono di gioia, altrettanto spesso ti fanno perdere ogni pazienza e tornare nero nella tua stanza chiusa.
Alcuni sono riconoscenti, da altri ti senti usato e acconsenti più o meno volentieri.
Certo è che i poveri non sono migliori dei ricchi (come peraltro neanche viceversa): non sono più belli, più gentili o più umili, più sinceri o più intelligenti, mai creduto, ma vivono del nostro stesso cielo e soffrono, oppressi da un’ingiustizia muta ma violenta.
I poveri si prendono tutto, talvolta anche quello che non avresti voluto dare, ma è giusto che sia così.


Sabato 13 maggio 2017

La verità, pensavo oggi, è che siamo in guerra, e non da oggi.
Una guerra dell’indifferenza, dell’arroganza e di un materialismo becero, cieco, animale. Una guerra contro il dialogo, il pensiero attivo, contro la nostra spiritualità e ogni concetto di verità. Mica una guerra retorica, una guerra di idee, poiché il sangue cola e i deboli sono vittime: è una guerra assassina, se penso a miriadi di situazioni dappertutto, dai paesi sottosviluppati, ai paesi del Medioriente, dai disoccupati, dai disadattati delle nostre città alle baraccopoli indiane c’è un sistema malato che toglie vita.
Lo dico senza dietrologie: è solo il diluvio che perdura, la fine di un mondo. Lo scrivo senza demonizzare il diverso, senza paura dell’altro, senza terrore del nuovo, senza invocare rivoluzioni, ma solo una coscienza.
È un’evidenza che il mondo dell’opulenza può reggersi solo grazie a un mondo parallelo di oppressi, che il lusso insensato di qualcuno è l’altra faccia della medaglia di Odrele e di tanti, troppi, altri. E questo sistema passa nell’indifferenza, nell’apatia, in quell’accettazione impotente che non ricorda più cosa fosse “uomo”, di come la parola “umanità” si possa declinare unicamente al plurale.
Qui i cittadini disprezzano quelli che vengono dai centri provinciali, che disprezzano a loro volta chi viene dai villaggi, che bollano con disprezzo chi viene dalla brousse: coloro che sono in difficoltà preferiscono dare contro a coloro che sono ancora più deboli, piuttosto che guardare in faccia ciò che li sta annientando, sembra una legge universale. In Europa non avviene lo stesso? La situazione è complicata e merita equilibrio, saggezza, ma spesso sembra che si possa risolvere tutto accanendosi rabbiosamente contro immigrati, scappati dalla disperazione: come se il problema principale, in uno stato in cui le riforme hanno dato il passo a corruzione e mafie, uno stato privo di slancio culturale e di imprenditorialità, sepolto da un’identità dimenticata e burocrazia, fossero loro. Come se si potesse distruggere una cultura dall’esterno, e non fosse invece già marcia interiormente.
La morte dei sogni è la fine del mondo. Il diluvio.
Io, col mio carattere pessimo, ingarbugliato e cocciuto, rancoroso e insicuro, con le mie unghie sempre mangiucchiate e gli occhi bassi, so che le parole, i valori, i sogni sono reali, sono validi solo se “incarnati”: non si inventano, non hanno bisogno di difesa né si proclamano a vanvera, ma hanno vita nelle persone e nelle loro scelte concrete, quotidiane, controcorrente. Verbum caro factum est, qualcuno scrisse. Dove sono finiti i nostri sogni di fraternità, di giustizia? Li abbiamo rimessi in tasca? La verità è che lo sappiamo, vediamo il diluvio che dilaga lentamente, ma preferiamo chiudere gli occhi: ci accontentiamo di un pasto caldo e qualche passatempo, rigirandoci in una perenne alienazione, in una continua lamentazione, ossessionati da paure, tanto da non agire che per queste, senza più esserne protagonisti, della nostra c…o di meravigliosa vita. Si segue un egoismo esasperato, si grida alla libertà per poi perdere la propria autenticità in un mare magnum senza nome, massa incolore, indifferente, mentre la stanchezza dell’abitudine ci ha narcotizzato. Forse è solo una questione di comodità, il diluvio. La fine del mondo, la fine di un mondo, il diluvio ecco: sostituire il sogno con la sopravvivenza, con il terrore. Ciascuno salvi se stesso? No, ciascuno salvi la propria piccola fiammella, ma la salvi all’altro, verso l’altro, verso un mondo futuro, rinnovato, migliore. “La mia vita è inserire vita dove c’è la morte”.
Nella testa ho ancora il nome di Odrele. No, neppure Dio lo ha dimenticato, ne sono sicuro, e neppure il suo volto, che io già confondo con quello di tanti altri: non lo dimenticherà e il mondo stesso ne chiederà conto, di questo suo figlio. Il sogno di Dio non è questo, il sogno dell’uomo era altro, era più alto, ma chi non si alza si allinea. E io so, lo conosco attraverso questi miei nuovi compagni, che si può insultare, oltraggiare, deturpare, violentare, uccidere, devastare la vita, la si può persino annientare, ma la vita è più forte e rigermoglia, silenziosa e ogni volta e per sempre: no, la vita non la si può sconfiggere. Neppure in questa guerra.
Heritier, mi ha detto Suza, è guarito.

Ho finito, di scrivere, di piangere, di gridare. Solo ora mi accorgo che la persona contro cui mi infuoco tanto è il mio piccolo io.