domenica 23 settembre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, XV


la nascita
la nascita è un mattino. 
ogni nascita è accompagnata da un dramma o, come sosteneva Otto Rank, la nascita è il dramma, il trauma di tutta la nostra vita.
nascere è venire alla luce, ma anche al sangue, al dolore, alla lotta; nascere è semplicemente venire a se stesso.
come un mattino, coi suoi soli e i suoi geli.
la luce nuda che si trascina ai tuoi piedi
mentre il bambino si dispone nella fila freddolosa
che segue l'eterno gemito della carne
in ogni poro della pelle
c'è un giardino e tutta la fauna dei dolori
bisogna saper guardare con un occhio più grande che una città
sul ghiaccio danzano i lupi
mattino mattino
mattino sigillato di cristalli e larve
mattino che profuma
alito allacciato alle striature dell'iris

Maschera africana dan, Costa d'Avorio

 XV


quando il sole ebbe affollato a sufficienza di record a prezzo d’oro
i velieri d’ardore e gonfiato le mammelle della terra
questi qui si guardano a gettare al cielo il loro cibo di fuoco e d’abisso

*

sul versante venato d’acanto e di ceppi
il vomere mina la nebbia di gnomi nell’argilla rachitica dei mimi
mentre dall’orecchio del polo il mondo raffigura la tempesta
degli astri incompleti i boreali salassi
le levate di lava bavano sulla vallata
d’aria abbottonata alla brina sono i boccioli dei fuochi folletti
che dalla loro colata di metallo cavano il miele dei suoni affrettati
e la mordace disperazione aggrappata all’armatura della notte
ha lasciato la presa tale è la forza della luminosa ammonizione
il vento una volta teso attorno alla sera del tuo collo nudo
ha superato gli aerei approdi del volto eterno
invita oramai per dei segreti sussurri
l’aurora suadente ad abbandonare l’inesauribile lavacro
e le onde sciolte si contraggono sotto le pieghe
della fisarmonica – il brivido assorbe e restituisce le trottole scisse
le multicolori brache si disperdono verso tutti i venti
alla gola tu prendi il violino
e poi alle tempie ausculti il disgelo della sua parola
ma subito l’uccello s’aggancia al bavero della capanna
fiaccola di rozzi presagi
appicca il fuoco al giorno che si risveglia nei nostri petti

*

si festeggiano le nozze cristalline
da dove emergono le fresche spighe dei scintillii marini
le carriole squillano già i vivi arrivi
di monete d’argento sul banco del mattino rarefatto
e lo stagno dei soli inghiotte le afroditi di foschia
il latte precoce delle loro età che schizza sulle pareti delle conche
tu sei all’ora della colazione della tua vita
i tuoi passi lavorano a maglia la desolante distanza che è già aumentata
tu cammini a testa alta di fili d’erba
tu spremi la luce dalle colline domestiche
la luce nuda che si trascina ai tuoi piedi
e che dalla tua parola bambina abbigli di lane
ma prima che le tue preghiere abbiano ingarbugliato la via atmosferica a cui l’eco s’aggrappa
il cesto delle strade che si ritrovano attorno al rocchetto
l’età è matura per catturarti nella sua rete sorniona
da dove le vie d’uscita sono tortuose e i ricordi setacciano a stento

*

e allora i rami di fuoco ricamano le crepe dello zenith
attraverso cui hai messo radici in te stesso e volontà
una pipa nella bocca della porta socchiusa
che il tuo bacio divide in due spicchi di addii alternativi
s’immobilizza docile calice
mette la museruola al campanile ardente di latrati
che ai chiassosi stravolgimenti enumera l’abbandono
chiesa presa per la vita al fianco della collina
irrigata dalla marea delle frange di bagliori che fuggono in fondo
lo sbarco delle stelle senza guida né tregua
il loro prolifico accamparsi tra noi

*

e la mano di dio tasta il polso duro del timone
regolare e senza paura il sangue frusta lo zodiaco
mentre dai genitori della fidanzata s’alza il dignitoso lamento
allattato dal rischio del tic tac della linfa vulcanica e del treno in marcia
ecco qui che la vita si taglia come il verme
e che il bambino si dispone nella fila freddolosa
che segue l’eterno gemito della carne

*

in ogni poro della pelle
c’è un giardino e tutta la fauna dei dolori
bisogna saper guardare con un occhio più grande che una città
sul ghiaccio danzano i lupi
si porta il suo bagliore sulle spalle
sul suo verde si fanno degli sport si gioca alla borsa
e spesso si canta sul tetto
da ogni nota sale dalle linee della mano sull’albero di trinchetto
scende dagli animali alle radici
perché ogni nota è grande e vede

*

seminare delle tossine nell’epidermide della terra
sotto l’albero sovraccarico di segni musicali
arrampicarsi a tastoni sulle collinette calcaree
tra le lucertole e le lapidi tombali
le rimesse di resina e gesso
i cimiteri dall’odore di trementina
sbranati dalle aguzze grinfie schierate in semicerchi
aperte come il ridere dei sonagli
e corrose dai ricordi delle lebbre diluviane
che sanno quelle della solitudine
dove le strade s’estinguono sotto le antiche fughe
un’ombra si affretta la morte

*

la brezza chiomata spazzerà le sponde gli arbusti e i corni
e il pianto che la nuvola contorta straniera
risuona sul paese in bilico un lutto che calpesta il suo grido di battaglia
nell’oceano sul velluto di sogno
la notte in disparte partorisce una nave

*

mattino mattino
mattino sigillato di cristallo e di larve
mattino di pane cotto
mattino di battenti impazziti
mattino guardiano di stalla
mattino di scoiattoli e di smerigliatori di vetrate fresche al fiume
mattino che profuma
alito allacciato alle striature dell’iris


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