giovedì 16 febbraio 2017

credo

c'è un tempo in cui il sarcasmo disincantato, l'apatia sterile, l'ironia annoiata lasciano lo spazio a qualcosa in cui credere per davvero, sul serio, un tempo in cui il cinismo è chiamato a dare una risposta, con tutto se stesso. e io voglio crederci.

credo che le libellule siano particelle audaci
credo che le tigri azzannino i prigionieri
credo che i serpenti sappiano zampillare
e credo che sarà questo

il modo in cui apprenderò a volare.


domenica 5 febbraio 2017

lettera a un'amica



Amica mia,

mi chiedi spesso come stia e io ogni volta ti rispondo “alla grande!”, con ogni sincerità, ma capisco che quelle poche parole non dicono poi granché, quindi cercherò di raccontarti di più, come riesco.

Sei mesi di docce fredde, a volte con secchi, a volte senza luce, e lavando a mano i soliti quattro vestiti ormai scoloriti. La bellezza dell’essenziale, dico io, che, almeno in parte, l’ho ricevuta in dono.

Sei mesi a mangiare manioca in ogni modo possibile, apprezzare fufu (polenta di manioca), pondu (foglie di manioca) e muchicha (una sorta di coste), sperimentare formiche e cavallette grigliate, amare arachidi (crude, grigliate o bollite) e tusca (i nostri pop corn), salutando da lontano formaggio, tartare di manzo e cioccolato.

Sei mesi per adattarsi al francese congolese, imparare il lingala, dover sapere anche qualcosa di lugbarati, il dialetto locale, pur sapendo che troverò sempre qualcuno che parlerà solo una nuova parlata sconosciuta, sperduta e affascinante.

Sei mesi di contrattazioni accese al mercato, dove l’odore d’olio di palma pervade ogni cosa, anche le banconote. Sei mesi di sabbia rossa nei sandali, di piedi sporchi e incalliti, di piedi nudi e distrutti per le partite a calcio tra l’erba alta.

Sei mesi di sole, sole e sole, fino ad azzerare ogni pensiero, poi la notte amare le stelle di ogni notte come se fosse l’ultima notte del mondo. Sei mesi di pelle nera, scura come le profondità della terra e gli abissi del sogno, in cui sono io quello che si sente strano, con queste mani pallide come un fantasma. Sei mesi in cui sentirsi sempre straniero e sempre a casa, anche se l’impiegato dell’ufficio dell’immigrazione rimane dietro l’angolo coi suoi visti e le sue carte bollate.

Sei mesi di messe affollatissime e, nonostante la durata sia di tre/quattro ore, vivere l’incanto dei canti e delle danze continui di migliaia di persone, fino a voler far parte di una corale, in cui sono senza dubbio, lo posso testimoniare con orgoglio, il bianco più bravo.

Sei mesi di tanti casini e avventure, di tante persone e tanti doni, di novità e amici, di militari e pazzi, di santi e di malati, sei mesi di viaggi, di zanzariere e di qualche malaria, sei mesi di tante situazioni incredibili che non basterebbe un’enciclopedia, ma anche di tanto lavoro e fatica. Sei mesi di ospedale, con qualche lavoro manuale, e in farmacia, e alla cassa, e per ogni questione informatica, e passare ogni giorno nei vari reparti, salutare, chiedere, ricevere tanti sorrisi. Sei mesi straordinari che sono già troppo, da raccontare e a volte, temo, anche da ricordare in ogni straordinario dettaglio.

Sei mesi di sveglie all’alba, e in tutti questi mesi ogni mattina mi sono svegliato e mi sveglio felice, poiché, qualsiasi cosa possa accadere qui, si vive la libertà. No, non la mia libertà, la loro: la loro libertà di essere felici, nonostante tutto e tutti.

A volte, a vederli, mi chiedo come possano resistere: non possono andare avanti così, ne sono sicuro.
Eppure sopravvivono e vivono, alla mattina si alzano, poi si affaticano, poi gioiscono, poi si addormentano alla sera e vivono, diamine!, con le stesse emozioni, sfide, con lo stesso cuore di uomo d’Europa o d’America, anche più libero.

In lugbarati ci si saluta sempre così, in ogni occasione: “ngoni ya?” (c’è qualche problema?) “ngoni yo!” (nessun problema!). In ogni occasione.

Mi ricordo ancora quando, chiacchierando con Marco (era una mattina), mi aveva spiegato la sua personale etimologia di “Afreeka”: la terra della libertà; non la riesco più cancellare dalla mente e, camminando tra le capanne, scambiando due parole con qualcuno, il loro sguardo mi conferma che ci aveva proprio azzeccato. Poiché, nonostante il dolore, la povertà, il nulla tra le mani, in fondo a tutto questo luccica vivo qualcosa, a cui non so dare un nome: speranza? fede? voglia di vivere? Proprio là nel profondo dove spesso da noi, tra il chiasso e i bagliori del benessere, non si vede che il nulla.

Che io amo l’Europa, diamine, che è casa mia, la madre mia e di quello che amo, ma da lontano mi sembra tanto piena di paure e di odio, tanto frenetica e stanca da apparire Lei barbara e brutale, disumana; ma forse è solo la lontananza.

Mi ricordo i dialoghi notturni con Bakhita, l’anno scorso, quando ogni volta eravamo stupiti e sconvolti di quanto qui respirasse un’altra vita e capivamo che una goccia più una goccia non fa due gocce, ma una goccia più grande.

Così ora inizio a pensare che il mondo non sia né pura idea né desolata materia ma consapevolezza, quella del rapporto tra questo me e l’altro.

“Bisogna attraversare l’acqua con una candela accesa” profetizzava un film di anni fa e chissà se non sarà la nostra cultura ad aiutare gli africani, ma piuttosto l’ “Afreeka” a salvare noi, a portare una candela accesa di una vita autentica attraverso il mare mostruoso del nulla.

la pioggia cade la pioggia
cenere in caduta cenere
da un incendio nei paraggi ormai lontano
e sono diventato alba all’aurora tramonto
al crepuscolo chinando il capo
la pioggia cade la pioggia
e ho camminato camminato senza casa camminato
e ho dato congedo alla mia anima fuggita
la ragazza allattava nel silenzio
come una galassia generatrice
la pioggia cade la pioggia qui
e ho calcato le colline di Watsa
e ho varcato le capanne divorate dalle termiti
e ho raccolto il sudore di un uomo
come incenso di una cattedrale piove
Dieumerci resta in coma sul suo lettuccio “dorme”
l’immagino io l’amaro
della bocca impastata di chinino
il ventre gonfio che affanna
la pioggia cade la pioggia qui e dovunque
i prati pieni di bimbi a ballare
battere le mani ballando in tondo
saltano ballano nei prati
durante la messa domenicale
le vesti bianche e lise della festa
come se questa polvere non arrossasse
di terra e fango qualcuno
muore qualcuno ride heuresement
notre dieu est congolais
la chiesa di Ayiforo che si abbronza
nei secoli dei secoli di questo sole
e tutto piove dappertutto

Ecco, anche se non sono stato chiaro a sufficienza, anche se forse ho blaterato sin troppo su di me, spero di averti detto di più: sei mesi fa sono partito, ho viaggiato molto, ma non sono ancora arrivato e non sono ancora stanco.


E tu? Come stai, amica mia?


giovedì 5 gennaio 2017

mama Espe

un giorno madre Susanne mi ha insegnato:
"ad amare si impara con gli esempi". 
io non credo di avere ancora bene appreso, ma di sicuro ho avuto in dono grandi esempi... 

ho parlato con mama Esperance
dice di non avere casa
ma una stuoia di capanna l'accoglie ogni sera
racconta di vendere arachidi a Ozua (nguba)
su un panno steso a terra
ho parlato con mama Espe
il catetere G vent-quatre gigante in quella corolla
due mani sottili accarezzano la sua piccola
ho parlato con lei che si trascina al suolo
per i corridoi per la polvere rossa
e sua figlia sarà Queen così
mi ha detto canta con me 
"Ofera fo" mentre due signore ben imparruccate la inchiodano
come un panno gettato a terra:
poliomielite. ma lei la mia mano la stringe
come un cuore pieno
"Mi ricompenserà" ti ha 
ricompensato


le amama nga azi Adro atani, eringa ama, ofera fo!
e ne Adro efe, amani etopi, ama etozo eza ma alea.
amala tsandi nya, anzi eri driri, le amama ora ku, eringa amofera.
le amamanze ava nyakudriara nyaku ovuni amari ku.


serviamo Dio, perché ci ricompenserà.
guarda, Dio ci ha donato il Salvatore, per la nostra salvezza.
anche se noi soffriamo al Suo servizio, non lamentiamoci, perché ci ricompenserà.
non speriamo in questo mondo, perché non ci appartiene.

(canzone popolare lugbara, un giorno magari ve la canterò pure...)

venerdì 30 dicembre 2016

è il passo che diviene strada - magoro eza nzela


sì, io amo le strade che corrono come amazzoni
irte e selvatiche
ma di terra, alberi, sassi.



sabato 19 novembre 2016
la strana tra Ariwara e Durba
(Repubblica Democratica del Congo - Ituri e Haut Uele)

venerdì 23 dicembre 2016

dei semplici auguri di Natale...

anche questo è Natale.
senza luminarie, senza tavola imbandita, senza babbo natale né befana, senza inverno né strade gelate, senza presepi, viventi o artigianali che siano, senza panettone, senza regali sotto l'albero.
anche qui è Natale, anche qui è festa, perché anche qui nasce il Dio-con-noi.
tanti auguri a ciascuno di voi, amici!






venerdì 16 dicembre 2016

10 FALSI MITI SULL’AFRICA (o solamente alcune nostre piccole ipocrisie)




1. “In Africa muoiono tanti bambini, ma tanto le madri hanno tanti figli, quindi conta poco per loro”
una bella idiozia, perché basterebbe ascoltare le grida di dolore che dalla camera funebre arrivano sino all’ospedale, sino al convento, per capire quanto tagliente e devastante è quel dolore, un dolore che accomuna universalmente madri di ogni latitudine, non solo le nostre.

2. “Gli Africani non hanno voglia di lavorare”
gli Africani sono cocciuti e gran lavoratori; è vero, non amano la fretta e lo stress, ma di uomini senza paura della fatica se ne posso trovare in quantità; ad esempio papà Faustin, che lavora 9/10, a volte anche 11 ore consecutivamente nei campi, a spezzarsi la schiena, per dare da mangiare ai suoi figli, per non parlare delle donne…

3. “Gli Africani sono incivili”
qui l’educazione sin dalla scuola materna è fortemente improntata sulle regole, il rispetto dei ruoli, il protocollo e raramente ho visto persone capaci di discutere (e soprattutto di ascoltare!) in modo partecipativo e condiviso quanto qui… a volte sin troppo! una volta, al termine di una cerimonia pubblica, ho dovuto pazientare e ascoltare più di 9 discorsi di ringraziamento (tutti peraltro perlopiù stereotipati) per rispetto del protocollo e delle autorità presenti, per un totale di 5 ore di cerimonia.

4. “In Africa non ci sono disabili, perché vengono uccisi subito alla nascita”
ci sono eccome, e ci sono anche comunità. pochi giorni fa ho conosciuto una mamma con suo figlio Frederik, un ragazzo ormai 17enne con gravi disabilità: lo portava con totale amore dovunque andasse, sulla schiena, e io mi sono sentito tanto piccolo; ho conosciuto bambini nati con malformazioni che qui non si possono curare, ho conosciuto ragazzi con sindrome di down, epilettici, autistici. in Congo esistono persone con disabilità e sono amati, nonostante tutte le difficoltà, tanto quanto in Italia.

5. “Il mondo africano è un terzo mondo, un mondo primitivo”
e se il mondo africano fosse semplicemente un mondo altro, con valori, tradizioni, connotazioni proprie? sarebbe tanto difficile da accettare? non ne faccio un giudizio morale positivo o negativo, ma solamente di una diversità arricchente: come il blu è differente dal rosso, senza che uno sia meglio dell’altro, il bianco dal nero, così la loro cultura dalla nostra. anche perché la povertà qui non è un dato strutturale, quanto l’effetto di una storia coloniale che perdura da secoli: ecco, quello africano non è un continente primitivo, ma un continente sfruttato, dimenticato.

6. “Ma l’Africa non ci ha mai insegnato nulla e non potrà mai insegnarci mai nulla”
tralasciando che i primi uomini e le prime grandi novità della nostra storia sorsero proprio dalla regione africana dei grandi laghi, è innegabile e attuale la larga influenza sulla nostra cultura: dalla musica contemporanea (blues, jazz, gospel, sino alla recente RnB) alla danza moderna (hip hop) e alla moda, ma l’arte nera ha determinato anche la cultura europea più aulica, basti pensare alla casa del surrealista A. Breton, piena di feticci e statue d’ebano, o all’innovativo saggio di T. Tzara, fondatore del dadaismo, “Sull’arte primitiva”, all’influenza sul cubismo.

7. E’ facile per loro venire qui e invaderci; vorrei vedere se capitasse nei loro paesi, che succederebbe…”
ebbene, il Congo ha accolto e accoglie ogni anno migliaia, milioni di immigrati dai paesi circostanti, ora soprattutto dal Sud Sudan. nella sola regione dell’Ituri ci sono tendopoli per migliaia di profughi ad Aba e Biringi, tendopoli che si affollano sempre più. e come reagiscono? be’, la Caritas della diocesi di Mahagi-Nioka ha organizzato una raccolta fondi ed è stato infinitamente arricchente vedere come anche i più poveri portassero qualcosa da condividere, anche solo una moneta o una pentola. non serve aggiungere altro: a ciascuno la capacità di confrontare quest’accoglienza con quanto avviene in Europa in questi anni di disumana follia.

8. “Tanto l’Africa non ha futuro”
l’Africa E’ il futuro, credetemi, poiché ha risorse smisurate; non intendo solo le risorse naturali lussureggianti, di cui finora è stata costantemente derubata, ma soprattutto le risorse umane: persone geniali con un entusiasmo, una sete di vivere che in Occidente sembra perdersi sempre più. scommettiamo?

9.“Loro sono troppo differenti da noi”
che esistano diversità socio-culturali è una realtà evidente e scontata, ma parlateci insieme, con uno di loro, e vedrete che avrete più punti in comune che differenze, che ama la propria donna, che piange per il dolore o la nostalgia, che odia le ingiustizie. forse riconoscerete nei suoi occhi un amico, o un fratello.

10. “No, l’Africa non fa proprio per me”
questa è la frase che io stesso mi sono ripetuto spesso prima di conoscerla, l’Africa; poi posso dire che docce fredde, viaggi precari ed estenuanti, soli torridi o piogge torrenziali, insetti e mostri di genere, pranzi a base di cavallette o formiche e tante altre piccole nostalgie non sono bastati a inficiare nemmeno un briciolo della sua bellezza, della sua autenticità, e ora mi trovo qui. venite e vedrete, aveva detto qualcuno.


venerdì 9 dicembre 2016

magnificat anima mea


ora faccio fatica, a chiamarli poveri. forse non sono poveri, sono solo altro, forse i poveri sono altri, ma chissà chi o cosa sancirà chi, tra noi e questo mondo primo, sia veramente meglio. Forse siamo noi a non essere la normalità, ma l’eccezione.
Africa è come una donna che porta sulla testa il mondo. Il paese dove le lamentele e i pianti non hanno spazio, il paese dove la gioia non costa nulla.



molimo mwa nangai mokokubisa mokonzi
ma kokata ngulu siamo
qui. tra fufu muchicha pondu
e il salmone affumicato di Ariwara
le costellazioni cristalline di formicai
nayoki te nayoki te nayoki
il sole dalla mattina e nella notte le stelle
Orione accasciato a Oriente
Feni che non ha pantaloni infante
Grace che non ha padre per suo figlio
Colette che non ha riposo né soldi malata
e tutti che hanno lo splendore di coloro a cui non manca
nulla. na motema mobimba
la vita notre vie bomoi nangai
siamo nel campo di sangue (ari-wara)
tokata ngulu sul monte Morìa
hanno barattato l’ariete bianco
poiché i poveri puzzano e non hanno amici
hanno sgozzato Gemima figlia di Giobbe
e una mamma bambina
e quelle ridono più di Isacco
bakati ngulu: ogni respiro
è il bottino abbondante, senza sforzo
mica il trono affannato dei superbi
renvoie les riches les mains vides
e l’alba s’alza lieve all’estasi di
Colette che conosce l’amore
Grace che dondola l’uomo
Feni che sorride di occhi
e me che sono solo esule
di quest’eden tradito LA GLOIRE DE DIEU
EST L’HOMME VIVANT vivant
a Radio Simba balbetta un mundele grato
e l’eco di Tchaikovsky accoccolato
na motema ngolu na bana


molimo mwa nangai mokokubisa mokonzi: l’anima mia esalta il signore, inizio del Magnificat, in Lc 1, 46
kokata ngulu: ammazzate il maiale!
fufu muchicha pondu: cibi tipici della cucina congolese, nello specifico sono rispettivamente polenta di manioca, verdure cotte simili alle coste e foglie di manioca cotte
nayoki te nayoki te nayoki: non capisco non capisco capisco, ma anche non sento non sento sento
na motema mobimba: e tutto il (mio) cuore / e tutta la (mia) anima, ovvero continuazione di Lc 1, 46
bomoi nangai: la mia vita
tokata ngulu: ammazziamo il maiale!
il monte Moria è il monte del sacrificio di Isacco in Gn 33
bakati ngulu: ammazzano il maiale
renvoie les riches les mains vides: rimanda i ricchi a mani vuote, continuazione di Lc 1, 46
mundele: bianco
na motema ngolu na bana: per la grazia dei fanciulli