mercoledì 5 aprile 2017

2 Re 3, 16 - nudità

il mondo si tramanda per storie, per racconti.
io amo questo episodio su Giosafat, tratto dal II libro dei Re.
che si accumulano tante cose tanto rumore confusione MAIUSCOLI tante immagini tanti colori tante sensazioni, si accumulano come in un deposito senza padrone, si accumulano, dico una banalità, perché abbiamo tanta paura del nostro vuoto, della nostra nudità, di non saper più sentire la nostra emozione, la nostra armonia.
che è uno SPLENDORE, aggiungo io.
perché, lo dice il nipote di un geometra, non si può edificare senza togliere e spesso scavare è meglio di costruire.


d'altronde quello che faccio più fatica a fare qui non è discutere, lavorare, conoscere, ma è imparare a mangiare con le mani.


“andate a chiamare un suonatore di cetra”
annunziò allora il profeta al sire
“scava dove il letto appare secco scava
dove il fiume muore scava e zampillerà!”
solo i serpenti preferiscono strisciare nella propria polvere
qui suis-je? apprendere l’alba
e lo spegnersi e la gloria del fiore e la malattia
così comprendersi uno ASSIEME all’universo
“qu’est-ce que veut dire ce mot?”
SOLITUDE quando uno si sente
solo “e come può essere solo
un uomo?” visage decouvert
scavò Giosafat scavò e zampillò
e Sisifo assiso stette sul sasso
io, Lemi, Ayikoru marciavamo cantando


nell’atlantide rossa del primo mondo

venerdì 24 marzo 2017

da Ariwara a Kinshasa: cronaca di un viaggio imprevisto


"può il battello affondare
anche in porto" ricorda un proverbio lugbara
allora si è partiti per attraversare
il mondo intero e l'intero me attraversare
le rovine coloniali di Nioka hotel
titanic davanti agli alti tronchi di Katanga
raccontano gli scaltri incesti dei Baluba
c'è pure un torneo di palla martedì
mattina tutto apparentemente normale
le orme di un uomo
capanne di Djalabiga aperte sul nulla pietre
primordiali a precipizio
Ngiri
Libi
i corvi di Fataki, alla griglia
tra camion rovesciati e lasciati a ingiallire
sino all'asfalto di Bunia dai dollari verdi
ben stirati da caschi blu col proclama
MONUSCO appena a due km da Irumu
Mangiva
Makaninga
Komanda
Mangusu
Yankutu siamo
scimmie scacciate dal caos della foresta
Bandiboli
Bandikola
Bandibalesu
ora verso questa domandiamo vendetta
Bandiamosi
Bandiseibo
Bandikafu
e altri cento villaggi
Pukele
Mambasa
Banana Ecole
Niania
Avakudi
e altri cento villaggi e pigmei
in penombra nella brousse
si turano le orecchie al nostro passaggio
non parlano pioggia
notte al blocco - km 23
ma all'aurora Kisangani, l'isola, sorge

(la chiamarono Stanleyville, 1883)
piccola Europa d'Africa elegante
dei quartieri di case coloniali ora
colorate da Wagenia Baonga Lokele
Topoke il fiume Congo non muore a sera
le spiagge belghe assolate e il titano
che illimitato ruggisce e canta incontenibile

il Parsifal tra le piroghe scorre
la ferita scorre come una redenzione
abbiamo ancora un volo per Limete, Kinshasa
la plus belle la poubelle
in attesa del cadavere vecchio, esiliato
di Etienne Tshisekedi Kinshasa
lungo il chiasso di boulevard Lumumba
cumuli di scarto umano non accetto
che vende manciate di cikwange
e disperazione a due franchi
"ti ricordi di me?" e papà Nestor impazzito
indicava la luce muto
3699 km, leggo, di foresta, 148
ore, dove dappertutto il drappo e s'esibisce
Debout, Congolaaais le orme
di un'anima: ebale Congo ekokufa
na butu te.














giovedì 16 febbraio 2017

credo

c'è un tempo in cui il sarcasmo disincantato, l'apatia sterile, l'ironia annoiata lasciano lo spazio a qualcosa in cui credere per davvero, sul serio, un tempo in cui il cinismo è chiamato a dare una risposta, con tutto se stesso. e io voglio crederci.

credo che le libellule siano particelle audaci
credo che le tigri azzannino i prigionieri
credo che i serpenti sappiano zampillare
e credo che sarà questo

il modo in cui apprenderò a volare.


domenica 5 febbraio 2017

lettera a un'amica



Amica mia,

mi chiedi spesso come stia e io ogni volta ti rispondo “alla grande!”, con ogni sincerità, ma capisco che quelle poche parole non dicono poi granché, quindi cercherò di raccontarti di più, come riesco.

Sei mesi di docce fredde, a volte con secchi, a volte senza luce, e lavando a mano i soliti quattro vestiti ormai scoloriti. La bellezza dell’essenziale, dico io, che, almeno in parte, l’ho ricevuta in dono.

Sei mesi a mangiare manioca in ogni modo possibile, apprezzare fufu (polenta di manioca), pondu (foglie di manioca) e muchicha (una sorta di coste), sperimentare formiche e cavallette grigliate, amare arachidi (crude, grigliate o bollite) e tusca (i nostri pop corn), salutando da lontano formaggio, tartare di manzo e cioccolato.

Sei mesi per adattarsi al francese congolese, imparare il lingala, dover sapere anche qualcosa di lugbarati, il dialetto locale, pur sapendo che troverò sempre qualcuno che parlerà solo una nuova parlata sconosciuta, sperduta e affascinante.

Sei mesi di contrattazioni accese al mercato, dove l’odore d’olio di palma pervade ogni cosa, anche le banconote. Sei mesi di sabbia rossa nei sandali, di piedi sporchi e incalliti, di piedi nudi e distrutti per le partite a calcio tra l’erba alta.

Sei mesi di sole, sole e sole, fino ad azzerare ogni pensiero, poi la notte amare le stelle di ogni notte come se fosse l’ultima notte del mondo. Sei mesi di pelle nera, scura come le profondità della terra e gli abissi del sogno, in cui sono io quello che si sente strano, con queste mani pallide come un fantasma. Sei mesi in cui sentirsi sempre straniero e sempre a casa, anche se l’impiegato dell’ufficio dell’immigrazione rimane dietro l’angolo coi suoi visti e le sue carte bollate.

Sei mesi di messe affollatissime e, nonostante la durata sia di tre/quattro ore, vivere l’incanto dei canti e delle danze continui di migliaia di persone, fino a voler far parte di una corale, in cui sono senza dubbio, lo posso testimoniare con orgoglio, il bianco più bravo.

Sei mesi di tanti casini e avventure, di tante persone e tanti doni, di novità e amici, di militari e pazzi, di santi e di malati, sei mesi di viaggi, di zanzariere e di qualche malaria, sei mesi di tante situazioni incredibili che non basterebbe un’enciclopedia, ma anche di tanto lavoro e fatica. Sei mesi di ospedale, con qualche lavoro manuale, e in farmacia, e alla cassa, e per ogni questione informatica, e passare ogni giorno nei vari reparti, salutare, chiedere, ricevere tanti sorrisi. Sei mesi straordinari che sono già troppo, da raccontare e a volte, temo, anche da ricordare in ogni straordinario dettaglio.

Sei mesi di sveglie all’alba, e in tutti questi mesi ogni mattina mi sono svegliato e mi sveglio felice, poiché, qualsiasi cosa possa accadere qui, si vive la libertà. No, non la mia libertà, la loro: la loro libertà di essere felici, nonostante tutto e tutti.

A volte, a vederli, mi chiedo come possano resistere: non possono andare avanti così, ne sono sicuro.
Eppure sopravvivono e vivono, alla mattina si alzano, poi si affaticano, poi gioiscono, poi si addormentano alla sera e vivono, diamine!, con le stesse emozioni, sfide, con lo stesso cuore di uomo d’Europa o d’America, anche più libero.

In lugbarati ci si saluta sempre così, in ogni occasione: “ngoni ya?” (c’è qualche problema?) “ngoni yo!” (nessun problema!). In ogni occasione.

Mi ricordo ancora quando, chiacchierando con Marco (era una mattina), mi aveva spiegato la sua personale etimologia di “Afreeka”: la terra della libertà; non la riesco più cancellare dalla mente e, camminando tra le capanne, scambiando due parole con qualcuno, il loro sguardo mi conferma che ci aveva proprio azzeccato. Poiché, nonostante il dolore, la povertà, il nulla tra le mani, in fondo a tutto questo luccica vivo qualcosa, a cui non so dare un nome: speranza? fede? voglia di vivere? Proprio là nel profondo dove spesso da noi, tra il chiasso e i bagliori del benessere, non si vede che il nulla.

Che io amo l’Europa, diamine, che è casa mia, la madre mia e di quello che amo, ma da lontano mi sembra tanto piena di paure e di odio, tanto frenetica e stanca da apparire Lei barbara e brutale, disumana; ma forse è solo la lontananza.

Mi ricordo i dialoghi notturni con Bakhita, l’anno scorso, quando ogni volta eravamo stupiti e sconvolti di quanto qui respirasse un’altra vita e capivamo che una goccia più una goccia non fa due gocce, ma una goccia più grande.

Così ora inizio a pensare che il mondo non sia né pura idea né desolata materia ma consapevolezza, quella del rapporto tra questo me e l’altro.

“Bisogna attraversare l’acqua con una candela accesa” profetizzava un film di anni fa e chissà se non sarà la nostra cultura ad aiutare gli africani, ma piuttosto l’ “Afreeka” a salvare noi, a portare una candela accesa di una vita autentica attraverso il mare mostruoso del nulla.

la pioggia cade la pioggia
cenere in caduta cenere
da un incendio nei paraggi ormai lontano
e sono diventato alba all’aurora tramonto
al crepuscolo chinando il capo
la pioggia cade la pioggia
e ho camminato camminato senza casa camminato
e ho dato congedo alla mia anima fuggita
la ragazza allattava nel silenzio
come una galassia generatrice
la pioggia cade la pioggia qui
e ho calcato le colline di Watsa
e ho varcato le capanne divorate dalle termiti
e ho raccolto il sudore di un uomo
come incenso di una cattedrale piove
Dieumerci resta in coma sul suo lettuccio “dorme”
l’immagino io l’amaro
della bocca impastata di chinino
il ventre gonfio che affanna
la pioggia cade la pioggia qui e dovunque
i prati pieni di bimbi a ballare
battere le mani ballando in tondo
saltano ballano nei prati
durante la messa domenicale
le vesti bianche e lise della festa
come se questa polvere non arrossasse
di terra e fango qualcuno
muore qualcuno ride heuresement
notre dieu est congolais
la chiesa di Ayiforo che si abbronza
nei secoli dei secoli di questo sole
e tutto piove dappertutto

Ecco, anche se non sono stato chiaro a sufficienza, anche se forse ho blaterato sin troppo su di me, spero di averti detto di più: sei mesi fa sono partito, ho viaggiato molto, ma non sono ancora arrivato e non sono ancora stanco.


E tu? Come stai, amica mia?


giovedì 5 gennaio 2017

mama Espe

un giorno madre Susanne mi ha insegnato:
"ad amare si impara con gli esempi". 
io non credo di avere ancora bene appreso, ma di sicuro ho avuto in dono grandi esempi... 

ho parlato con mama Esperance
dice di non avere casa
ma una stuoia di capanna l'accoglie ogni sera
racconta di vendere arachidi a Ozua (nguba)
su un panno steso a terra
ho parlato con mama Espe
il catetere G vent-quatre gigante in quella corolla
due mani sottili accarezzano la sua piccola
ho parlato con lei che si trascina al suolo
per i corridoi per la polvere rossa
e sua figlia sarà Queen così
mi ha detto canta con me 
"Ofera fo" mentre due signore ben imparruccate la inchiodano
come un panno gettato a terra:
poliomielite. ma lei la mia mano la stringe
come un cuore pieno
"Mi ricompenserà" ti ha 
ricompensato


le amama nga azi Adro atani, eringa ama, ofera fo!
e ne Adro efe, amani etopi, ama etozo eza ma alea.
amala tsandi nya, anzi eri driri, le amama ora ku, eringa amofera.
le amamanze ava nyakudriara nyaku ovuni amari ku.


serviamo Dio, perché ci ricompenserà.
guarda, Dio ci ha donato il Salvatore, per la nostra salvezza.
anche se noi soffriamo al Suo servizio, non lamentiamoci, perché ci ricompenserà.
non speriamo in questo mondo, perché non ci appartiene.

(canzone popolare lugbara, un giorno magari ve la canterò pure...)

venerdì 30 dicembre 2016

è il passo che diviene strada - magoro eza nzela


sì, io amo le strade che corrono come amazzoni
irte e selvatiche
ma di terra, alberi, sassi.



sabato 19 novembre 2016
la strana tra Ariwara e Durba
(Repubblica Democratica del Congo - Ituri e Haut Uele)