domenica 8 luglio 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, VIII


l'uomo è l'eterno ricordo di un bambino, che nasce, che non conosce, che si getta alla ricerca.
l'uomo ricorda e anzi non può dimenticare, perché quell'infanzia è un amore che non può conoscere fine.
l'uomo non scorda perché è destinato a ricordare, ricordare anche quando il fuoco si spegne e l'inverno gli offre la cecità. l'uomo ricorda, rannicchiato nella sua infanzia di luce. 

mi ricordo anche era una giornata più dolce di una donna
e come l’ora d’amore viene dal vento ritorna al vento
ogni crocicchio si ritrova in un’altra placida attesa
col vento che lo si canta lontano
sempre più lontana infanzia [...]
era una giornata più dolce di una donna che palpitava da un’estremità all’altra
ho visto il suo corpo e ho vissuto della sua luce
il suo corpo si dimenava in tutte le stanze
offrendo degli dèi inesauditi alle cieche adolescenze
dei mucchi di ragazzi mutati in cavallette su delle immense desolazioni di spiagge
le caviglie che stridono di una felicità selvaggia [...]
le potenti cadute degli uccelli di luce
sul mondo infiammato di giornate senza uscita
e poi non ho più visto nulla
qualcuno ha serrato rumorosamente la porta
- amica piangente in fondo alla stiva –
la notte s’è rannicchiata in me

G. Klimt, Le amiche, 1917, particolare, originale perduto nell'incendio del castello di Immendorf (1945)



VIII

mi ricordo di una disillusione sinuosa che estraeva dal passato la sua amara sostanza
che navigava senza chiarore non so dove
si vedeva talvolta aprirsi sulla fronte della canzone uno specchio come un’infanzia indolenzita
che sputava l’immagine per terra
e spezzava la fulgida giovinezza - delle tracce di sangue erano sparse da qualche parte
su dei lenzuoli insudiciati da dei crepuscoli attardati
dei versi febbrili sotto la brace
mi ricordo anche era una giornata più dolce di una donna
mi ricordo di te immagine di peccato
fragile solitudine volevi sconfiggere tutte le infanzie dei paesaggi
non c’eri che tu che mancavi all’appello stellato
mi ricordo di un orologio che tagliava delle teste per indicare le ore
quelle che attendono ai crocicchi i solitari
in ogni passante solitario si squarcia un giorno il crocicchio di un giorno
e come l’ora d’amore viene dal vento ritorna al vento
ogni crocicchio si ritrova in un’altra placida attesa
col vento che lo si canta lontano
sempre più lontana infanzia
dalla terra masticata con le ceneri nella serratura delle mandibole agricole
vorace porta al ridere adulto di ferro
mi ricordo della misteriosa furia che ti spingeva dopo il passaggio di una carovana
delle catene massicce si cullavano nere nelle teste
dei galli drizzavano un canto frugale in ogni paio di sguardi
e i venti asciugavano degli umidi musi i latrati ben freschi
andavano a divampare ben lontano dove non ce n’era più di memoria
divampavano con fracasso di fiamme senza baccano
mi ricordo di una serena giovinezza che radunava alla sua vetrina
i sospiri lucenti dello schianto sparsi
senza baccano ma imbottiti di fiamme
come li amo quando resuscitano metallici di lacrime
lo sai – nevosa adolescenza – ti ricordi tu
dei rischi piroettanti nello spruzzo nero di lacrime
tra le boe dei seni mozzati
volevamo bere tutto il sangue delle rocce purulenti di sole
che tentavano di afferrare le onde dalle fauci cocenti
il mare portava delle cicatrici ancora voluttuosamente calde
a ogni gemito vuotava il suo sacco di sonagli di tanto dolore
non sapendo più che fare ti ricordi tu del baccano che ci cingeva
del nostro abbraccio che faceva impallidire i nefasti auguri della fiamma?
e la chiusa del sole cedeva sotto il peso di tanto chiarore
un occhio d’uva che lo si schianta
era una giornata più dolce di una donna che palpitava da un’estremità all’altra
ho visto il suo corpo e ho vissuto della sua luce
il suo corpo si dimenava in tutte le stanze
offrendo degli dèi inesauditi alle cieche adolescenze
dei mucchi di ragazzi mutati in cavallette su delle immense desolazioni di spiagge
le caviglie che stridono di una felicità selvaggia
dei rami che ciarlano nei fragili ruscelli
ho visto il suo corpo steso da un’estremità all’altra
e mi sono immerso nella sua luce che penetrava da una stanza all’altra
l’albero dalle fruste che strisciava di magre scie d’oscurità
il corpo immensamente doloroso – era una giornata più dolce di una donna
ho visto sotto i letti
di pesanti masse d’ombre
pronte a rubare attorno a ladri addormentati
nel palmo morbido dei loro letti
ho visto appese alle orecchie le aureole
di pesanti masse custodi dai pugni neri
e che procedevano verso il centro scrittura senza tregua
la pioggia che infrangeva delle ali grigie e dei prismi
di brevi volontà fosforescenti perse tra gli scarabocchi del ridere
il loro trotto che risvegliava i campi chiusi dagli occhi
che senza rumore si stringeva sulla vite del bordo del pozzo
di rari ansimi d’erbe folli
e poi delle catacombe di uccelli gli uccelli
in fuga attraverso i tentacoli asserviti
i fratelli addomesticati nel ghiaccio
gli occhi di ceramica fissi ai recinti delle patrie
dove le si getta le terre in delle fosse di cadaveri e d’urina
più lontano ho visto le ciglia che si premono attorno a degli uccelli – corona polare
e le potenti cadute degli uccelli di luce
sul mondo infiammato di giornate senza uscita
e poi non ho più visto nulla
qualcuno ha serrato rumorosamente la porta
- amica piangente in fondo alla stiva –
la notte s’è rannicchiata in me

*

su delle veglie di ninfee a tastoni
nevica ormai dolcemente dai culmini della notte
colore di notte – custode di rune
che non c’erano che gli abissi percossi dall’impetuoso illividamento
l’occhio adorno di girandole sta discendendo dalla sua vetrina
con una lunga scia di sibili acuti
si credeva scivolare verso delle regioni severe di biancore
dove i ghiacci cosparsi di sospiri di uno stretto
verso altri mari rianimano l’inquieta crepa
che il mattino brusco apre nel cuore della stagione
il traino dei cani che si confeziona alla caccia
che macina dei cuori leggeri le capanne di neve
dagli occhi di perla nel fondo delle provette
d’aver troppo guaito nella pioggia dei naufragi
gioiosi attorno ai pendii
dove l’amore si dibatte in gabbia suda al focolare
e grida e geme come si consuma una tormenta nella camicia di forza
delle barche disarcionate su delle sabbie mute
una tosse senza eco che bussa alla porta
il vuoto dove sbadiglia il roco blu
soffiano le profondità gutturale d’onda –
lontano è tanto materno il rimprovero che cova il silenzio dentro il verme lucente –
immobile e luminoso da così immensa tensione
restare ritto tempesta a tribordo
la rabbia ha conquistato lo spazio turbolento
e il delirio flagella i fantasmi di latte
non ci sono più che fantocci che trascinano secondo gli obiettivi
la sanguinosa nenia delle agonie navali
le deludenti esperienze
spossate dissolute emanazioni di grida deformi di iene
mescolate alle frenesie dei miasmi di cervelli
alle speranze impazienti di liberarsi
era un mattino ruvido di scorza e di vuote corazze
nella crudeltà
se giovani erano le parole che il loro senso lasciava scivolare sulla pelle
e la ruvidezza tutto attorno non premeva il fogliame sonoro
del peso dei rimorsi
che il sangue incompreso rimuginava nell’immensa devastazione del mare

*

allora ho indietreggiato sotto i portici sprofondati nel silenzio
la luna s’è rannicchiata in me – e io ero la notte intera
dalle grinfie fastose di roccia pronte a dilaniare l’umano silenzio

*

le strade pesanti perdevano le loro ali
e l’uomo cresceva sotto l’ala del silenzio
uomo approssimativo come me come te e come gli altri silenzi




giovedì 5 luglio 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, VII

QUANDO. l'interrogativo che avvolge l'azione umana.
il tempo che passa e torna, ferma e scuote.

lampante giovinezza che moltiplica gli specchi
e culla delle eco le tardive prodezze
a ogni passo ritrovata e sempre più fuggitiva
e sempre ritrovata e sempre più cieca
simile a una pianta che ci divorerebbe senza saperlo
simile a un amore che ci divorerebbe senza saperlo
tra i ghiacci una gioia che zampillerebbe senza saperlo [...]
la corona dell’albero si vedrebbe nella foglia
e in ogni foglia ci sarebbe un’altra foglia
e in ogni foglia ci sarebbe il tronco dell’albero senza saperlo
in una lingua diversa da quella di cui siamo coperti

e alla fine che vivere rimane l'unica soluzione possibile

e tanto altro e tanto d’altri
che saprebbero leggerle e recitarle
che non hanno potuto morire né vivere

G. P. Gasparini, Twiggy


VII


quando l’erba rada gela a raso del bordo
e la notte si sgretola all’approdo delle coste
quando il faro si placa su dei capelli imbianchiti
mentre fa scuro nel pianto del bimbo che dimentica di piangere
che il nero devastato di sortilegi illividisce
quando incantatore di nero il poeta o il suo ridere
sull’ombra s’abbassò ridestando il ghiaccio
quando le credenze dai duri coloriti fanno precipitare le montagne
bruciate da terrori furie attraversano alla rinfusa contorsioni e cariatidi
e affondano nel’oltraggio delle moltitudini carnali – le loro carreggiate –
quando – gracile fanale sulla faccia tirannica dell’isola –
la sirena in fuga – bolgia senza spiaggia sostanza senza scrupolo –
estrae dai rintocchi a morto il fuoco perlaceo del piacere
e dal piacere l’insolente sofferenza – domatrice di perdoni –
quando il desiderio – fumosa disinvoltura – lecca i nastri del sole
scuote le serrature – strappa le assi dalla loro schiena –
fierezza cacciatrice – oscuro bavaglio –
fiuta le oscillazioni della disgrazia e l’aroma ardente delle loro selve –
quando barbara e impaurita - uscita da una notte esausta –
allarmando i miti che turano tutte le grida –
fastosa indolenza sul cammino delle ebrezze –
vieni a scaturire nella mano – stella delle zattere che cammina tra le sentinelle
che te stessa – spossata da visioni folte
ti rigiri in soccorso del tuo cuore in terra straniera
mentre visione su visione e ombra tagliata d’ombra
cancellando dalle prospettive il voto al quale il contraccolpo t’impegna
non arrivano più a seguire la spiaggia sotto i tuoi passi –
i pesanti battenti della tua giovinezza si aprono
un vento a perdita di giorni circola in te
le finestre aperte sul frontone delle cose
fanno correre gli antichi richiami attraverso di te
senza freno si sottomettono le affannate avidità
alle asprezze carnali delle insidie di licheni
le spalancate porte le finestre insanguinate e il tuo corpo
ai colpi alle burrasche venduto – su un vassoio di sole
offre alla più alta alla più crudele
il vibrante pudore dei giorni indecisi

*

furtivo invito ai pallori australi
sotto la tenda che tende in sordina
il verbo mortale che edificato da tante successive rinascite
si rode agli archi rampanti si deruba sotto i tuoi piedi la sorgente che canta l’allettante
ti domandi dove vai le pesanti eredità d’alberi le reliquie
e perché ti muovi sotto questa insegna
giardino invaso dai cattivi amori
i provocanti pallori che ci si ritrova fuori da se stesso
ciò che sei ciò che non sai
l’insetto che balbetta che cerca tra le linee
allora ti domandi allora tu te lo domandi
il fiore che balbetta che cerca di sapere
così gioca con me e bara un gran bambinone invisibile
e mi getta da un angolo all’altro nella cerchia dei miei giorni usati
che trascinano stracci di senso provvisorio
pallori solidi di sapere e di pozzi

*

l’oblio il sepolto l’introvabile credenza
sepolta nelle maree le lande i frutti
letto abbondante d’ermetici interrogativi
dove s’ingrossa taciturno la gemma di fulmine
il tremulo stendardo
quando l’occhio non sa più correre in soccorso
il passero matura davanti al percorso senza guida
sorto dai torrenti di demoni
quando la solitudine saturata d’occhi segreti
ne richiama alla vegetazione d’orgoglio
i battenti della tua giovinezza s’aprono
e l’amore volteggia attraverso il denso ritardo
invano le alabarde hanno scompigliato la calca delle brume
che la forza augusta vedeva – sibila sibila serpente –
gli arrivi massivi dardeggiavano su di te i loro messaggi di sole
dove così tanto affetto si mescolava che la luce
sembrava coronare l’incestuoso ricordo

*

orrore contraddittorio che agita la bilancia di montagne nella tua testa
riempi di disgusto l’immaginazione per la quale la certezza della sorte t’ha sottomesso –
giorno espugnato all’insicurezza – sfogliamento di visioni –
al culmine della tua vista ha posto la prigione stravolta
quella dove vanno a perdersi le profezie irrealizzabili
quella dove vanno a perdersi le menzogne di chiarore
quella dove lo spirito non sa più riconoscersi
tra i pesi e le misure i ragionamenti inesauribili
dove i pericoli si bisbigliano la strana solidarietà
indomabile che elude le tangenti dei crinali
catenaccio dei timori
insondabile vigilanza
gli arpioni segreti

*

perché mettermi in viaggio – il mio viaggio doloroso –
perché ruotare attorno a monte del vento beffardo
o vegliare le notti malate per il perdono dei letti di mare
e saccheggiare tutto l’oro delle feste – il setacciare al boccaporto del tuo cuore – mezzanotte di gas –
separare dalle ciglia marine i vecchi ciottoli un pianto che non saprebbe maturare
quando barcollanti su dei nuovi vigori di cielo ci sono delle parole volanti
che non hanno che un breve smarrimento e si spengono nella sottomissione
ci sono delle parole cadenti
che lasciano una traccia leggera traccia di maestà dietro al loro senso a malapena di senso
o mazzo di fasci che s’impigliano a ogni sguardo di faro
alla vetrata che s’accende ma che non perde né fuoco né furia
- e dalle stelle – ma abbiamo abbastanza vegliato pensando di sbirciarle
gironzolando attorno a delle briciole d’esilio le allodolole
che ne sappiamo noi – con questo duro bitume sulle onde mal stivate in testa
e le zoppe cadenze dei rimorsi che ci facciamo – che ne sappiamo noi –
dove quello finisce e per quella visionaria escursione conduciamo questo gioco ribelle
al limite delle nostre tenebre
fino alla selva oscura
fino al vaglio distante nascosto dietro l’esitazione
fino alle foglie secche che perdono le ragioni in viaggio
come un’offesa al termine della loro grazia
e le sagaci crudeltà i singhiozzi balbuzienti degli usignoli
e tanto altro e tanto d’altri
portati in groppa d’orizzonte
verso i sacrifici fulgidi di travaglio e di pascoli
la distensa s’indurisce sotto l’attenzione
e dal suo silenzio s’insinua l’intensa attesa
l’attesa a passi infeltriti che bruca nella nostra testa
senza respiro e senza scopo
afferra le schegge della liscia mantiglia delle dune
tra le più lunghe tra le dolorose
s’arrampica la sofferenza dei fantasmi artesiani
radiosi aliti sorti dai vocabolari lari
che il freddo visibili e nuovi

*

bambino ingiallito tra i fardelli di giovinezze
e giovinezze coperte di ragioni insabbiate
insaziabile bambino tra le reliquie
l’acqua fresca ha offuscato e i suoi occhi sono tutti morti
lampante giovinezza che moltiplica gli specchi
e culla delle eco le tardive prodezze
a ogni passo ritrovata e sempre più fuggitiva
e sempre ritrovata e sempre più cieca
simile a una pianta che ci divorerebbe senza saperlo
simile a un amore che ci divorerebbe senza saperlo
tra i ghiacci una gioia che zampillerebbe senza saperlo
simile al portamento di cui quella traccerebbe con una mano fine il contorno
la corona dell’albero si vedrebbe nella foglia
e in ogni foglia ci sarebbe un’altra foglia
e in ogni foglia ci sarebbe il tronco dell’albero senza saperlo
in una lingua diversa da quella di cui siamo coperti
vedi il pieno meriggio nel cuore del frutto morso
e simili agli steli vedi i rami tenersi e tendersi
attraverso le palpebre a malapena socchiuse
simili ai molteplici linguaggi
simili alle nervature ancorate nella foglia
e fino a dove non lo si può più vedere – simili –
fino alle sfumature delle infinite parentele
eco di forme parallele il sentiero delle voci si perde
con il tuo nel mare con i rumori che offusca la didascalia
all’occhio in attesa dei ribelli

*

l’albero vive in te e tu vivi alla sua ombra
dei cerchi concentrici sfuggono con il tempo
il cuore una pietra pesante che gli affogati si legano
ti tiene al fondo delle inesprimibili corrispondenze
a malapena muovendosi tra gli errori
i legami spessi – o lenti vogatori di fuliggine
entrate per la finestra – la notte vecchia di maschere
lascia tutte le notti entrare in me la sua lunga giovinezza
che non perderà più terreno su questo suolo nemico


*

ho preso il suo gusto un po’ salino
e ho perduto le sue vie segrete
l’amore spalancato come una tomba
tanti uomini pazienti lo portano in loro fino alla tomba
tante altre ombre
le piante tese e negli erbari tante altre vite troppo lunghe notti
fanno tintinnare le loro rime di delirio
e tanto altro e tanto d’altri
che saprebbero leggerle e recitarle
che non hanno potuto morire né vivere