mercoledì 3 ottobre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo XVII

il cuore cacciavite

le mie mostruose brame di cielo corrosivo
i miei lebbrosari di nuvole
i cuori di struzzo nascondono la testa del paesaggio nella sabbia
e il pennello del dolore scivola sempre su tutte le carni
a ogni passo il problema della nostra realtà sfiora il furore delle ragioni d’azzurro e di follia
poiché questo nostro cuore cacciavite batte e gira, batte, gira e si rigira alla ricerca di quel marchingegno che spalancherà la porta davanti a noi, quel congegno diabolico della verità
non chiudere ancora gli occhi
né quelli degli altri

maschera funeraria copta; IV-VII secolo d.C.; Egitto; legno dipinto


XVII

imperfetti ritorni dalle lunghe meditazioni magiche
dalle meditazioni che indagano ossessioni e schianti
dai punti estremi dalle luminose longitudini
dagli alti sguardi dalla fatica delle nevi
imperfetti ritorni dalle lunghe meditazioni magiche
alle stagioni di quaggiù
inzuppate in queste alghe brulicanti di trasparenze
dei drappeggi d’eterocliti eternità trascinate nel fango di quaggiù
occhio sempre nuovo al ritorno delle cose
instancabile ritorno dall’alto dei sogni migratori
abito la musica nel forno dove le ombre cuociono
una lacrima – fredda traccia di lucertola – ci basta – negligenza smagliante
per spegnere in ogni luce il silenzio che ci seppellisce in delle orecchie di aurora
e portando la stella al guinzaglio l’affluente del giro del mondo tenta l’infinito con sfrigolanti imitazioni
non rinchiudere la stella non ancora nella teca degli occhi
stacca dalle banchine la chiaroveggenza dei fantasmi di cui le mani tese da catene
raccolgono il decollo leggero dalle fluorescenti profezie di suicidi
e le speculazioni inesauribili di alti studi d’atmosfere
lebbrosari di nuvole

*

sotto la cupola delle ali parlanti che sa enumerare gli aculei della grotta
la leva della notte tiene nella sua mano di ferro tutta la pesante chioma chiusa a chiave
così nel tuo cuore di folli ammiccamenti il bimbo sta in l’equilibrio
al centro del suo cuore di spugna
all’ombra della forza burrascosa e barbara
e malgrado l’esitazione lunare delle prospettive assise
nei campi di stelle alpine dove crescono gli stemmi selvaggi
gli arbusti impigliati alle capre svitano i bagliori che la foschia travolge
che il volto d’anemone lecca la macchia di luna improvvisa
e che le sopracciglia d’amara lana al di sopra del tempio di sale
s’attardano ai tentativi di schiudersi dalle prue notturne –
i cuori di struzzo nascondono la testa del paesaggio nella sabbia
e il pennello del dolore scivola sempre su tutte le carni
che siano di perle o di coltri
e su tanti altri

*

ai nucleari confini dove la nuvola palpeggia di pioggia
spreme la cima squamata contro la guancia succosa
da dove precipitano le segrete impazienze
i piaceri inesplorati di questi abissi di solfeggi
nel fondo sempre più lontano dell’affetto
si riversano sulla pianura quando mezzanotte mietitrice di tutti gli errori
rimbrotta l’infinito colore che muore della notte di piombo
del giorno di piombo

*

l’uomo celeste brocca da dove il sogno succhia la sua luce di corridoio
raccoglie il polline di pietra all’incrocio dei viali
le cineree gobbe – non ne abbiamo il tempo
l’uomo a sonagli si dipana dal sentimento quando dal mulino s’avvicinano i covoni
e il pesce orecchio stropicciato scorrazza attorno al contagocce del risveglio
ecco l’archetto tende il reticolo articolato del riso – l’aurora
e i guanti tiran fuori le effimere miniere di verità dalle tasche scoscese di vivi prestiti

*

sepolte sono le immagini nei voli alla ricerca degli albatros
e il cuore cacciavite va loro incontro
perché ti ho abbandonato bell’orlatura di sole
alla tenda della finestra vuota appuntata con dei giardini d’arcobaleno
e sebbene l’orizzonte della mia chiara voluttà sia restato a scaldarti
del calore vigile dei tulipani accanto a te
addolorato dai calabroni di nuvole la brace delle canzoni
serpeggia verso l’ineffabile disperazione di granito
la liquefazione dei giorni – i ruscelli si trasformano
e il cuore cacciavite va loro incontro

*

e quando come il sale la tua età sale alla superficie dell’acqua
filtrato attraverso tante lunghe capigliature di femmine e fumi di treni e battelli
le rimesse delle annate di scorie si svuotano nella vallata
e contro i biliardi sdentati sbattono le case degli straccioni
e i cervelli d’asfalto
ci sono anche le occasioni che offre la natura allo sbaraglio
degli olfatti senza filo di assurdi eccessi d’asfodeli
degli spaventapasseri d’anima che non si lasciano avvicinare da alcuna consolazione dei gabbiani di latte
dei vecchi giardini che volteggiano in lacrime nei fronzoli dei fremiti
le medaglie di schiuma piantate contro le macerie di nicchie
che indicano agli stigi dei nostri diluviani saperi la strada da seguire lungo gli asterischi dell’autunno
e quando il fieno fermenta lungo i fischi
che senza ragione si riversano nei profondi scoppi di risa
mentre mostrano dei denti di stalattiti dalle rugiade di cenere
e dagli sbadigli terrorizzati dei crostacei
la tremula fiamma dei pugnali sale su delle scalinate d’araucarie
sulle alte gradinate popolate di nembi
d’aeree precauzioni di vocali gracili
di cuscini che cantano degli ascessi di chiarezza che scoppiano e di venti
dove a ogni passo il problema della nostra realtà sfiora il furore delle ragioni d’azzurro e di follia
e di tanto altro e di tanto d’altri

*

non chiudere ancora gli occhi
nelle custodie di siepe sotto i passamontagna dei pascoli ogni tenda si mantiene segreta
e per la bocca assediata dagli insulti di trombe e di petardi
abbandona il sudore delle mani di resina

*

i pori della terra si aprono con quelli della pelle
e le mani scostate le ferite ancora soffici delle granate
nella terra aggrappate di paura che questa non se ne vola via come biancheria
serrano il suo rigore di sudario sporco
non chiudere ancora gli occhi
le mortifere cavalcate della solitudine
e questo slancio che si ripercuote in me annerito
si spezza in me contro le pareti si spezza
impetuoso come un getto di pesante sole che schizza
che affonda il pestello nella gola sorda del pozzo –
che questo slancio senza nome la bocca contorta dal non conoscersi
dal non poter strappare la notte profondamente piantata nel cranio
possa congiungere attraverso tumuli e polipai sul familiare vassoio
le due eclissi a manovella di maggiorana i popoli disfatti
la caccia all’onda nera che stende la folgorale conoscenza
il cielo che ristagna di falso
e l’amore svezzato d’amarezza sotto la cupola
e il sorridere di smalto innestato nella vena
la chitarra museruola delle diffidenze vistose
il facile arnese nella mano del deserto di rafia
la sorgente corretta nell’anima laboriosa
che cede alla droga di una giovinezza futura
quale crimine insospettato e quale sobrio dolore vegetale
sapranno in un giorno di zaffiro placare le mie mostruose brame
le mie mostruose brame di cielo corrosivo
d’uomo braccato dai morsi seppie degli idoli violenti
mentre la sua vita si sbriciola sotto la pioggia continua delle tentazioni
cieca alle congiure di fascini questi pani d’illusione quotidiana
sul sagrato del sonno dalle lattee incertezze di larve
dove lentamente scorrono le linfe delle nostre dottrine di morte e d’ispirazione

*

allora quella vecchiaia ci esilia dai fondi furfanti degli inferi
ci sbircia pure all’angolo del sole per dove la nostra strada è passata o passerà un giorno
ronzante d’ambizioni ancora sconosciute munita di purulenti pazienze
e sulla cancrena dei pascoli che dissolve la bocca del colore al tramonto
si prepara l’avvento dello spirito dai segni morti dell’antracite
e il cuore cacciavite gli va incontro

*

e che questo siano i nomi dei fiori le rive delle espressioni mescolate all’oro delle isole
i costumi delle strade le punte dei sensi gravi
dove tutto è vero e il giardino delle esperidi non è più lontano che una stretta di mani
dove i linguaggi fanno spumeggiare a fior di pelle la loro feccia
e tutti i supremi disinganni e le loro condotte di fuoco
sigillano il pasto pagano dai silenzi della pietra
che questa sia l’usura prodigiosa degli schiamazzi
che questo siano le vacillanti aspirazioni che circolano nelle erboristerie del sogno
e i bambù che orbitano attorno all’acrobatico cerimoniale dei remi
tanto lenta è la navigazione dello spirito che si affida ai pegni solenni della malinconia
ed è eloquente la lanterna che prelude tante emozioni a fianco della notte
ai pegni solenni della malinconia
che importa – la piroga dei prodigi traccia dei nuovi sentieri
su questa terra di cuori – il suo impero
non chiudere gli occhi
da dove escono i labirinti e gli agili agguati della carne sazia di demenza
e se apri gli zefiri ai fianchi solenni della malinconia
non sobbalzare – il circo inghirlandato di sonagli di pagode si consegna alla peonia
e le commozioni hanno consumato la sella delle cascate orchestrali
così tante notti hanno acceso la loro pipa dalle scintillanti staffe i venti mistici
che alla base della tua parola hanno preso respiro
non chiudere ancora gli occhi
alla cuccia del sole s’è ritirata tutta la musica
le radici l’hanno germogliata fino alle torture delle sfere sporadice
e costeggiandone i fianchi e le frane di metafore
gli occhi delle cifre si sono riempiti del tempo suonato al gioco delle arti

*

e l’amore umano plasmato sotto la crosta del disgusto
che coagula nel suo ventre di ferro l’inconsolabile pallore delle prigioni
e la paura che aumenta su dei pioli di verità
s’inventa e si perde nell’occhio del cinghiale
e i pianti chimerici si regolano su dei trampoli
l’odio che nidifica nella memoria del vino
si scrosta e si ritrova alle ore di selce irrigidita
e la pena – calice di rughe – che l’agreste figura del giorno immemore augura
e beve – prolifica stagione d’esequie le tempie schiodate –
e che questo sia il dolore del vento portato in fronte al nichel
che riempe l’olifante di fosca argilla delle passioni liriche dei clan scossi
le cifre si sono spianate tanto prosegue l’immensità degli istinti
verso questo divino concime – le carogne
e che questo sia il cuore che va al suo incontro d’amore o il disprezzo
ce ne saranno sempre tanti altri e tanti altri
non chiudere ancora gli occhi
né quelli degli altri

giovedì 27 settembre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, XVI

la mano di un uomo 
la mano dell'uomo è il campo dei suoi sogni e l'estensione del suo sguardo. 
la mano, ascoltate, è solo un seme e i suoi frutti sono alberi secolari di cui non conosceremo l'ombra.

dove siete voi popoli piegati sotto al peso degli dèi dell’assurdo?
dove siete voi dèi stretti attorno all’argilla della parola?
l’amore sono valanghe delle occasioni inesistite
nel calice fiero della tua età
berrai si dice ancora tante livide annate
e la tua ebrezza consumerà ogni luce
e i tuoi occhi esauriranno la luce
ma il mio orizzonte non supera più il quadrante d’un orologio
l’arena dove la corsa dei tori ribolle nel mio cuore incalzato dalle accese estati
ci sono dei fiori che s’inginocchiano
mani mozzate
ci sono anche mani che scrivono
pace agli uni gratuità disincantata agli altri a seconda del caso dei pozzi in cui cadiamo
mani incendiarie
le sole che splendono
come agglomerato di epidermidi e di geroglifici

A. Warhol, Portrait of L. Van Beethoven 390, 1987


XVI

le eclissi mostruose fitte d’alberi
tritate nei mortai delle lune senza scontri
i cenci vegetali della dimora rampante
che la nuvola trascina al conflitto degli occhi
hanno conquistato la tua ombra – xilofono di scaglie – montagna
di cui i fulvi letti di sole crepitano frigidi di volts e d’abbandoni
e nelle gole aperte a colpi di incubo
la crudeltà del vento cauterizza il fulmine e la sete della bacca

*

la speranza dai molteplici flussi clima a livello del paradiso
ha logorato il vagone e in ogni viaggiatore trovo uno scomodo domicilio e m'annoio
conosco le onte tumulate nel dolciore dei luoghi cicatrizzati
sulla scala le contingenze che ribattono alla fame di ciascuno
alla sua ribellione alla sua umiltà dove siete voi aspre avidità?
valanghe accumulate ai crocevia delle latitudini
dove siete voi popoli piegati sotto al peso degli dèi dell’assurdo?
rinchiusi nelle stalle assopite d’anfibi
nelle lagune cesellati d’intemperie e traffici
e sotto le prospettive delle arcate nelle penisole maestose d’umanità
sottomessi ad occulte turbolenze alle tirannie verbali e funebri
valanghe delle stanchezze incavate
dove siete voi dèi stretti attorno all’argilla della parola?
le braccia incrociate sulla pancia della caverna la notte magnetica cospira
già con il lento brulichio batteriologico
che da piante ci rende uomini
dalle mascelle ferine per l’impotenza di rigettare l’odio creatore
e pure l’amore valanghe delle occasioni inesistite
tra i suoi denti s’infrange l’intrepido impeto delle dinamo
nel calice fiero della tua età
berrai si dice ancora tante livide annate
e la tua ebrezza consumerà ogni luce
e i tuoi occhi esauriranno la luce
per regali troppo frequenti di libertà
c’è la luce che lava le stoviglie interiori
dei nostri miseri affari con ogni presenza
e la prostituzione alla quale ci abbandoniamo presso le stazioni
dove a ogni ora gli altri noi stessi arrivano carichi d’ingombranti bagagli di vita

*

il mio orizzonte non supera più il quadrante d’un orologio
l’arena dove la corsa dei tori ribolle nel mio cuore incalzato dalle accese estati
e sotto i passaggi imbarazzati di patetiche confessioni ci sono dei fiori che s’inginocchiano
espiando il loro smarrimento sui mercati delle pulci delle creazioni spontanee
accatastati nei caleidoscopici guardaroba le generazioni silenziose
appese ai grappoli di bolle di sapone i polpi
salgono alla putrescente escrescenza del cielo di fasce
e la voce di pappagallo grasso incastrato in una porta
tinge i getti d’acqua illuminati a giorno dove di sonnolenti decorazioni di addobbi si ostentano
un’altra città come un altro dolore
il tempo si beffa di noi

*

vicolo sotto il via-vai delle ruote impastato
mantice che solleva ritmicamente la scorza terrestre
il grembo delle parole tanto amate nutrici madri
che palpano la bramosa carne delle sere
mani che rimuovono dalla fronte dura la fitta coltre di pensieri erosi
alle labbra portano il bicchiere dove si moltiplicano i mondi
fanno la carità e sviliscono il pulito portamento dell’uomo
mani tese sul rottame che trasporterà il corpo abietto
ma il rottame è d’aria e fugge
mani che pregano davanti al rottame d’aria – senza poterlo afferrare
che dicono ad altre mani l’inarticolabile possibilità
ciò in cui l’orecchio s’avventura nelle vibrazioni irrealizzabili e fini
che sole sentono l’oscillazione del disprezzo
mani fresche e musicanti delle serene scoperte
mani capaci nei soccorsi o distruttrici
che coprono di lacrime che mettono in ordine gli erbari degli appunti e dei fatti
mani che catturano e domano le belve sorte in corpi d’uomo
forgiati alla tensione dei parti celesti
e mani che assassinano pure
vendicano l’uomo caduto nell’ossessione animale
mani mozzate
ci sono anche mani che scrivono
pace agli uni gratuità disincantata agli altri a seconda del caso dei pozzi in cui cadiamo
mani incendiarie
le sole che splendono

*

così si meraviglia della cantilenante illustrazione il viale
di cui il focolare è numero lume cuore di barbarie
e sollevando la regione sebbene l’acqua sia vigile
noi noi siamo la vivisezione botanica
che canta per i viali
e gonfia d’atlante l’estinzione opaca degli oboi

*

i bar si aprono alle confidenze e all’interno delle conchiglie
danzano le diaboliche vibrazioni attraverso cui si filtra il passato
tra i denti solidificati sul morso d’aria
ascolto ancora la sega di nuvole
che tagliò l’orizzonte della maturità dalle tracce ondeggianti
e nel tuo cuore il tormentoso contorno e al di là
il burrone s’abbuia e serrato è il brulichio di natanti nella pentola
c’è nell’uomo un paese incolto e arido che questo calpestio si ripete
con battibecchi e crudeltà o terremoti
incudine su di te le scintille degli occhi si spezzano prestigiatore
uomo approssimativo come me come te
perché non sai sparpagliare la tua anima in carte da gioco?
in carte geografiche che i tuoi solidi piedi pesteranno
comparando così la forza delle scogliere con quella delle città e dei nervi
sbucciando negli scali generazionali i frutti delle nuove età oh siccità
sotterfugi sputi d’angeli che incollano grasso di medusa
escremento del mare vendicatore

*

e il melmoso mollusco si risveglia agglomerato di epidermidi e di geroglifici
la città stretta nella boa delle sue periferie circondata a fatica dalla misera moda
e tutto fluisce nella fangosa mediocrità da dove s’è schiuso un canto vagabondo
ognuno se ne va dietro al carro funebre della propria densa esistenza
che il baccano nella sua chiassosa fossa comune fagocita e soffoca lentamente
e mentre crepa il timpano del tamburo da dove schizzano le nuove versioni l’elettrico diluvio
sfiora l’improvvisa esalazione e il filo che risale all’origine dell’angelo
alle crisalidi degli astri miagolanti che galleggiano sullo stagno del tempo
illumina sul suo tragitto lo schieramento nuziale i mancamenti di piovre lattee







mercoledì 26 settembre 2018

senza abbassare lo sguardo



stasera mi arrivano immagini strazianti e straziato sono qui a informare di una nuova strage in Congo, a Beni, una città del Nord Kivu, che stava ancora vivendo l'emergenza ebola.
amici congolesi mi hanno inviato un video in cui guerriglieri, dicono ugandesi, sgozzano 21 ragazzi, 21 civili, un video troppo cruento anche per i miei occhi.
tanto sangue che si sparge su quella stessa terra che dovrebbe unirci.
amici di Beni, di Butembo mi scrivono "Oyebisa oyo na Poto! Motema ezosala nga pasi..." Fallo sapere in Europa! il mio cuore sta soffrendo...
altri amici commentano ancora più amari: "Imagine l’outrage du monde et des médias occidentaux si, au lieu de 21 Congolais, c’était 21 gorilles qui avaient été massacrés! Ou si 1 seul ressortissant américain y avait été contaminé par ebola... Où est l’humanité?" Pensa lo sdegno del mondo e dei media occidentali se, al posto di 21 congolesi fossero stati massacrati 21 gorilla! o se un solo cittadino americano fosse stato contaminato dall'ebola... dov'è l'umanità?
non so che scrivere e non so che dire: soffro anch'io, con loro in questa notte in cui sento tutto il peso di tanta violenza, di tanto odio, di un mondo crudele, che noi abbiamo reso crudele.
crudele in Congo, un paese ostaggio della ferocia del dio denaro; un mondo folle in un'Italia in cui i migranti ormai sono il capro espiatorio della frustrazione universale; un mondo fascista a Rebbio in cui un prete amico degli ultimi viene minacciato per il bene che fa; un mondo cieco, persino a Bulgarograsso, in cui ci si fanno roghi per una persona che neppure si è voluto conoscere. 
da quando ci siamo fatti vincere dalle paure razziste, dall'indifferenza più becera, dagli istinti più livorosi?
è forse la notte del mondo, ma l'alba inizia quando si inizia a fissare l'oriente, a fissarlo tutti assieme. voglio alzare lo sguardo. io sono solo un uomo, ma voglio vivere da uomo e attraversare quest'oceano con una piccola fiamma di speranza in mano.
buongiorno, notte.


domenica 23 settembre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, XV


la nascita
la nascita è un mattino. 
ogni nascita è accompagnata da un dramma o, come sosteneva Otto Rank, la nascita è il dramma, il trauma di tutta la nostra vita.
nascere è venire alla luce, ma anche al sangue, al dolore, alla lotta; nascere è semplicemente venire a se stesso.
come un mattino, coi suoi soli e i suoi geli.
la luce nuda che si trascina ai tuoi piedi
mentre il bambino si dispone nella fila freddolosa
che segue l'eterno gemito della carne
in ogni poro della pelle
c'è un giardino e tutta la fauna dei dolori
bisogna saper guardare con un occhio più grande che una città
sul ghiaccio danzano i lupi
mattino mattino
mattino sigillato di cristalli e larve
mattino che profuma
alito allacciato alle striature dell'iris

Maschera africana dan, Costa d'Avorio

 XV


quando il sole ebbe affollato a sufficienza di record a prezzo d’oro
i velieri d’ardore e gonfiato le mammelle della terra
questi qui si guardano a gettare al cielo il loro cibo di fuoco e d’abisso

*

sul versante venato d’acanto e di ceppi
il vomere mina la nebbia di gnomi nell’argilla rachitica dei mimi
mentre dall’orecchio del polo il mondo raffigura la tempesta
degli astri incompleti i boreali salassi
le levate di lava bavano sulla vallata
d’aria abbottonata alla brina sono i boccioli dei fuochi folletti
che dalla loro colata di metallo cavano il miele dei suoni affrettati
e la mordace disperazione aggrappata all’armatura della notte
ha lasciato la presa tale è la forza della luminosa ammonizione
il vento una volta teso attorno alla sera del tuo collo nudo
ha superato gli aerei approdi del volto eterno
invita oramai per dei segreti sussurri
l’aurora suadente ad abbandonare l’inesauribile lavacro
e le onde sciolte si contraggono sotto le pieghe
della fisarmonica – il brivido assorbe e restituisce le trottole scisse
le multicolori brache si disperdono verso tutti i venti
alla gola tu prendi il violino
e poi alle tempie ausculti il disgelo della sua parola
ma subito l’uccello s’aggancia al bavero della capanna
fiaccola di rozzi presagi
appicca il fuoco al giorno che si risveglia nei nostri petti

*

si festeggiano le nozze cristalline
da dove emergono le fresche spighe dei scintillii marini
le carriole squillano già i vivi arrivi
di monete d’argento sul banco del mattino rarefatto
e lo stagno dei soli inghiotte le afroditi di foschia
il latte precoce delle loro età che schizza sulle pareti delle conche
tu sei all’ora della colazione della tua vita
i tuoi passi lavorano a maglia la desolante distanza che è già aumentata
tu cammini a testa alta di fili d’erba
tu spremi la luce dalle colline domestiche
la luce nuda che si trascina ai tuoi piedi
e che dalla tua parola bambina abbigli di lane
ma prima che le tue preghiere abbiano ingarbugliato la via atmosferica a cui l’eco s’aggrappa
il cesto delle strade che si ritrovano attorno al rocchetto
l’età è matura per catturarti nella sua rete sorniona
da dove le vie d’uscita sono tortuose e i ricordi setacciano a stento

*

e allora i rami di fuoco ricamano le crepe dello zenith
attraverso cui hai messo radici in te stesso e volontà
una pipa nella bocca della porta socchiusa
che il tuo bacio divide in due spicchi di addii alternativi
s’immobilizza docile calice
mette la museruola al campanile ardente di latrati
che ai chiassosi stravolgimenti enumera l’abbandono
chiesa presa per la vita al fianco della collina
irrigata dalla marea delle frange di bagliori che fuggono in fondo
lo sbarco delle stelle senza guida né tregua
il loro prolifico accamparsi tra noi

*

e la mano di dio tasta il polso duro del timone
regolare e senza paura il sangue frusta lo zodiaco
mentre dai genitori della fidanzata s’alza il dignitoso lamento
allattato dal rischio del tic tac della linfa vulcanica e del treno in marcia
ecco qui che la vita si taglia come il verme
e che il bambino si dispone nella fila freddolosa
che segue l’eterno gemito della carne

*

in ogni poro della pelle
c’è un giardino e tutta la fauna dei dolori
bisogna saper guardare con un occhio più grande che una città
sul ghiaccio danzano i lupi
si porta il suo bagliore sulle spalle
sul suo verde si fanno degli sport si gioca alla borsa
e spesso si canta sul tetto
da ogni nota sale dalle linee della mano sull’albero di trinchetto
scende dagli animali alle radici
perché ogni nota è grande e vede

*

seminare delle tossine nell’epidermide della terra
sotto l’albero sovraccarico di segni musicali
arrampicarsi a tastoni sulle collinette calcaree
tra le lucertole e le lapidi tombali
le rimesse di resina e gesso
i cimiteri dall’odore di trementina
sbranati dalle aguzze grinfie schierate in semicerchi
aperte come il ridere dei sonagli
e corrose dai ricordi delle lebbre diluviane
che sanno quelle della solitudine
dove le strade s’estinguono sotto le antiche fughe
un’ombra si affretta la morte

*

la brezza chiomata spazzerà le sponde gli arbusti e i corni
e il pianto che la nuvola contorta straniera
risuona sul paese in bilico un lutto che calpesta il suo grido di battaglia
nell’oceano sul velluto di sogno
la notte in disparte partorisce una nave

*

mattino mattino
mattino sigillato di cristallo e di larve
mattino di pane cotto
mattino di battenti impazziti
mattino guardiano di stalla
mattino di scoiattoli e di smerigliatori di vetrate fresche al fiume
mattino che profuma
alito allacciato alle striature dell’iris