domenica 27 ottobre 2024

Una teologia delle "ciammaruchìt"

Da anni mantengo in me inviolata una morale segreta, quasi una mistica, appresa tramite lunghi esercizi e sessioni sempre più complesse, che col tempo ho denominato “teologia delle ciammaruchìt”. Queste, in italiano “ciammaruche” o anche “ciammaruchigli”, “chiocciole” o anche “maruche” in alcuni dialetti del sud, sono quelle minuscole lumachine di terra che d’estate si affastellano nei caldi campi del meridione, ingombrando steli, spighe, muretti in pietra della campagna, come file di auto attrafficate a Milano all’ora di punta.

È stata mia nonna, già nella mia prima infanzia, a iniziarmi a questa ritualità cerimoniosa, con un’eleganza silente che consisteva nello sfilare in maniera minuziosa, armati di un appuntito stuzzicadenti, la polpa dal guscetto e poi, con uno scatto furtivo, ingerirla. Neanche il tempo di assaporare questa minima esca di carne che già ci si slanciava a ghermire una nuova vittima, con lo stuzzicadenti ancora grondante in mano. Si potevano inoltre facilmente osservare anche varianti e virtuosismi raffinati del gesto, visto che a volte  le circostanze avverse potevano costringere il commensale a utilizzare la forchetta per forare il fondo del guscio e poi, ancor più rumorosamente, a suggere il prezioso contenuto succulento: erano dei caldi baci di passione.

Ancora più appassionata era la scarpetta finale, in cui il tozzo di pane doveva rimanere attento tanto a farsi permeare dal fondo di olio, tenero come la schiuma di un sapone provenzale, tanto ad artigliare con ferocia gli spicchi cotti di aglio, dorati galeoni talvolta arenati ai margini del piatto. Non chiedetemi la ricetta, un segreto della tradizione esoterica della cucina mediterranea, ma nel mio piatto ho imparato a ritrovare passi di “Moby Dick”, duelli dell’ “Iliade” e persino versi oraziani e in famiglia la pentola di ciammaruchìt posta a centro tavola era l’epifania di un concerto mozartiano stravagante di sapori. La nostra storia e la nostra identità d’altronde coincidono con la nostra memoria. 

No, non è tutto qui.


Ci sono infatti tre aspetti che arricchiscono questa liturgia di tratti finemente teologici. Quando ero bimbo in questo apprendistato fissavo le labbra dei miei parenti intorno tutte intrugliate di olio, senza riuscire a togliere gli occhi. Gli schizzi di guazzo e i fischi dei violenti risucchi offrivano un affresco spettacolare di un’acribia raffinata e assoluta. Ogni guscio rappresentava per i famelici commensali non più una conchiglia priva di alcun valore, ma lo scrigno da sviscerare che conteneva il tesoro criptico del cosmo. La lingua poi avida accoglieva il minuscolo fagotto del bottino con la cura di una gustosa meraviglia e rivelava che ciò che è quisquilia quisquilia non è, che ogni suono partecipa di un’armonia cosmica, che è il dettaglio acquattato in disparte che sostiene l’equilibrio del mondo. Una collana invisibile di conchioline ci stringeva a un tavolo, ci legava a noi stessi. Lo zio sorrideva, mia madre correva a prendere altri stuzzicadenti, mentre mio padre versava bicchieri stracolmi a tutti. Mia nonna sferrugliava incessanti le sue labbra tra i gusci come primo violino di un’orchestra solenne, ubriaca e casta.


In quella sala abbagliata dalla luce del sud, il banchetto rustico continuava, estendendosi e prolungandosi nel pomeriggio inoltrato, e l’orario non era misurato che da un’ampia casseruola al centro della tavola imbandita, in cui i relitti cadevano uno alla volta, uno per uno, tic tac, fino a erigersi alla sommità di un’immensa piramide sepolcrale. Al rintocco dell’ora, puntuale e lieve una mano di donna sostituiva la pentola e gettava le migliaia di scheletri all’oblio perpetuo con uno scroscio abissale: così si ricominciava questo cammino di purgazione. Il tempo era solo un riflesso, un dettaglio di un orizzonte cruciale: non erano i minuti a regolare le lumache, ma queste ultime a dare il senso ai minuti. Cosa era la fatica della vendemmia, del lavoro ai campi, che ne era della cura degli olivi, le serate estive al faro se non avessimo osservato la massima diligenza prima di tutto per il piatto di ciammaruchìt? È urgente trovare un ordine delle cose in cui non venga messa in discussione l’inutilità, spensierata e sacra. Stare insieme d’altronde, far festa, non solo è un obbligo e un impegno, ma una fatica sacra, come il sudore vischioso dell’aratura o la grida disperate del parto. Così talvolta la sera ci trovava ancora a tavola, senza che fosse necessario giustificarsi o esibire permessi: avevamo pranzato assieme.


Il terzo punto capace di stupire quell’io bambino era un altro ancora, tanto più esplosivo. Era negli occhi di mio nonno Gioacchino che, prendendo il mio bicchiere, lo annegava nel vino nero, nero e profondo, nero e ruvido. “Quando si mangiano le lumache, si beve solo vino, nient’altro”. A me tale posizione pareva stramba se non palesemente assurda: per tutto l’anno mi era vietato quello che in quest’occasione diveniva obbligato? Forse a queste chiocciole era dovuto un onore che superava ogni norma quotidiana? Fatto sta, io bevevo del vino nero annacquato e, beandomi di quelle sfumature rosastre, ingurgitavo quell’intruglio più acre di quanto potessi tollerare. È questo, mi chiedo ora, che dava vita alla festa, all’ebrezza generale? Non c’era nulla di più prosastico delle “ciammaruchìt” e non c’era nessuna legge che sovvertisse così vorticosamente l’ordine del reale: “quando si mangiano le lumache, si beve solo vino, nient’altro”.


Anni e decenni dopo, la prima volta che Laura vide le ciammaruchìt, in una passeggiata sull’altopiano delle Murge, rimase stupita, quasi affascinata, leggermente attonita: “Ma quante sono? così piccole, e dovunque”. Perle lucenti di un manto gigantesco sopra Madre Terra. Stelle sparse nelle tenebre della materia. “Sono così piccole, sono dovunque”. Già comprendeva senza equivoci come non fossero solo abitanti invisibili delle distese secche, ma erano un silenzioso nume tutelare di questi luoghi, il segreto della vita qui, nascoste e assolate, una sorta di angeli che rammentavano le leggi dell’universo.

E oggi? Oggi mi impiastro ancora per ore per godermi un piccolo piatto di gusci, anche se le estati sono sempre più lontane e le giornate meno luminose, ancora rido e bevo del vino nero con mamma, zia e tutti, ancora alla fine svuoto i resti in quella casseruola centrale che risuona come una campanella per bambini, ma non è più lo stesso. Il rito è divenuto memoria e la memoria ricerca, la ricerca consapevolezza: ora, che ho perso la mia innocente meraviglia dell’infante, posso dire che ho forse scorto qualcosa in più, che dietro tutte queste follie da contadini e cafoni c’era un riflesso più profondo, miniere preziose che mi sussurrano di d-o. In questo guscio cosmico in cui siamo avvolti dalla vita come in un ventre materno, l’esistenza ci lega stretti l’un l’altro attraverso una magia silenziosa, in un flusso di grazia in cui tutti c’imbattiamo abbracciati. Questa laboriosa attività di dita e mandibole rivela con semplicità (e cristallina lucidità) che, quando c’è spazio per il tempo dell’inutilità, quando sgorga l’occasione della festa autentica, quella che ci stringe l’uno a fianco dell’altro senza più estranei, allora la vita ritrova luce.

Secoli fa i Padri della Chiesa, per tentare di spiegare il concetto di d-o, utilizzavano mille immagini e mille prefigurazioni alla portata degli ascoltatori, così i loro discorsi erano accampati da delfini, leviatani, da api e pavoni, sgargianti di colori. Se oggi potessi aggiungere uno schizzo tutto mio, esordirei aggiungendo l’allegoria di una lumaca, sebbene forse sia stato d-o che ha utilizzato queste benedette lumache per anticipare cos’è la vita della felicità perpetua e del suo regno, così in cielo come in terra: un banchetto nella stasi del tardo pomeriggio, tutti caotici attorno a un unico tavolo infinito a festeggiare, con un bicchiere di vino nero in una mano, lo stuzzicadenti già unto nell’altra. Lo zio sorride, mia madre corre a prendere altri stuzzicadenti, mentre mio padre versa bicchieri stracolmi a tutti, signori che ancora non conoscevo o invitati che avevo visto solo da lontano. Mia nonna sferruglia incessanti le sue labbra tra i gusci come primo violino di un’orchestra solenne, ubriaca e casta.





mercoledì 2 ottobre 2024

gli occhi di mia figlia

alla mia bimba piacciono i fiori

lei adora fissarli poi sfiorare le fresie arancio

a questa mia bestia piace divincolarsi in piscina

per poi uscire con gli occhi umidi di cloro

per poi avvinghiarsi primitiva al mio abbraccio

a Celeste piace ascoltare Philip Glass

e divorare di bava Tino l'elefantino

e le bottiglie blu si diverte

a pizzichettarmi la barba bianca

poi si perde nell'interpretare la maglia del pigiama

a mia figlia due cose paiono detestabili:

star immobile costretta supina

e sentirsi sola e forse

non ha torto, mia figlia

Celeste ha due occhi come il mare







giovedì 5 settembre 2024

3 settembre 2024

 tra i muriccioli del porto un pianto

avviluppato tra le grida di gabbiani un pianto

di bimba ho raccolto questa briciola bruna

e l'ho abbracciata cullando mia figlia




sabato 17 agosto 2024

Una Giraffa nell'Armadio/3: LA NOTTE DEL GIRASOLE

 André Breton, Tournesol


da Clair de Terre, 1923

rivisitato in Amour fou, IV, 1937


À Pierre Reverdy


La voyageuse qui traversa les Halles à la tombée de l’été

Marchait sur la pointe des pieds

Le désespoir roulait au ciel ses grands arums si beaux

Et dans le sac à main il y avait mon rêve ce flacon de sels

Que seule a respirés la marraine de Dieu

Les torpeurs se déployaient comme la buée

Au Chien qui fume

Où venaient d’entrer le pour et le contre

La jeune femme ne pouvait être vue d’eux que mal et de biais

Avais-je affaire à l’ambassadrice du salpêtre

Ou de la courbe blanche sur fond noir que nous appelons pensée

Le bal des innocents battait son plein

Les lampions prenaient feu lentement dans les marronniers

La dame sans ombre s’agenouilla sur le Pont au Change

Rue Gît-le-Coeur les timbres n’étaient plus les mêmes

Les promesses des nuits étaient enfin tenues

Les pigeons voyageurs les baisers de secours

Se joignaient aux seins de la belle inconnue

Dardés sous le crêpe des significations parfaites

Une ferme prospérait en plein Paris

Et ses fenêtres donnaient sur la voie lactée

Mais personne ne l’habitait encore à cause des survenants

Des survenants qu’on sait plus dévoués que les revenants

Les uns comme cette femme ont l’air de nager

Et dans l’amour il entre un peu de leur substance

Elle les intériorise

Je ne suis le jouet d’aucune puissance sensorielle

Et pourtant le grillon qui chantait dans les cheveux de cendre

Un soir près la statue d’Étienne Marcel

M’a jeté un coup d’oeil d’intelligence

André Breton a-t-il dit passe



GIRASOLE


A Pierre Reverdy


La viaggiatrice che passò per les Halles al tramonto dell’estate

Camminava in punta di piedi

La disperazione faceva girare in cielo le sue bellissime grandi calle

E nella borsa c’era il mio sogno questa fiala di sali

Respirati solo dalla madrina di Dio

I sonni si dispiegavano come la nebbia

Al “Cane che fuma”

Dov’erano appena entrati il pro e il contro

La ragazza non poteva essere vista da loro se non male e di striscio

Avevo forse a che fare con l’ambasciatrice del cristallo salnitrico

O della curva bianca su sfondo nero che siamo soliti chiamare pensiero

Qui “il ballo degli innocenti” divampava al massimo

Lentamente tra i castagni si accendevano i lampioni

La dama senz’ombra s’inginocchiò sul Pont au Change

In via Giace-il-Cuore i suoni non erano più gli stessi

Alla fine le promesse notturne erano state mantenute

I piccioni viaggiatori i baci di scorta

Correvano ai seni della bella sconosciuta

Lanciati sotto il drappeggio dei significati perfetti

Una fattoria prosperava nel centro di Parigi

E le sue finestre davano sulla Via Lattea

Ma nessuno l’abitava più a causa di quanti la frequentavano

Di coloro che la frequentavano notamente più devoti dei fantasmi che la infestavano

Gli uni come questa donna hanno l’aria di nuotare

E nell’amore entra un poco della loro sostanza

Lei li interiorizza

Io non sono lo scherzo d’alcuna sostanza sensoriale

E tuttavia la cicala che cantava tra i capelli di cenere

Una sera alla statua di Étienne Marcel

Mi ha gettato un’occhiata d’intesa

André Breton, ha detto, passa



  1. ABBIAMO UN PROTAGONISTA!

Una vita in un fiore? Potrebbe sembrare una banale semplificazione, ma alla fine potremmo concludere proprio così.

Girasole di André Breton infatti scorre come uno tra i tanti testi surrealisti del primo periodo dell’autore, una bizzarra galleria di immagini paradossali o assurde senza soluzione di continuità in cui trovarsi sorpresi, disorientati, perplessi.

Potrei perciò passare subito sbadatamente ad altre poesie, scordarmi quasi totalmente di questi versi, eppure no, mi accorgo che in qualcosa non è una lirica come le altre: già alla prima lettura può saltare all’occhio un elemento particolare, poiché nella narrazione incoerente tipica dell’universo surrealista, fatta di salti e strappi ininterrotti, tipica della scrittura automatica, emerge una figura: abbiamo un protagonista!

Se infatti nel tipico racconto poetico bretoniano i tempi verbali si intrecciano, i luoghi compaiono e spariscono senza spiegazione (siamo a Parigi, sulla Senna, o in campagna? o nell’immensità della Via Lattea?), i personaggi compaiono e scompaiono nel totale mistero, riproponendo quella consueta aura di illeggibilità, qui invece vi è un elemento chiaro: in questa vicenda agisce una protagonista, questa donna di cui l’io lirico si innamora perdutamente, questa “viaggiatrice” (v. 1), che tiene nella borsetta il sogno di Breton (v. 4), questa giovane (v. 9) ambasciatrice della purezza (v. 10), una “dama senz’ombra” (v. 14), una “bella sconosciuta” (v. 18), “questa donna” (v. 24) per la quale si può parlare d’amore: una presenza fissa e centrale per tutta la durata della composizione.



  1. LA VIAGGIATRICE ESPLOSIVA

Proviamo a questo punto ad approfondire brevemente come viene connotata questa affascinante figura:

  1. È particolare che il primo sostantivo con cui appaia la protagonista sia “viaggiatrice”, ma proprio approfondendo nell’analisi i tratti di questo personaggio si scopre un tema che domina in tutto il testo. Rileggendo infatti le sue azioni, troviamo come passi e cammini (vv. 1-2), prosegua andando in questo locale, il “Cane che fuma” (v. 7) per scatenarsi in balli (v. 12) fino a ritrovarsi in giro per le vie parigine (vv. 14-15). Questo perpetuo e vorticoso movimento espresso dalla donna conquista il mondo circostante, come “i piccioni viaggiatori, i baci di scorta” (v. 17) agitati dalla sua influenza, i contrasti tra “il pro e il contro” (v. 8), tra bianco e nero (v. 11), e anche il ponte au Change, che collega la Concergierie e la riva destra della città, prefigura un passaggio e un movimento. L’autore stesso non ne è esente: nell’ultimo verso una cicala incantata certifica il movimento di Breton, che passa, muta, “eppur si muove”.

Da questa prospettiva anche il titolo prende forma e significato nuovi, tournesol, “girasole” in italiano: il riferimento è al popolare fiore che gira, appunto, inseguendo la luce del sole, e ora è facile rivedere in esso l’innamorato che si muove in funzione del movimento della “viaggiatrice”. Tutta la poesia è pervasa da un perpetuo cambiamento, dal MOVIMENTO, dalla prima all’ultima parola. 

  1. Non c’è solo movimento, ma anche fuoco e luce. La protagonista infatti è chiamata col titolo  di “ambasciatrice del cristallo salnitrico” (v. 10); il salnitro, ovvero il nitrato di potassio KNO3, è una delle componenti per polvere da sparo, razzi e fuochi d’artificio. Dunque c’è qualcosa d’esplosivo, ma d’altronde non siamo al “Cane che fuma” (v. 12), tra i castagni non si accendono i lampioni (v. 13), i capelli non sono di cenere (v. 26)? L’incontro con questa donna non può che essere ESPLOSIVO. Nel testo però la chimica circola e si mescola alle parole. Anche i versi infatti riecheggiano questo tema in “E nella borsa c’era il mio sogno questa fiala di sali” (v. 4). A detta di Breton nessun altro elemento avrebbe potuto rappresentare meglio questa ambasciatrice che il fosforo: “forse lei non brilla, d’altronde, come il fosforo, di tutto quanto il mio spirito racchiude di intenzioni particolari?”. Perché? Se da una parte la parola “fosforo” è composta dal greco phos, “luce”, e phorein, “portare”, quindi indica ciò che illumina nel buio, dall’altra questa passante misteriosa attraversa i luoghi oscuri, Les Halles come l’inconscio, portando la luce, nella notte della realtà come in quella onirica. Ecco il sale fosforescente del sogno e del mistero, ecco “la curva bianca su sfondo nero che siamo soliti chiamare pensiero”.

Questa viaggiatrice enigmatica, questa bella sconosciuta è una donna che crea movimento, una donna esplosiva.



3. AMARE L’IDEA DI POTER AMARE

Il movimento ininterrotto e l’esplosività di una cascata. Ecco, forse ora ho capito il punto: la poesia consiste dunque in una lode di questo moto generato dall’occhio del ciclone poetico, la donna, l’amore che deflagra stravolgendo l’ordine immobile e statico dell’esistenza, se non del cosmo intero (“l’amor che move il ciel e l’altre stelle”). Questi versi perciò forse non vogliono descrivere una situazione, ma le caratteristiche dell’amore, la sua potenza, e l’immagine più chiara che lo celebra è l’altro fiore nascosto nel testo, quello più riservato rispetto al girasole del titolo, la calla, che col suo stelo (una sorta di “curva bianca su sfondo nero”?) sembra legare terra e cielo, spirito e carne: forse non a caso il francese di calla, “arum”, è un anagramma di “amour”. 

Amare il pensiero stesso di poter amare: è alla ricerca di questo obiettivo che, attraverso procedimenti di condensazioni, trasferimenti e associazioni poetici, si arriva a creare questo collage di realtà e immaginazione, dati concreti e fantasie, che va ben oltre qualsiasi rappresentazione mimetica possibile: è la donna stessa a essere idea, a incarnare l’idea di amore.

Anni dopo, in Arcano 17 (1947), Breton suggellerà la necessità naturale e logica dell’amore scrivendo che l’umanità ha solo tre scelte che la portano alla luce: la libertà, l’arte e, appunto, l’amore.


4. LA NUIT DU TOURNESOL

Ora che abbiamo già gustato un poco dell’alchimia bretoniana, possiamo andare oltre e capire anche l’importanza che questa lirica ebbe per la carriera dell’autore.

Composta nel 1923, inizialmente ebbe un ruolo subalterno e non fu considerata un testo rilevante, neanche da Breton stesso che, dopo la prima edizione di Clair de Terre (1923), si dimenticò di inserirla nelle raccolte successive e non la pubblicò nemmeno su qualche rivista. Eppure tutto doveva presto cambiare.

La notte del girasole: questo è il titolo di un articolo che Breton pubblica anni dopo:  la notte del 29 maggio 1934 incontra al Café Cyrano, in place Blanche, una donna, “scandalosamente bella” e l’aspetta all’uscita del locale. Lei gli dà appuntamento a mezzanotte, al suo spettacolo, infatti è una ballerina acquatica al Coliseum, una vecchia piscina trasformata in music hall in boulevard Rochechouart. È così che i due trascorreranno tutta la notte passeggiando da Pigalle a rue Gît-le-Coeur, passando per Les Halles e la Tour Saint Jacques. È così che Jacqueline Lamba rivoluziona la sua esistenza e diviene la sua sposa poche settimane dopo, il 14 agosto dello stesso anno. E pochi giorni dopo  Breton si ricorderà di Girasole, trascurato per anni, lo rilegge a posteriori e, stupito e sopraffatto, ne ritrova una virtù profetica: Jacqueline è stata “l’onnipotente ordinatrice della notte del girasole”, come racconta per la prima volta in La notte del girasole nella rivista Minotaure n. 7 del giugno 1935, articolo poi ripreso nel quarto capitolo di Amour fou, 1937. 

Una poesia-profezia, visto che in questi versi del 1923 venivano preannunciati avvenimenti e personaggi di più di 10 anni dopo: nella “viaggiatrice” (v. 1) Breton riconosce la stessa Jacqueline, incontrata all’arrivo della sera, “il tramonto dell’estate” (v. 1), e che si esibiva in quel music hall in un numero di natazione, “l’aria di nuotare” (v. 24); e poi i “castagni” (v. 13) a cui proprio in quell’occasione aveva paragonato i capelli del direttore del locale; i “piccioni viaggiatori” (v. 24), un riferimento a un cugino della donna, dal quale lei aveva sentito parlare per la prima volta di Breton; persino il riferimento alle strade percorse combaciava.

Le promesse della poesia si erano pienamente realizzate, Breton era davvero passato a un’altra esistenza. D’altra parte il titolo rimanda in francese anche alla cartina di tornasole, che cambia il colore indicando l’acidità o la basicità di una sostanza, che quindi denuda e rivela la verità: la poesia è profezia dell’esistenza.


5. L’AMORE APRE, NON CHIUDE

Infine, lasciate che mi soffermi poche righe sul finale: “André Breton, ha detto, passa”. Al di là di un sottile riferimento alle case di tolleranza, “maisons de passe” in francese, che rimanda alla consumazione di questa passione, leggiamo un finale totalmente onirico, con questo grillo, questa cicala, che al centro di Parigi fa l’occhiolino al poeta, con un cenno d’intesa, ma anche un finale aperto, un passaggio che non conclude, ma che apre all’infinito delle possibilità. Non è forse questo l’approccio che ciascuno di noi ha con l’esperienza dell’amore, un’apertura a un mondo in cui il futuro è un incerto, affascinante mistero? 

Sì, ora è chiaro: in questo Girasole Breton non solo ha racchiuso una storia, ma ha profetizzato la propria vita. Forse però è possibile dire ancora di più, perché in questi versi ritroviamo tra le nostre mani quel filo, sottile quanto l’aria, coriaceo quanto il cielo, che lega anche la nostra esistenza concreta al sogno del vero. Un semplice fiore.



domenica 7 luglio 2024

Una Giraffa nell'Armadio/2: VI AUGURO DI ESSERE FOLLEMENTE AMATA

UNA GIRAFFA NELL'ARMADIO

Guida poetica all'Immaginazione cap. II


Vi auguro di essere follemente amata


Nel 1936, a cavallo tra settembre e ottobre, André Breton scrive una lunga lettera per la figlia Aube, nata solo poche settimane prima, il 20 dicembre 1935, una lettera che la piccola avrebbe dovuto leggere solo dopo nel 1952, al compimento dei 16 anni. 

"Mia cara piccola bimba, che non avete che otto mesi, che sorridete sempre, che siete fatta proprio come il corallo e la perla..."

In queste righe, in cui l'autore si rivolge con un tenero e cortese "voi" alla donna che la sua bambina diventerà, troviamo un testo altamente poetico, più che epistolare, in cui la guida del Surrealismo traccia un punto sulle sue scelte, soprattutto quella della paternità, e consegna alla figlia il suo messaggio d’amore, potente e limpido. È qui che emerge un Breton intimo, commosso: la piccola Aube, "potenza perpetua della donna, la sola davanti a cui io mi sia mai inchinato", diventa il punto di unione tra necessità naturale e necessità umana, tra realtà e sogno e la sua manina fa scaturire per la prima volta la promessa del "sempre". 

"Forse è stata una terribile imprudenza ma è stata proprio quest’imprudenza a rivelarsi la gemma più bella dello scrigno"

Con questo testo, un inno all'amore assoluto, libero e disinteressato, come unico motore del mondo, Breton deciderà di concludere l’Amour fou, uno dei suoi romanzi più suggestivi, pubblicato nel 1937.

"Non nego che l’amore debba necessariamente avere a che fare con la vita. Dico che questo deve vincere e per questo deve essere innalzato a una tale coscienza poetica di se stesso che tutto ciò che inevitabilmente incontri di ostile si sciolga al focolare della sua gloria"

Così posso non pensare alla mia piccola "Crincipessa del Pongo"... ma, per capire meglio, leggete queste righe incantevoli...


Cara Scricciolina di Noiattolo (1),

nella bella primavera del 1952 avrete appena raggiunto i 16 anni e forse sarete tentata di dischiudere questo libro di cui, amo pensare, il titolo vi sarà eufonicamente portato dal vento che accarezza i biancospini… Tutti i sogni, tutte le speranze, tutte le illusioni danzeranno notte e giorno, spero, alla luce dei vostri riccioli e io, che non desidererei esserci che per vedervi, non sarò senza dubbio più qui. I cavalieri misteriosi e splendidi passeranno a briglie sciolte, al crepuscolo, lungo i ruscelli cangianti. Sotto dei leggeri veli verde acqua, con un passo di sonnambula una ragazza scivolerà sotto le alti volte, dove luccicherà solo una lampada votiva. Ma gli spiriti dei giunchi, ma i microscopici gatti che fanno finta di dormire negli anelli, ma l’elegante pistola giocattolo con incisa la parola “ballo” baderanno a non farvi vivere queste scene troppo tragicamente. Qualunque sia la parte mai abbastanza bella, o tutt’altro, che vi sarà stata data, io no, non posso saperlo, voi ne godrete a viverla, ad attendere tutto dall’amore. Qualunque cosa accada da oggi a quando avrete conoscenza di questa lettera (pare che l’insupponibile sia proprio ciò che è destinato a divenire realtà) lasciatemi pensare che allora sarete pronta a incarnare questa potenza perpetua della donna, la sola davanti a cui io mi sia mai inchinato. Che voi chiudiate un leggio su un mondo blu corvino di ogni fantasia o che vi delineiate, al di là di un bouquet della vostra camicetta, come un profilo solare sul muro d’una fabbrica (sono lontano dall’essere fissato sul vostro futuro) lasciatemi credere che queste parole, “l’amore folle”, saranno un giorno le sole in relazione con la vostra vertigine.

Queste non manterranno la loro promessa poiché non faranno altro che illuminarvi il mistero della vostra nascita. Anni or sono avevo pensato che la follia peggiore fosse quella di dare la vita. In ogni caso io non lo avevo perdonato a coloro che me l’avevano data. Può accadere che anche voi alcuni giorni non me lo perdonerete. È questo il motivo per il quale ho scelto di guardarvi a 16 anni, nel momento in cui voi non potete più avercela con me. Che dico, di guardarvi, no, di cercare di vedervi attraverso i vostri stessi occhi, di guardarmi attraverso i vostri occhi. Mia cara piccola bimba, che non avete che otto mesi, che sorridete sempre, che siete fatta proprio come il corallo e la perla, in quel momento saprete che bisogna rigorosamente escludere ogni concetto di caso dalla vostra venuta, che questa è proprio accaduta nell’ora stessa in cui doveva accadere, né troppo presto né troppo tardi, e che al di sopra della vostra culla di vimini non c’era alcuna ombra ad attendervi. Persino la grande miseria che c’era stata e che resta la mia per qualche giorno si appacificò. D’altronde io non mi ero mica scagliato contro questa miseria: accettavo di dover pagare il riscatto della mia non-schiavitù a vita, di assolvere il diritto che una volta per tutte mi ero assegnato di non esprimere altre idee che le mie. Non eravamo poi numerosi… Lei passava da lontano, tanto impreziosita, quasi giustificata, un po’ come in quello che è stato chiamato il periodo blu per un pittore che fu tra i vostri primissimi amici (2). Lei appariva come la conseguenza più o meno inevitabile del mio rifiuto di passare per dove passavano quasi tutti gli altri, che fossero in un campo o in un altro. Sappiate che questa miseria, che voi abbiate avuto o no il tempo di provarne orrore, non era che il rovescio della miracolosa medaglia della vostra esistenza: senza di quella la Notte del Girasole sarebbe stata meno scintillante.

Meno scintillante poiché allora l’amore non avrebbe dovuto sfidare tutto quel che ha sfidato, poiché, per trionfare, non avrebbe dovuto contare in tutto e per tutto che su se stesso. Forse è stata una terribile imprudenza ma è stata proprio quest’imprudenza a rivelarsi la gemma più bella dello scrigno. Al di là di questa imprudenza non restava infatti che compierne una ancora più grande: quella di farvi nascere, quella di cui voi siete il soffio profumato. Bisognava che almeno dall’una all’altra fosse tesa una corda magica, tesa fino al punto di rottura al di sopra del precipizio in modo che la bellezza andasse a cogliere voi come un impossibile fiore celeste, aiutandosi solamente col suo bilanciere. Spero che un giorno quantomeno vi piaccia pensare che questo fiore siete voi, che siete nata senza alcun contatto col suolo infelicemente fertile chiamato convenzionalmente “gli interessi umani”. Voi provenite dall’unico luccichio di ciò che fu la tarda realizzazione della poesia alla quale mi ero votato nella mia giovinezza, della poesia che ho continuato a servire, in spregio di tutto ciò che non lo era. Voi vi siete trovata qui come per incanto e semmai ritrovate un velo di tristezza in queste parole che per la prima volta rivolgo solo a voi, sappiate che questo incantesimo continua e continuerà a essere un tutt’uno con voi, che supererà necessariamente tutte le lacerazioni del mio cuore. Sempre e a lungo, le due parolone nemiche che si affrontano da quando si tratta di amore, non si sono mai scambiati sopra di me colpi di spada tanto accecanti quanto oggi, in un cielo tutto intero come i vostri occhi il cui bianco è ancora così azzurro. Di queste parole, quella che porta i miei colori, anche se la sua stella si affievolisce in quest’ora, è sempre. Sempre, come nei giuramenti che esigono le ragazze. Sempre, come sulla sabbia bianca del tempo e attraverso la grazia di questo strumento che serve a contarla ma solamente fino a qui vi affascina e vi affama, ridotto a un filo di latte senza fine che cola da un seno di vetro. Verso tutto, contro tutto avrò garantito che questo sempre è la chiave universale. Quel che ho amato, che io l’abbia protetto o meno, io lo amerò sempre. Siccome anche voi siete chiamata a soffrire, alla conclusione di questo libro vorrei spiegarvi meglio. Ho parlato di un certo “punto sublime” nella montagna. Non è mai stata una questione di fermarmi in modo definitivo a quel punto. D’altra parte quello avrebbe smesso di essere sublime e io avrei smesso di essere un uomo. Siccome era impossibile poter ragionevolmente fissarmici, non me ne sono nemmeno mai allontanato fino a perderlo di vista, fino a non poterlo più mostrare. Avevo scelto di essere questa guida, di conseguenza ero tenuto a mostrarmi degno della potenza che, in direzione dell’amore eterno, mi aveva fatto vedere e mi aveva concesso il privilegio ancor più raro di far vedere. Non ho mai smesso di esserne degno, non ho mai smesso di far sì che la carne dell’essere che amo e la neve delle vette al sorgere del sole non fossero che una cosa sola. Dell’amore non ho voluto conoscere che le ore del trionfo, di cui chiudo qui la collana su di voi. Inoltre sono certo che comprenderete quale fiacchezza mi leghi alla perla nera, l’ultima, quale suprema speranza di una cospirazione ho messo in essa. Non nego che l’amore debba necessariamente avere a che fare con la vita. Dico che questo deve vincere e per questo deve essere innalzato a una tale coscienza poetica di se stesso che tutto ciò che inevitabilmente incontri di ostile si sciolga al focolare della sua gloria.

Quantomeno questa sarà stata in eterno la mia grande speranza, alla quale non toglie nulla l’incapacità in cui sono incappato talvolta di mostrarmi alla sua altezza. Se è mai entrato in composizione con altre speranze, sono sicuro che ciò non vi tocca meno da vicino. Come ho voluto che la vostra esistenza conoscesse questa ragion d’essere che avevo chiesto a ciò che era per me, con tutta la forza del termine, la bellezza, con tutta la forza del termine, l’amore (il nome che vi pongo in cima all’inizio di questa lettere, sotto la sua forma anagrammatica, non mi rende solamente conto in modo affascinante del vostro aspetto attuale poiché, molto tempo dopo averlo inventato per voi, mi sono accorto che le parole che lo compongono, a pagina 66 di questo libro, mi erano servite a caratterizzare l’aspetto stesso che aveva assunto per me l’amore: deve essere questa la somiglianza), allo stesso modo ho voluto ancora che tutto ciò che attendo dal divenire umano, tutto ciò per cui, secondo me, vale la pena di lottare per tutti e non per uno solo, cessasse d’essere un modo formale di pensare, fosse pure il più nobile, per confrontarsi con questa realtà viva nel divenire che siete voi. Voglio dire che ho temuto, in un certo periodo della mia vita, di essere privato del contatto necessario, del contatto umano con ciò che sarebbe stato dopo di me. Dopo di me, quest’idea seguita a perdersi ma si ritrova meravigliosamente in quel batter d’occhio che avete come (e per me non come) tutti i bambini. Ho tanto ammirato, dal primo giorno, la vostra manina. Volteggiava intorno a tutto quel che avevo tentato di edificare intellettualmente e sembrava colpirlo nella sua vanità. Questa mano, che cosa insensata e quanto commisero quanti non hanno avuto l’occasione di miniarne come fosse una stella la più bella pagina di un libro! Povertà, d’improvviso, del fiore. Basta prendere in considerazione questa mano per comprendere quanto è ridicolo l’uomo quando fa il punto di quanto crede di conoscere. Tutto ciò che capisce di questa mano è che è davvero fatta, in tutti i sensi, per il meglio. Questa cieca aspirazione al meglio sarebbe già sufficiente a giustificare l’amore come lo concepisco io, l’amore assoluto, solo principio di selezione fisica e morale che possa corrispondere alla non-vanità della testimonianza, del passaggio dell’uomo.

Pensavo a questo, non senza frenesia, nel settembre 1936, solo con voi nella mia celebre casa inabitabile di salgemma (3). Ci pensavo durante la lettura dei giornali che riferivano più o meno ipocritamente gli episodi della guerra civile spagnola, dei giornali dietro cui credevate che sparissi giocando con voi a nascondino. Ed era pure vero, poiché in quei minuti il conscio e l’inconscio esistevano, sotto la vostra forma e sotto la mia, in un’assoluta dualità uno vicino all’altro e l’uno ignorava totalmente l’altro e tuttavia comunicavano a piacere attraverso quell’unico filo onnipossente che era il semplice scambio di sguardi tra noi. Di certo la mia vita allora non teneva che a questo filo. Era grande la tentazione d’andare a offrirla a quanti, senza possibilità di errore e senza distinzione di tendenze, volevano finirla costi quel che costi con il vecchio “ordine” fondato sul culto di questa trinità riprovevole: la famiglia, la patria e la religione. E tuttavia mi trattenevate per questo filo che è quello della felicità, come traspariva nella trama dell’infelicità stessa. Amavo in voi tutti i bambini dei miliziani spagnoli, simili a quelli che avevo visto correre nudi nei sobborghi di pepe di Santa Cruz de Tenerife. Possa il sacrificio di tante vite umane farne un giorno degli esseri felici! E tuttavia non mi sentivo il coraggio di esporvi con me per sostenere quel che accadde là. 

Che prima di tutto sia sotterrata l’idea di famiglia! Se ho amato in voi il compimento della necessità naturale, è nella misura esatta in cui ha fatto nella vostra persona una cosa sola con ciò che era per me la necessità umana, la necessità logica, e che la conciliazione di queste due necessità mi è sempre apparsa come la sola meraviglia alla portata dell’uomo, come la sola occasione che abbia di fuggire di tanto in tanto alla meschina malvagità della sua condizione. Siete passata dal non-essere all’essere in virtù di uno di questi accordi realizzati che sono i soli ai quali ho gradito prestare orecchio. Eravate data come possibile, come certa nel momento stesso in cui, nell’amore più sicuro di sé, un uomo e una donna vi volevano.

Allontanarmi da voi! M’importava troppo, per esempio, sentirvi un giorno rispondere in tutta innocenza a queste domande insidiose che i grandi pongono ai bambini: “Con cosa si pensa, si soffre? Come si impara il proprio nome, al sole? Da dove viene la notte?”. Come se queste stesse persone fossero capaci di rispondere! Poiché per me siete la creatura umana nella sua perfetta autenticità, siete voi che contro ogni verosimiglianza avreste dovuto insegnarmelo…

Vi auguro di essere follemente amata.

trad. Emanuele Pini



(1) In francese
Écusette de Noireuil, un gioco di parole, con uno scambio delle sillabe iniziali, per noisette d'écureuil, ovvero “nocciolina di scoiattolo”: nella stessa opera spiega che il sorriso della madre, Jacqueline Lamba, gli lasciava il ricordo “di uno scoiattolo che stringe una nocciolina verde” (Amour fou, IV).

(2) Il riferimento è al pittore Pablo Picasso, che frequentò la famiglia Breton in questo periodo.

(3) Riferimento a un luogo di trasparenza, all’esaltazione della creazione spontanea, come la casa di vetro già evocata in Nadja; sempre in Amour fou, I viene cantato il cristallo per le stesse caratteristiche.

martedì 18 giugno 2024

Il grande problema della poesia oggi

Oggi il grande problema della poesia è che non viene raccontata.

Talvolta si recita, qualcuno prova a insegnarla, chi si azzarda a spiegarla, addirittura si ignora o si nasconde, ma difficilmente si racconta.

Se fate attenzione, nelle librerie sostano centinaia di tomi intonsi con versi celestiali senza alcun accompagnamento oppure al contrario possiamo trovare manuali, pagine web con tonnellate di analisi retorico-semiotiche.

Ma la poesia raramente è raccontata: non ci si sofferma più a descrivere cosa ci fa fremere, cosa ci fa riflettere, a narrare cosa ci fa sognare, poiché la troviamo direttamente in bustine asettiche, in cassetti esclusivi oppure già spiattellata su carrelli da autopsia come cavie.

La poesia non ci apre più a mondi nuovi, ma solo a noi stessi.

Eppure in questi incontri mi sono divertito un mondo a leggere e condividere con voi testi incantati, a raccontarli, incontrarli e farveli incontrare. Mi sono proprio divertito un mondo nuovo!

Grazie a voi per esserci stati sempre numerosi e aver partecipato con identica passione, grazie per queste occasioni e spero alla prossima...





martedì 11 giugno 2024

Una Giraffa nell'Armadio/1: LE ARANCE DI ELUARD

 UNA GIRAFFA NELL'ARMADIO

Guida poetica all'Immaginazione cap. I


Le Arance di Éluard


Mi piacerebbe leggere insieme una poesia, leggere una poesia con gli occhi e con il cuore, leggere questa poesia per poi diventare capaci di sognare.

Prendiamo, un po’ a caso, questi versi di Éluard:

P. Éluard, La Terre est bleue comme une orange, in L’amour la poésie (1929)


La Terra è blu come un’arancia
Mai un errore le parole non mentono mai
Non vi permettono più di cantare
Al turno dei baci di sentirsi
I pazzi e gli amori
Lei la sua bocca alleata
Tutti i segreti tutti i sorrisi
E alcuni abiti d’indulgenza
Per crederla tutta nuda.

Fioriscono verdi le vespe
L’alba arriva attorno al collo
Una collana di finestre
Delle ali coprono le foglie
Tu hai tutte le gioie solari
Tutto il Sole sulla Terra
Sulle strade della tua bellezza.


Questo Éluard forse ci prende in giro, con l’accostamento La Terra è blu come un'arancia all’inizio di questa lirica, un’immagine che pare tanto paradossale da sembrare idiota, o forse graffiante. Un’arancia blu? E perché non un’anguria azzurra? Anche se alcuni anni dopo, nel 1968, abbiamo scoperto che il nostro è davvero un pianeta blu, con le prime foto a colori dallo spazio, è possibile blu come un’arancia? E poi proprio l’arancia, protagonista di un'altra poesia celebre dell’autore, La tua chioma d’arance nel vuoto del mondo in Au défaut du silence (1925) di qualche anno prima, protagonista anche di Alicante di Prévert, che iniziava con Un’arancia sulla tavola, di qualche anno dopo (1946). 

È solo una delle solite assurdità surrealiste? Proviamo a continuare e nel verso successivo troviamo che il poeta non solo continua la sfida, ma addirittura rilancia, se davvero le parole non mentono mai. Varcata anche questa provocazione entriamo in un’altra atmosfera, in cui la carnalità dei baci sono protagonisti di un rituale quasi metafisico. Qui è facile perdersi tra questi segreti accoppiati ai suoi sorrisi e all’idea di questa bocca, alleata, come legata al desiderio dei miei occhi.

Inizio della seconda strofa: Fioriscono verdi le vespe. Mi sembra di sprofondare in un’altra beffa insensata. Poi rileggo tra me le immagini e trovo invece che queste parole sono solo un’estrema sintesi di una scena primaverile, in cui troviamo connessi in un modo nucleare e analogico i fiori, il verde dei prati, le vespe che lo abitano. In Fioriscono verdi le vespe noi immaginiamo e in questa fantasia è racchiusa l’essenza di una primavera totale, quella stagione in cui l’amore appare esplosivo anche nel mondo fisico e naturale.

È solo alla fine di questa danza di versi che mi appare un girotondo, un immenso girotondo di parole: la Terra, l’arancia, poi l’alba che è una perla, sempre color arancio, intorno al collo, la collana altrettanto circolare e il Sole e infine ancora la Terra, come sfere di un gioco cosmico. Un girotondo che ruota tra continui cerchi, dal primo all’ultimo verso, che rimandano reciprocamente l’uno all’altro, che alla fine mi trascinano in questa danza felice. Non è il cerchio la forma dell’armonia perfetta? Non è la circolarità il percorso dell’eterno? Non è un caso che per tre volte il testo ripete tutti...tuttatuttetutto, come se, dietro queste sfere che si sostituiscono e si scambiano, si scorga un amore e un’armonia capaci di impregnare tutta l’esistenza

Infine qui Éluard ritroviamo tutto il sentimento per sua moglie Gala, Gala dagli occhi azzurri e dai capelli rossi come un’arancia. Anche Salvador Dalì anni dopo, nel 1932, fece un ritratto di Gala, Gala dagli occhi azzurri e dai capelli rossi (vi ricordate La tua chioma d’arance nel vuoto del mondo?), in un quadro che intitolò Gala Placidia, con un gioco di parole che mirava ad accostare la propria donna alla gloria di Galla Placidia, figlia di Teodosio e imperatrice dell’Impero Romano: su questa tela si vede un volto di una donna composto di decine di forme sferiche, forme simili a un’arancia.


In sintesi, ecco cosa mi hanno mostrato questi versi di Éluard:

1. Cosa è l’immagine? L’armata della fantasia, in cui più sono distanti i capi di questo gomitolo d’amore, più il filo è teso e vivo. Questo legame invisibile e irruento, illogico e appassionato io lo chiamo poesia. La Terra in cui l’uomo vive è un’arancia, tonda e arrossata, e quest’arancia è un sole, un’alba di luce, e questo sole è il mio amore.

2. L’amore non è mai un sentimento per pavidi o per metodici, in particolar modo l’amore surrealista è un atteggiamento assoluto e totale, una scelta senza alternativa alcuna, una promessa che non perdona, un miracolo che non può essere quotidiano. 

3. In un’arancia, dietro questa scorza amarognola e regolarmente palpitante, si nasconde un mondo di colori e di forme che non posso esaurire, che io non sono capace di esaurire; l’arancia è la pienezza della vita, passione della terra, la donna nelle sue forme e nella sua rotondità che si unisce all’azzurro del cosmo per generare l’amore: tutto il Sole della Terra. E questa è l’immagine di una Terra celeste

D’altronde le parole non mentono, mai.


Salvador Dalì, Gala Placidia, 1932