venerdì 3 gennaio 2025

Una Giraffa nell'armadio/5: G. MANGANELLI, "CENTURIA"


Immaginate per un attimo cento eroi, ma senza un volto, oppure cento racconti, ma senza una storia, e percepirete la meraviglia un poco sbigottita che si prova leggendo Centuria (1979) di Giorgio Manganelli. Cento risposte rimaste senza una domanda. Un capolavoro nel panorama della letteratura italiana del secondo Novecento, un’opera tanto semplice quanto straordinaria, un unicum di originalità, in cui emerge anche tutta l’influenza del Surrealismo sull’autore.



In Italia in effetti il Surrealismo non ha conosciuto la diffusione di altri Paesi europei (Francia, Spagna, Inghilterra, Germania, Repubblica Ceca) ed extraeuropei (Stati Uniti, Messico, Cile, Giappone), questo anche per ragioni politiche: il movimento si struttura nel 1924, quando in Italia Mussolini è già arrivato al governo, così la vicinanza alle idee marxiste/trockiste e la concorrenza artistica dell’avanguardia futurista limitarono il successo degli scritti di Breton e degli altri. Non è un caso che la prima traduzione del Manifesto surrealista sia avvenuta solo nel 1945, dopo la caduta del regime fascista. Anche dopo la guerra tuttavia la situazione non è mutata drasticamente: la visione politica del gruppo era invisa tanto allo schieramento democristiano quanto alla fazione del partito comunista, che era strettamente legata a Mosca. Questa situazione non solo ha impedito lo sviluppo di un vero e proprio gruppo surrealista italiano, ma non ha nemmeno fatto conoscere gli artisti e le opere principali del movimento: nella nostra penisola il Surrealismo è rimasto per anni, se non un bell’enigma lontano, una stravaganza approcciata in modo estremamente superficiale e solo negli ultimi decenni è in atto il tentativo di conoscerlo autenticamente.

Sebbene dunque la fortuna surrealista in Italia sia stata abbastanza avara, alcuni artisti e autori sono stati vicini al gruppo, come Giorgio De Chirico, esaltato in un primo tempo da Breton, il fratello Alberto Savinio, Arturo Schwarz. Altri, pur non avendo contatti diretti, ne hanno subito il fascino, come Bontempelli, Arbasino, Baj, Calvino, Echaurren e, appunto, Giorgio Manganelli (1922-1990) e hanno lasciato frutti maturi e interessanti, magari meno dogmatici ma vivamente sperimentali. Tra queste esperienze è necessario annoverare Centuria.


Giorgio Manganelli


Cosa è Centuria? Cento romanzi, anzi cento riassunti di cento romanzi, con cento protagonisti, sempre senza nome e senza volto, che approfondiscono cento situazioni paradossali. Spiegare il titolo in fondo dunque non è molto arduo.

Manganelli non ha dato titolo né un ordine logico a questi brani, che sono denominati solo da un numero; inoltre hanno tutti la stessa estensione, ciascuno infatti ha la lunghezza di un foglio esatto alla macchina da scrivere, per emulare il mito del sonetto, quella struttura rigida e vessatoria con cui l’immaginazione può misurarsi. Una prova di come la libertà più sfrenata possa essere esercitata solo in rapporto a un contesto fisso e inflessibile.

Leggere ognuno di questi brani è quindi entrare in una storia nuova, in un libro nuovo, in un universo diverso: fantasmi e corpi celesti, assassini e innamorati, sfere e sovrani che si susseguono in modo scriteriato.

Immagino dunque sono”: è in quest’ottica surrealista, parafrasata dalle parole di Enrico Baj, che Giorgio Manganelli immagina, crea, racconta. Da una parte volendo dire qualcosa di sé, dall’altra senza voler dire troppo di nulla. Questa caratteristica di una storia in nuce, lasciata costantemente vaga e indefinita, precisa la scelta dell’autore: permettere che la narrazione sia ripresa, continuata, riempita dal lettore. L’imperativo che Manganelli ci lascia è quello di completare la caratterizzazione, i dettagli, il finale di queste trame appena abbozzate e assurde. È un fatto tutt’altro che scontato, ma quasi miracoloso l’evidenza che immaginazione generi immaginazione, incondizionatamente, e allo stesso modo la fantasia dell’autore stimola quella del lettore, che non può sottrarsi al gioco.

Così, in questi orizzonti rarefatti, tra questi profili fumosi, emergono dei sentimenti, universali e umani, sentimenti mai così concreti e chiari.


E. Baj, Tre personaggi

La conoscenza del Surrealismo in Italia fu dunque sicuramente esigua e circoscritta a qualche autore più celebre, ma non mancano esempi di una corrente surrealista italiana, capolavori e testi inesauribili: leggere per credere.

Per questo motivo riporto alcuni tra questi racconti, da cui si può appurare non solo la varietà dei temi, ma anche un linguaggio preciso, talvolta asciutto, tramite il quale i pensieri, il mondo interiore, materializzandosi, diventano il vero protagonista del testo.

In particolar modo consiglio il racconto 39, una spiegazione folle ma mai così verosimile del fenomeno della guerra, poi il 43, che descrive in maniera ingenua questo animale fantastico, innocuo, la cui innocenza è, come spesso accade, l’arma più devastante, o il 75, marcato da tratti estremamente dolci. Non mancano storie d’amore, come il 37, ma, se devo palesare il capolavoro per me più cristallino, vi segnalo il testo 77, una sorta di bagatella capace però di raccontare in cosa consista il genere umano.


Alla fine rimane anche una certa sensazione di solletico: se fosse possibile rendere questi riassunti dei romanzi in carne ed ossa, collegare i puntini e colorare gli spazi, quanti altri libri di valore potrebbero essere generati? La risposta è semplice: probabilmente infiniti, almeno cento. Cento risposte rimaste senza domanda.



E. Baj, Il generale Amin e una delle sue mogli


14.


Il signore col cappotto e il collo di pelliccia, accuratamente sbarbato, uscì di casa esattamente alle nove meno dodici, giacché alle nove e trenta aveva un appuntamento con la donna che aveva deciso di chiedere in moglie. Uomo lievemente superato dagli eventi, casto, sobrio, taciturno, non incolto ma di una cultura deliberatamente non aggiornata, il signore col cappotto aveva deciso di percorrere a piedi la strada che lo separava dal luogo dell’appuntamento e impiegare il suo tempo a meditare, giacché era convinto che, quale che fosse stata la risposta, la sua vita era prossima a un drammatico cambiamento. Naturalmente apprensivo, riteneva probabile una risposta dilatoria e si sarebbe rallegrato di un «no» detto con cortesia; non osava pensare ad un «sì» immediato. Aveva calcolato un percorso di quaranta minuti, inclusivo dell’acquisto di un quotidiano, oggetto che, della sua pochezza. Poiché tre erano le risposte possibili, aveva deciso di dedicare trenta minuti complessivi al «no» ed alla «dilazione», otto al «sì», e due minuti al giornale. All’ottavo minuto di strada, mentre tentava di persuadersi che un «no» non avrebbe precluso una vita utile ed onesta, udì la prima, violenta esplosione. In realtà, da tempo nel suo paese si discuteva dell’opportunità di una guerra civile, ma il signore del cappotto, pensoso del proprio avvenire, non vi aveva fatto caso. Anche allora non capì. Due minuti dopo, vedendo esplodere il Ministero dell’Istruzione, ebbe dei sospetti; e i carri armati finirono di persuaderlo. Egli aveva qualche opinione politica, ma un poco esangue. In quel momento, egli pensava alla sua possibile sposa con virile apprensione. Le cose accaddero rapidamente: alle nove e sette il Primo Ministro venne fisicamente defenestrato, tre minuti dopo il Presidente veniva rincalcato nella canna fumaria e il Re entrava nel palazzo degli avi; era un Re vecchio ed aveva fretta; le fucilazioni cominciarono subito. Il signore col cappotto venne fucilato alle nove e trentotto, contro il muretto di una chiesa in falso gotico. Lo fucilarono perché aveva ancora in mano il giornale acquistato al mattino presto, quando il Paese era ancora repubblicano. Non gli dispiacque morire; ma lo irritarono lievemente quei due minuti che avrebbe potuto dedicare al «sì».



21.


Ad ogni risveglio, il mattino - un risveglio riluttante e che si potrebbe definire pigro - il signore inizia con un rapido inventario del mondo. Da tempo si è accorto che ogni volta si sveglia in un punto diverso del cosmo, anche se la Terra che è suo abitacolo non appare estrinsecamente mutata. Da bambino, egli si era persuaso che, nei moti attraverso lo spazio, la Terra passa talora nei pressi o addirittura all’interno dell’inferno, mentre non le è mai concesso di passare all’interno del paradiso, perché tale esperienza renderebbe impossibile, superflua, irrisoria, ogni ulteriore prosecuzione del mondo. Quindi il paradiso deve evitare la Terra ad ogni costo, per non ferire i piani accurati e incomprensibili della creazione. Anche ora - uomo adulto, che guida un’automobile di sua proprietà - qualcosa di quella ipotesi infantile non l’ha lasciato. Ora egli la ha lievemente laicizzata e la domanda che si pone è più metaforica e apparentemente distaccata: egli sa che, durante il sonno, tutto il mondo si è spostato - come dimostrano i sogni - e che ogni mattino i pezzi del mondo, siano o meno impegnati in una partita, sono diversamente collocati. Egli non pretendi di sapere quel che significa questo spostamento, ma sa che talora avverte la presenza di abissi, tentazioni di strapiombi o rare, lunghe pianure per le quali vorrebbe rotolare - gli accade di pensare a se stesso come a un tondo corpo celeste - à lungo; talora ha una confusa impressione di erbe, altre volte una sensazione eccitante, ma non di rado sgradevole, di essere illuminato da più soli, non sempre reciprocamente amici. Altre volte ascolta nitido un fragore di onde, che possono essere temposta o accalmìa; altre volte ancora è la sua propria posizione nel mondo che gli si svela brutalmente: ad esempio, quando mascelle crudeli e attente lo stringono alla nuca, come deve essere accaduto innumere volte ai suoi antenati sfiniti tra i denti di belve di cui non ha mai visto il volto. Da tempo ha imparato che non ci si sveglia mai nella propria stanza: ha, anzi concluso che non esiste stanza, che pareti e lenzuola sono un’illusione, una finta; sa di essere sospeso nel vuoto, di essere, lui come ogni altro, il centro del mondo, dal quale si dipartono infiniti infiniti. Sa che non potrebbe reggere a tanto orrore e che la stanza, e perfino l’abisso e l’inferno, sono invenzioni intese a difenderlo.



34.


Costui è veramente un abitudinario. Veste sempre, da sempre, quale ora lo vedete, un completo grigio: ha tre vestiti identici, che indossa a turno. Ha tre paia di guanti scuri, tre paia di cappelli. Si sveglia alle sette meno cinque, si alza alle sette. Custodiscono l’esattezza del suo risveglio tre sveglie sincronizzate, e ricondotte all’ora di Greenwich; altre tre sveglie sono costantemente affidate alle cure di un unico orologiaio, del tutto consapevole della gravità del suo compito. Alle otto è pronto per uscire. Un cammino di trenta minuti lo separa dal suo posto di lavoro: ha rinunciato a servirsi di mezzi pubblici, a causa della loro imprevedibile inesattezza. Alle cinque e quarantacinque è nuovamente a casa. Riposa trenta minuti. Non legge né libri né giornali, che egli considera depositi di inesattezze. Mangia sobriamente; è astemio. Cammina per un’ora, in casa o attorno casa, a seconda del tempo. Detesta il tempo, e lo considera un segno della fondamentale inesattezza dell’universo. Rifiuta vento o pioggia. Alle dieci e trenta si corica. A quel punto, una fiera lotta si scatena in quest’uomo fermo e pacato; infatti, egli detesta i sogni. Talora sogna di morire, di venire ucciso, e se ne rallegra, giacché, suppone che venga in quel modo punito e distrutto l’io dei sogni. Si allena a dimenticare i sogni, a persuadersi che non esistono. Tuttavia, appunto il fatto che non esistono, ma hanno forma, lo turba profondamente. Anche il non essere è capace di disordine. Nel suo quotidiano tragitto egli esegue quello che chiama un “esercizio spirituale”; esso consiste nella limitazione del mondo ad un itinerario angusto, nel cui ambito sempre meno possa accadere. Questo “esercizio” in realtà nasconde un disegno più sottile, pervicace e sapiente. Egli vuole fare del suo itinerario,della sua casa un luogo unico, centrale all’ordine del mondo. Vuole che il suo passo sia il pendolo esatto del mondo. Egli è convinto che il mondo non sia in grado di tener testa alla sua esattezza. Pertanto, egli è giunto a coltivare un’ambizione anche più temeraria. Un giorno egli eseguirà un gesto inesatto, incompatibile col mondo; e questo, egli sa, verrà lacerato e disperso come un vecchio giornale in un giorno di vento. Sul Trono di Dio governerà sul Nulla epurato di sogni l’impiegato di concetto vestito di grigio.



37. 


La donna che egli aspettava non è venuta all’appuntamento. Tuttavia egli - l’uomo vestito in modo più giovanile di quanto non gli si addica - non se ne sente offeso; anzi, non ne soffre affatto. Se fosse più attento, dovrebbe confessare di provarne un lieve ma indubitabile piacere. Egli può fare varie ipotesi sui motivi per cui la donna non è stata puntuale al convegno. Mentre sonda le ipotesi, egli  non si allontana dal punto designato dell’appuntamento, ma solo un poco se ne apparta, come se fosse un covo in cui qualcosa di lei, o lei per intero, sta acquattata. Forse se n’è dimenticata. Poiché egli ama pensare se stesso come persona inconsistente, si compiace di tale ipotesi, che significherebbe che lei pure l’ha identificato come esiguo, casuale, e dunque tale che il dimenticarlo è il solo modo per ricordarlo. Potrebbe aver deciso in un momento di bizzarria, forse di collera, giacché è una donna impetuosa; ed allora gli avrebbe riconosciuto la sua funzione di molestia, una minuscola piaga, certo non un affanno del cuore, ma qualcosa che lei non può allontanare dalla propria vita, o almeno da talune giornate. Può aver sbagliato l’ora dell’appuntamento, e in quel momento egli s’accorge di non aver chiaro, lui appunto, quale fosse quell’ora. Ma non se ne turba, giacché gli pare naturale che l’ora sia imprecisa, giacché egli si considera perpetuamente in appuntamento con la donna che non è giunta. Non potrebbe essere un errore di luogo? Sorride. Vuol forse dire che lei si ripara, si rifugia in un qualche luogo segreto, e che l’assenza è allora paura, fuga, o anche gioco, richiamo? O che l’appuntamento era dovunque, per cui nessuno in realtà ha potuto mancare l’altro, né per il luogo né per il tempo? Dunque, egli dovrebbe concludere che in realtà l’appuntamento è stato non solo rispettato, ma ubbidito con assoluta precisione, anzi è stato interpretato, capito, consumato. Il lieve piacere si sta trasformando in un inizio di gioia. Decide anzi che l’appuntamento è stato talmente vissuto, che ora non può dare nulla di più alto e totale di se medesimo. Bruscamente, volta la schiena al luogo dell’incontro, e sussurra teneramente “Addio”, alla donna che si appresta ad incontrare.



39.


Un’ombra corre veloce tra i reticolati, le trincee, i profili notturni delle armi; il portaordini ha fretta, lo guida una furia felice, una impazienza senza tregua. Ha in mano un plico, e deve consegnarlo all’ufficiale che comanda quel ridotto, luogo di molti morti, di molti fragori e lamenti e imprecazioni. Passa il portaordini agile tra i grandi meati della lunga guerra. Ecco, ha raggiunto il comandante: un uomo taciturno, attento ai rumori notturni, ai frastuoni lontani, ai rapidi fuochi inafferrabili. Il portaordini saluta, il comandante — un uomo non più giovane, il volto rugoso — scioglie il plico, lo apre, legge. Lo sguardo rilegge, attento. “Che vuol dire?” stranamente chiede al portaordini, poiché il messaggio è in chiaro, e chiare e comuni sono le parole con cui è stato scritto. “La guerra è finita, comandante” conferma il portaordini. Guarda l’orologio al polso: “È finita da tre minuti”. Il comandante alza il volto; e con infinito stupore il portaordini vede su quel volto qualcosa di incomprensibile: un principio di orrore, di sgomento, di furore. Il comandante trema, trema d’ira, di rancore. di disperazione. “Vattene, carogna” ordina al portaordini: questi non capisce, e il comandante si alza e lo colpisce con la mano, in faccia. “Via, o ti uccido”. Il portaordini fugge, gli occhi pieni di lacrime, di paura, quasi lo sgomento del comandante l’avesse contagiato. Dunque, pensa il comandante, la guerra è finita. Si torna alla morte naturale. Si accenderanno le luci. Dalla posizione nemica sente venire delle voci: qualcuno grida, piange, canta. Qualcuno accende una lanterna. La guerra è dovunque, non ce più alcuna traccia di guerra, le armi sono definitivamente inutili. Quante volte hanno mirato per ucciderlo, quegli uomini che cantano? Quanti uomini ha ucciso e fatto uccidere, nella legittimità della guerra? Perché la guerra legittima la morte violenta. E ora? Il comandante ha il volto coperto di lacrime Non è vero: bisogna far capire subito, una volta per sempre, che la guerra non può finire. Lentamente. faticosamente, solleva l’arma e prende la mira di quegli uomini che cantano, ridono, si abbracciano, i nemici pacificati. Senza esitazione, comincia a sparare.



43. 


L’animale giglio non è, propriamente, un animale; anzi, mite, e anche blando; l’animale giglio non corre, anzi, per l’esattezza, può trascorrere anni nella più assoluta e minuziosa immobilità; l’animale giglio non si nutre di carne di esseri vivi, e tuttavia si comporta come se li avesse già mangiati; egli ha, si dice, una sorta di memoria del gusto, nella quale è collocata una traccia di carne di animale ucciso e divorato: mentre, non avendo bocca né denti, per via di quella sua blandizie, l’animale giglio non potrebbe assolutamente mangiare carni di esseri uccisi. Malgrado queste sue caratteristiche, l’animale giglio viene studiato e classificato come feroce, veloce, carnivoro. Assicurano i tecnici che nessun altro modo di descriverlo è adeguato, sebbene essi riconoscano che l’animale giglio non mostra nessuno dei comportamenti tipici dell’animale feroce, veloce, carnivoro. La verità è che tutti, sia gli studiosi che indagano l’animale giglio nelle taciturne diapositive, o per sentito dire, spaurite e golose chiacchiere di caffè, sia gli indigeni, sanno che l’animale giglio va ucciso e occorre ucciderlo perché, appunto, è blando, statico, astinente. Tutte le sue qualità, che in teoria potrebbero farne un animale domestico innocuo e compagnevole, gli conferiscono una potenza temibile perché insinuante, sebbene sia difficile dire in che modo codesto animale si insinui. Insomma, esso è feroce non sebbene ma perché blando, e chiunque coltivi la sua blandizie ne morrà. Dunque, che l’animale giglio sia paradossalmente feroce, pare certo; e dunque ne viene che bisogna ucciderlo. Ma questo appunto è difficile. Esso non pare avere cuore da trafiggere, né capo da mozzare, né sangue da effondere. Chiunque abbia cercato di ucciderlo con frecce, anche rese temibili con fuochi resinosi - colpirlo è agevole perché, s’è detto, è immobile - lo ha attraversato senza recargli alcun danno; avvicinarglisi per dar di forbici nel suo corpo - ma che corpo è mai? - è gran pericolo, giacché da presso l’animale giglio può esercitare la sua terribile blandizie. In realtà, un modo certo per ucciderlo non si conosce in modo assoluto; ma gli indigeni suggeriscono queste guise: lanciare frecce prendendo la mira dalla parte opposta; reclutare cento giovani che, a turno, sorridano, immoti, all’animale giglio; infine, ed è il miglior metodo accertato, ucciderlo in sogno, in questo modo: si prende il sogno in cui è l’animale giglio, lo si arrotola e infine straccia, senza gesti  d’ira; ma l’animale giglio di rado si lascia sognare.



52. 


Il drago, ovviamente, è stato ucciso dal cavaliere. Solo un cavaliere può uccidere un drago - ad esempio, non un militare di carriera, né un campione sportivo. Ci sono cavalieri che si vantano di aver ucciso più draghi: mentono. Non è nel disegno del mondo consentire l’uccisione di più di un drago ad un cavaliere; e a molti anche questo è negato; taluno, anzi, viene dal drago abbattuto, prima che questi cada sotto i colpi di altro, predestinato cavaliere. Il drago giace trafitto, dissanguato e tuttavia esangue, in mezzo a bisce, rane, conchiglie; codesti animali non mostrano la parentela del drago, ma al contrario la sua estraneità. Infatti, il punto che non deve sfuggire è che il drago è eterogeneo rispetto al luogo della propria morte, rispetto agli animali, al cielo, e soprattutto rispetto al cavaliere. Dei draghi non si molto, ma in genere i cavalieri ignorano anche il poco che se ne conosce. Che esistano regioni in cui i draghi dimorano, regioni lontane e forse tecnicamente inaccessibili, molti credono, e pare verosimile. Da quelle regioni si allontanano; viaggiano sempre soli: nessuno ha mai saputo di una coppia di draghi, una famiglia, due draghi amici. Il drago si dirige verso il luogo della propria uccisione. Che si sappia, questo è il modo di morire consentito ai draghi. Il drago si dirige verso le mura della città, in cui tuttavia non penetra mai; non ha interesse per i villani, ma cerca cavalieri, giacché solo da uno di questi otterrà morte. Talora il drago si apparta in una grotta, se ne fa ricetto, accumula sassi sulla soglia. Il drago emette dalla bocca fuoco: che tiene luogo di favella. Egli ha verosimilmente molte cose da dire, ma la lunga solitudine l'ha reso disavvezzo, e l'intima fatica esce in lingue di fiamma. Colpisce, in tutta la vicenda del cavaliere e del drago, l’assoluta inintelligenza del cavaliere nei confronti del drago. Non ne avverte le distanze, la solitudine, la grandezza immane e deforme, né decifra i segni del fuoco. Ignora le fatiche che il drago ha voluto affrontare per giungere puntuale ad un terribile appuntamento. Il cavaliere ignora di essere egli stesso giunto ad un appuntamento. Se, fermo sul suo bel cavallo, poggiasse la lancia al suolo, reggendola pianamente, senza ira e paura, il drago, vedendo delusa la sua brama di morte, forse inizierebbe il colloquio.



65. 


Il cavaliere che ha ucciso il drago - un bell’uomo, di gran portamento, snello e pulito, sebbene mortale - su lega la gran massa di temibile carne alla sella e si mette in strada verso la città. È orgoglioso dell’impresa, sebbene si renda oscuramente conto che la sua lancia è stata guidata dal destino e dalla stupidità in parti eguali; passa per villaggi, e la gente, abituata al terrore del mostro, si rinchiude in casa e barrica le porte; il cavaliere ride, e pensa che il re in città lo abbraccerà davanti a tutto il suo popolo e, almeno per la forma, gli offrirà la figlia in sposa. Il cavaliere, trascinando il corpo, i denti, gli occhi semichiusi del drago, passa accanto ad un cimitero, una chiesa, una solitaria casa; ma nessuno si affaccia a rendergli omaggio: neppure i morti, che si limitano ad un mormorio che potrebbe anche essere di riprovazione; perché il prete non esce a benedire l’uccisore? Perché gli abitanti della casa non escono a baciargli le staffe? Forse hanno paura di lui, l’uomo che li ha liberati dal mostruoso mostro? Il cavaliere è corrucciato, e tanto più orgoglioso della sua impresa. Eccolo varcare la porta della città, inoltrarsi per la via grande che conduce alla reggia; la strada è affollata, ma mentre egli avanza, sente che qualcosa di strano sta accadendo: la gente ammutolisce, si ritrae, volge gli occhi ed egli sa che non lo fanno per non scorgere l’orribile mostro, ma per guardare lui, il cavaliere. Non può non accorgersi che un senso di ribrezzo lo sta avvolgendo; i cittadini hanno non paura, ma schifo di lui. Il cavaliere è esterrefatto, indignato, affranto. Una finestra si chiude seccamente, ode o crede di udire rapidi insulti. Ma non ha ucciso il drago? Non erano tutti d’accordo che il drago andava ucciso? Non era fitta, la storia, di paladini che uccidevano draghi e ne ricavavano donne e palazzi e motociclette giapponesi? Ha forse sbagliato drago? No, nessuno aveva mai parlato di due draghi, i draghi non sono due, in nessun caso. Vorrebbe provare ira, ma è molto malinconico; non capisce. Si rende conto che non è il caso che vada dal re, ed eccolo far sosta ad un crocicchio, mentre la gente si allontana. Che fare? Il cavaliere scende da cavallo, e si volge a guardare il drago, brutto e calmo. Per la prima volta ne scruta il corpo, la faccia, la dura pelle, gli sproni irti; che sentimenti prova, il cavaliere? Per la prima volta è sbigottito e sente la sua sorte di uccisore del drago come risibile e turpe; e, confusamente, si rende conto che vivrà il resto della sua vita in contemplazione di quell’incorruttibile cadavere.



75.


Una donna ha partorito una sfera; si tratta di un globo dal diametro di venti centimetri; il parto è stato facile, senza complicazioni. Si ignora se la donna sia o meno sposata; un marito avrebbe supposto una relazione col demonio, e l'avrebbe cacciata o forse uccisa a martellate. Dunque non ha marito. Si dice sia vergine. In ogni caso è una buona madre: è molto affezionata alla sfera. Poiché la sfera non ha bocca, la madre la alimenta immergendola in una minuscola vasca colma del suo latte; la vaschetta è decorata di fiori. La sfera è del tutto liscia. Non ha occhi, né organi per muoversi, e tuttavia rotola per la stanza, sale le scale, rimbalzando leggermente, con molta grazia. È fatta di una materia più rigida della carne, ma non completamente anelastica. Nei suoi movimenti rivela una volontà decisa, qualcosa che si potrebbe chiamare chiarezza di idee. La madre la lava ogni giorno, la nutre. In realtà, non è mai sporca. Apparentemente, non dorme, sebbene non disturbi mai la madre: non emette alcun suono. Tuttavia la madre crede di sapere che, in certi momenti, la sfera è ansiosa di essere toccata dalla madre; le pare che in quei momenti la sua superficie sia più morbida. La gente evita la donna che ha partorito la sfera, ma la donna non se ne accorge. Tutto il giorno, tutta la notte, la sua vita ruota attorno alla perfezione patetica della sfera. Sa che quella sfera, per quanto prodigiosa, è estremamente giovane. Lentamente, la vede crescere. Dopo tre mesi, il suo diametro è cresciuto di quasi cinque centimetri; talora la superficie, di regola grigia, assume un lieve colorito rosato. La madre non insegna nulla alla sfera, ma cerca di imparare da lei: ne segue i movimenti, cerca di capire se “vuol dire” qualcosa. La sua impressione è che la sfera non voglia dire nulla, e che tuttavia le appartenga. La madre sa che la sfera non resterà sempre nella sua casa; ma le interessa questo appunto, di essere stata coinvolta in una vicenda insieme sgomentevole e del tutto tranquilla. Quando le giornate sono calde e assolate, ella prende in braccio la sfera e cammina attorno alla casa; talora si spinge fino ad un giardino, ed ha l’impressione che la gente si stia abituando a lei, alla sua sfera. Le piace farla rotolare sulle aiuole, inseguirla e catturarla, con un gesto di spaventata passione. La madre ama la sfera, e si domanda se mai nessuna donna sia stata madre quanto lei.



77.


In questa città, ciascuno possiede qualcosa che è indispensabile ad un altro, e di cui il detentore non sa che fare, o che ignora addirittura d’avere; tutti sanno di essere privati di qualcosa che è del tutto indispensabile, ma nessuno sa chi lo detenga, e nemmeno se chi lo detiene lo sappia, o nel caso che lo sappia, se sia disposto ad offrirlo. Si aggiunga che non capita mai, a quel che si sa, che due persone abbiano ciò che è indispensabile all’altro, per cui, nel caso che si riconoscessero, la situazione sarebbe relativamente agevole, riducendosi ad uno scambio paritario. Dunque, chi detiene qualcosa che è indispensabile ad altri, non avrebbe alcuna convenienza a cederlo, a meno che questo altro non fosse in grado di trovargli ciò che è indispensabile a lui. Ne deriva che chiunque desideri veramente ciò che gli è indispensabile, non deve tanto, o non deve solo cercare colui che detiene ciò che gli è indispensabile, ma anche, o in primo luogo, colui che presume detenga ciò che è indispensabile a colui che detiene ciò che è indispensabile al questuante. In questo modo, si è creato nella città un sistema di accattonaggio, inchiesta, ricerca, investigazione, questua,  che coinvolge tutti, ma in modo indiretto. È lecita la domanda: in qual modo possa il questuante sapere che mai sia indispensabile a colui che detiene ciò che è indispensabile al questuante. In realtà, non ci sono regole sicure, ma si è formato un poco alla volta un modo di indovinare, di dedurre che segue all’incirca un percorso come segue: qualcosa mi è indispensabile, ma non è indispensabile a colui che lo detiene; ora, se ciò che è indispensabile a me a lui è inutile, ciò significa che ha bisogno di una cosa che deve essere estranea a ciò che mi è indispensabile, ed anche estranea a tutto ciò che io detengo, ma in qualche modo confinante con l’uno o con l’altro. Dunque, analizzando se medesimo, taluni credono di poter capire che cosa, almeno all’incirca, sia indispensabile all’altro. Ma a questo punto, occorre rintracciare la persona che detiene quella cosa indispensabile, la quale, a sua volta, ha convenienza a cederla solo se gli viene fornita la cosa che a lui è indispensabile. Sembrerebbe un problema insolubile, ma poiché tratta di cose indispensabili, nessuno può rinunciare a cercare una qualche soluzione, e la ricerca della cosa indispensabile finisce per diventare a sua volta indispensabile, e non è del tutto chiaro se, in quella città, se ne desidera la conclusione.

lunedì 23 dicembre 2024

Ricordo di un'amica

   Chère Sylvie,

Je t’écris parce que je suis loin, si loin que ce soir à Ariwara je ne peux pas revenir, si loin que même les larmes ne peuvent sortir. Penser que tu n’es plus là, c’est imaginer une route interrompue dans le néant et la vie est si cruelle à couper une tige sans faire fleurir ses couleurs.

Sylvie, tu étais ma sœur et les longues après-midi nous bavardions dans la salle de l’hôpital ou je venais te chercher à la maison. Tu m’as accueilli avec ta voix profonde, tes yeux durs et doux, une plaisanterie moqueuse.

Si je pouvais me tenir devant ta dépouille, tenant le thé du deuil dans mes mains, parlant à tes cendres muettes et lui rappelant comment tu me guidais dans le labyrinthe du marché, ton rire sec quand je faisais quelque chose d’inconvenant, des promenades pour aller à la chorale et de cette fois où tu m’as préparé des chapati insuperables.

Même à l’époque, il y avait des moments, même des heures, où nous faisions compagnie sans parler, mais ton silence n’a jamais été aussi lourd qu’aujourd’hui, cruel et asphyxiant. Il ne me reste plus rien : je n’entendrai pas tes mots chuchotés, tu ne me demanderas plus de bonbons pour rester éveillée la nuit, nous n’aurons même pas un dernier salut.

Sylvie, la nuit est finie et, loin des milliers de kilomètres, au-delà des mers désertes montagnes, ta veillée funèbre aussi est terminée : je vois une route interrompue, car même si je reviens, je ne pourrai jamais revenir à toi, je ne pourrai jamais retourner dans "notre" Ariwara et, Quand je remets les pieds dans notre hôpital, je ne trouverai que ta cabane vide. Adieu, ma sœur, en espérant que ton silence terrible puisse redevenir une fleur.


   Cara Sylvie,

ti scrivo perché sono lontano, tanto lontano che stanotte ad Ariwara non posso tornare, tanto lontano che anche le lacrime non riescono a uscire.

Pensare che tu non ci sia più è immaginare una strada interrotta nel nulla ed è così crudele la vita a recidere uno stelo senza far fiorire i suoi colori.

Sylvie, sei stata mia sorella e nei lunghi pomeriggi chiacchieravamo in corsia all’ospedale o venivo a cercarti a casa. Tu mi accoglievi con la tua voce profonda, i tuoi occhi severi e dolci, una battuta beffarda.

Potessi stare davanti alla tua salma, tra le mani il the bollente del lutto, parlerei al tuo cenere muto e gli ricorderei di come mi guidavi nel labirinto del mercato, della tua risata secca quando facevo qualcosa di sconveniente, delle passeggiate per andare alla corale e di quella volta che mi preparasti dei chapati insuperabili.

Anche allora c’erano momenti, anche ore, in cui ci facevamo compagnia senza parlare, ma il tuo silenzio non è mai stato pesante come ora, crudele e asfissiante.

Non mi rimane più nulla: non sentirò le tue parole sussurrate, non saprò mai se davvero ci fu una storia con Benjamin o meno, non mi chiederai più delle caramelle per restare sveglia nel turno notturno, non avremo nemmeno un ultimo saluto.

Sylvie, la notte sta terminando e, lontano migliaia di chilometri, oltre mari montagne deserti, è terminata anche la tua veglia funebre: vedo una strada interrotta, poiché, anche se tornerò, non potrò mai più tornare da te, non potrò più tornare nella nostra Ariwara e, quando rimetterò piede nel nostro ospedale, troverò solo la tua capanna vuota.

Addio, sorella, sperando che questo tuo silenzio terribile possa tornare ad essere fiore.





giovedì 19 dicembre 2024

Una Giraffa nell'Armadio/4: IL VENTO AVVENTATAMENTE VENTOSO

Robert Desnos, "Il vento notturno", da "Corps et bien", 1930


Sul mare marino si perdono i perduti

I morti muoiono cacciando i cacciatori

in tondo danzano una rotonda

Oh dèi divini! Oh uomini umani!

con le mie dita digitali dilanio un cervello

cervellotico.

                    Che angosciante angoscia!

Ma le padroncine impadronite han dei capelli capelluti

                    Cieli celesti    

                    terra terrestre

ma dov'è la terra celeste?


Un testo dai tratti molto puerili, senz'altro, ma quella che può apparire una poesia composta da semplici giochi di parole, cela invece un mistero più grande e ci insegna il gusto per l'ironia, la ricerca di divertissement tipica del Surrealismo.

Di questi calembours in verità è ricca tutta l'opera di Robert Desnos (1900-1945), soprattutto la sua raccolta più celebre "Corps et biens" (1930) e da questi versi appare chiaro come al poeta piaccia giocare, sporcarsi con le parole, inventare in una catena ininterrotta di immaginiDa qui dunque il "mare marino", i "perduti" che "si perdono", "i morti muoiono" e ancora oltre senza soluzione di continuità, come in una spensierata filastrocca per bambini.

Desnos, il poeta-veggente, il poeta dell'ipnosi e della semi-veglia, è infatti anche il poeta-bambino, un burlone che nel gioco e nell'umorismo trova un punto di riferimento esistenziale.

Giorgio De Chirico, "Ritratto di Guillaume Apollinaire", 1914

Un gioco sì, dunque, ma esistenziale, poiché i giochi di parole, queste incessanti figure etimologiche, non sono degli orpelli squisitamente fini a se stessi, ma costituiscono la scena su cui si staglia la dura domanda finale: "ma dov'è la terra celeste?". Se infatti la realtà materiale, la mediocrità della discussione quotidiana può rappresentare una collana di tautologie, di banalità senza significato, di vuoti lapalissiani, è il principio della Surrealtà che dona all'uomo una direzione. Non più il cielo celeste, astrazione metafisica del sogno, e non più la terra terrestre, la concretezza senza voce, ma l'attesa di una nuova realizzazione, in cui queste dimensioni possano compenetrarsi e completarsi, come scriveva André Breton nei suoi manifesti: credo alla futura soluzione di quei due stati, in apparenza così contraddittori, che sono il sogno e la realtà, in una specie di realtà assoluta, di surrealtà, se così si può dire" ("Manifesto" del 1924); e ancora: "tutto induce a credere che esiste un punto dello spirito da cui la vita e la morte, il reale e l'immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e l'incomunicabile, l'alto e il basso, cessano di esser percepiti come contraddizioni. Ora, invano si cercherebbe nell'attività surrealista un altro movente che la speranza di determinare questo punto" ("Secondo Manifesto" del 1930). D'altronde anche Magritte definì la Surrealtà come "la realtà che non è stata separata dal suo mistero" ed è per questo che, concludendo il primo "Manifesto" Breton potrà scrivere: "Vivere e cessare di vivere sono soluzioni immaginarie. L'esistenza è altrove".

un esempio dei primi "cadavres exquis"

In questa prospettiva il gioco infantile come le filastrocche o il "cadavre exquis", il gioco collettivo come l'indagine e le sessioni di ipnosi, il gioco magico come i tarocchi e gli schemi alchemici, in definitiva il gioco è una componente essenziale dell'atteggiamento surrealista, uno strumento rivelatore della verità più intima e autentica. Così la poesia, questo vento avventatamente ventoso (adesso tocca anche a me, anche a noi poter giocare...) ci libera dalla polvere dell'abitudine e dell'ordinarietà apatica e ricrea il mondo attorno.

Disgraziatamente la sorte sarà avversa a Desnos, che, impegnato nella Resistenza francese, nel 1945 morirà nel campo di concentramento di Terezin, vicino a Praga, pochi giorni dopo la liberazione; paradossalmente a un poeta tanto spensierato e pieno di vita è stata riservata una fine tanto tragica.

"Non è la poesia a dover essere libera, ma il poeta" (R. Desnos)




domenica 27 ottobre 2024

Una teologia delle "ciammaruchìt"

Da anni mantengo in me inviolata una morale segreta, quasi una mistica, appresa tramite lunghi esercizi e sessioni sempre più complesse, che col tempo ho denominato “teologia delle ciammaruchìt”. Queste, in italiano “ciammaruche” o anche “ciammaruchigli”, “chiocciole” o anche “maruche” in alcuni dialetti del sud, sono quelle minuscole lumachine di terra che d’estate si affastellano nei caldi campi del meridione, ingombrando steli, spighe, muretti in pietra della campagna, come file di auto attrafficate a Milano all’ora di punta.

È stata mia nonna, già nella mia prima infanzia, a iniziarmi a questa ritualità cerimoniosa, con un’eleganza silente che consisteva nello sfilare in maniera minuziosa, armati di un appuntito stuzzicadenti, la polpa dal guscetto e poi, con uno scatto furtivo, ingerirla. Neanche il tempo di assaporare questa minima esca di carne che già ci si slanciava a ghermire una nuova vittima, con lo stuzzicadenti ancora grondante in mano. Si potevano inoltre facilmente osservare anche varianti e virtuosismi raffinati del gesto, visto che a volte  le circostanze avverse potevano costringere il commensale a utilizzare la forchetta per forare il fondo del guscio e poi, ancor più rumorosamente, a suggere il prezioso contenuto succulento: erano dei caldi baci di passione.

Ancora più appassionata era la scarpetta finale, in cui il tozzo di pane doveva rimanere attento tanto a farsi permeare dal fondo di olio, tenero come la schiuma di un sapone provenzale, tanto ad artigliare con ferocia gli spicchi cotti di aglio, dorati galeoni talvolta arenati ai margini del piatto. Non chiedetemi la ricetta, un segreto della tradizione esoterica della cucina mediterranea, ma nel mio piatto ho imparato a ritrovare passi di “Moby Dick”, duelli dell’ “Iliade” e persino versi oraziani e in famiglia la pentola di ciammaruchìt posta a centro tavola era l’epifania di un concerto mozartiano stravagante di sapori. La nostra storia e la nostra identità d’altronde coincidono con la nostra memoria. 

No, non è tutto qui.


Ci sono infatti tre aspetti che arricchiscono questa liturgia di tratti finemente teologici. Quando ero bimbo in questo apprendistato fissavo le labbra dei miei parenti intorno tutte intrugliate di olio, senza riuscire a togliere gli occhi. Gli schizzi di guazzo e i fischi dei violenti risucchi offrivano un affresco spettacolare di un’acribia raffinata e assoluta. Ogni guscio rappresentava per i famelici commensali non più una conchiglia priva di alcun valore, ma lo scrigno da sviscerare che conteneva il tesoro criptico del cosmo. La lingua poi avida accoglieva il minuscolo fagotto del bottino con la cura di una gustosa meraviglia e rivelava che ciò che è quisquilia quisquilia non è, che ogni suono partecipa di un’armonia cosmica, che è il dettaglio acquattato in disparte che sostiene l’equilibrio del mondo. Una collana invisibile di conchioline ci stringeva a un tavolo, ci legava a noi stessi. Lo zio sorrideva, mia madre correva a prendere altri stuzzicadenti, mentre mio padre versava bicchieri stracolmi a tutti. Mia nonna sferrugliava incessanti le sue labbra tra i gusci come primo violino di un’orchestra solenne, ubriaca e casta.


In quella sala abbagliata dalla luce del sud, il banchetto rustico continuava, estendendosi e prolungandosi nel pomeriggio inoltrato, e l’orario non era misurato che da un’ampia casseruola al centro della tavola imbandita, in cui i relitti cadevano uno alla volta, uno per uno, tic tac, fino a erigersi alla sommità di un’immensa piramide sepolcrale. Al rintocco dell’ora, puntuale e lieve una mano di donna sostituiva la pentola e gettava le migliaia di scheletri all’oblio perpetuo con uno scroscio abissale: così si ricominciava questo cammino di purgazione. Il tempo era solo un riflesso, un dettaglio di un orizzonte cruciale: non erano i minuti a regolare le lumache, ma queste ultime a dare il senso ai minuti. Cosa era la fatica della vendemmia, del lavoro ai campi, che ne era della cura degli olivi, le serate estive al faro se non avessimo osservato la massima diligenza prima di tutto per il piatto di ciammaruchìt? È urgente trovare un ordine delle cose in cui non venga messa in discussione l’inutilità, spensierata e sacra. Stare insieme d’altronde, far festa, non solo è un obbligo e un impegno, ma una fatica sacra, come il sudore vischioso dell’aratura o la grida disperate del parto. Così talvolta la sera ci trovava ancora a tavola, senza che fosse necessario giustificarsi o esibire permessi: avevamo pranzato assieme.


Il terzo punto capace di stupire quell’io bambino era un altro ancora, tanto più esplosivo. Era negli occhi di mio nonno Gioacchino che, prendendo il mio bicchiere, lo annegava nel vino nero, nero e profondo, nero e ruvido. “Quando si mangiano le lumache, si beve solo vino, nient’altro”. A me tale posizione pareva stramba se non palesemente assurda: per tutto l’anno mi era vietato quello che in quest’occasione diveniva obbligato? Forse a queste chiocciole era dovuto un onore che superava ogni norma quotidiana? Fatto sta, io bevevo del vino nero annacquato e, beandomi di quelle sfumature rosastre, ingurgitavo quell’intruglio più acre di quanto potessi tollerare. È questo, mi chiedo ora, che dava vita alla festa, all’ebrezza generale? Non c’era nulla di più prosastico delle “ciammaruchìt” e non c’era nessuna legge che sovvertisse così vorticosamente l’ordine del reale: “quando si mangiano le lumache, si beve solo vino, nient’altro”.


Anni e decenni dopo, la prima volta che Laura vide le ciammaruchìt, in una passeggiata sull’altopiano delle Murge, rimase stupita, quasi affascinata, leggermente attonita: “Ma quante sono? così piccole, e dovunque”. Perle lucenti di un manto gigantesco sopra Madre Terra. Stelle sparse nelle tenebre della materia. “Sono così piccole, sono dovunque”. Già comprendeva senza equivoci come non fossero solo abitanti invisibili delle distese secche, ma erano un silenzioso nume tutelare di questi luoghi, il segreto della vita qui, nascoste e assolate, una sorta di angeli che rammentavano le leggi dell’universo.

E oggi? Oggi mi impiastro ancora per ore per godermi un piccolo piatto di gusci, anche se le estati sono sempre più lontane e le giornate meno luminose, ancora rido e bevo del vino nero con mamma, zia e tutti, ancora alla fine svuoto i resti in quella casseruola centrale che risuona come una campanella per bambini, ma non è più lo stesso. Il rito è divenuto memoria e la memoria ricerca, la ricerca consapevolezza: ora, che ho perso la mia innocente meraviglia dell’infante, posso dire che ho forse scorto qualcosa in più, che dietro tutte queste follie da contadini e cafoni c’era un riflesso più profondo, miniere preziose che mi sussurrano di d-o. In questo guscio cosmico in cui siamo avvolti dalla vita come in un ventre materno, l’esistenza ci lega stretti l’un l’altro attraverso una magia silenziosa, in un flusso di grazia in cui tutti c’imbattiamo abbracciati. Questa laboriosa attività di dita e mandibole rivela con semplicità (e cristallina lucidità) che, quando c’è spazio per il tempo dell’inutilità, quando sgorga l’occasione della festa autentica, quella che ci stringe l’uno a fianco dell’altro senza più estranei, allora la vita ritrova luce.

Secoli fa i Padri della Chiesa, per tentare di spiegare il concetto di d-o, utilizzavano mille immagini e mille prefigurazioni alla portata degli ascoltatori, così i loro discorsi erano accampati da delfini, leviatani, da api e pavoni, sgargianti di colori. Se oggi potessi aggiungere uno schizzo tutto mio, esordirei aggiungendo l’allegoria di una lumaca, sebbene forse sia stato d-o che ha utilizzato queste benedette lumache per anticipare cos’è la vita della felicità perpetua e del suo regno, così in cielo come in terra: un banchetto nella stasi del tardo pomeriggio, tutti caotici attorno a un unico tavolo infinito a festeggiare, con un bicchiere di vino nero in una mano, lo stuzzicadenti già unto nell’altra. Lo zio sorride, mia madre corre a prendere altri stuzzicadenti, mentre mio padre versa bicchieri stracolmi a tutti, signori che ancora non conoscevo o invitati che avevo visto solo da lontano. Mia nonna sferruglia incessanti le sue labbra tra i gusci come primo violino di un’orchestra solenne, ubriaca e casta.





mercoledì 2 ottobre 2024

gli occhi di mia figlia

alla mia bimba piacciono i fiori

lei adora fissarli poi sfiorare le fresie arancio

a questa mia bestia piace divincolarsi in piscina

per poi uscire con gli occhi umidi di cloro

per poi avvinghiarsi primitiva al mio abbraccio

a Celeste piace ascoltare Philip Glass

e divorare di bava Tino l'elefantino

e le bottiglie blu si diverte

a pizzichettarmi la barba bianca

poi si perde nell'interpretare la maglia del pigiama

a mia figlia due cose paiono detestabili:

star immobile costretta supina

e sentirsi sola e forse

non ha torto, mia figlia

Celeste ha due occhi come il mare