Da anni mantengo in me inviolata una morale segreta, quasi una mistica, appresa tramite lunghi esercizi e sessioni sempre più complesse, che col tempo ho denominato “teologia delle ciammaruchìt”. Queste, in italiano “ciammaruche” o anche “ciammaruchigli”, “chiocciole” o anche “maruche” in alcuni dialetti del sud, sono quelle minuscole lumachine di terra che d’estate si affastellano nei caldi campi del meridione, ingombrando steli, spighe, muretti in pietra della campagna, come file di auto attrafficate a Milano all’ora di punta.
È stata mia nonna, già nella mia prima infanzia, a iniziarmi a questa ritualità cerimoniosa, con un’eleganza silente che consisteva nello sfilare in maniera minuziosa, armati di un appuntito stuzzicadenti, la polpa dal guscetto e poi, con uno scatto furtivo, ingerirla. Neanche il tempo di assaporare questa minima esca di carne che già ci si slanciava a ghermire una nuova vittima, con lo stuzzicadenti ancora grondante in mano. Si potevano inoltre facilmente osservare anche varianti e virtuosismi raffinati del gesto, visto che a volte le circostanze avverse potevano costringere il commensale a utilizzare la forchetta per forare il fondo del guscio e poi, ancor più rumorosamente, a suggere il prezioso contenuto succulento: erano dei caldi baci di passione.
Ancora più appassionata era la scarpetta finale, in cui il tozzo di pane doveva rimanere attento tanto a farsi permeare dal fondo di olio, tenero come la schiuma di un sapone provenzale, tanto ad artigliare con ferocia gli spicchi cotti di aglio, dorati galeoni talvolta arenati ai margini del piatto. Non chiedetemi la ricetta, un segreto della tradizione esoterica della cucina mediterranea, ma nel mio piatto ho imparato a ritrovare passi di “Moby Dick”, duelli dell’ “Iliade” e persino versi oraziani e in famiglia la pentola di ciammaruchìt posta a centro tavola era l’epifania di un concerto mozartiano stravagante di sapori. La nostra storia e la nostra identità d’altronde coincidono con la nostra memoria.
No, non è tutto qui.
Ci sono infatti tre aspetti che arricchiscono questa liturgia di tratti finemente teologici. Quando ero bimbo in questo apprendistato fissavo le labbra dei miei parenti intorno tutte intrugliate di olio, senza riuscire a togliere gli occhi. Gli schizzi di guazzo e i fischi dei violenti risucchi offrivano un affresco spettacolare di un’acribia raffinata e assoluta. Ogni guscio rappresentava per i famelici commensali non più una conchiglia priva di alcun valore, ma lo scrigno da sviscerare che conteneva il tesoro criptico del cosmo. La lingua poi avida accoglieva il minuscolo fagotto del bottino con la cura di una gustosa meraviglia e rivelava che ciò che è quisquilia quisquilia non è, che ogni suono partecipa di un’armonia cosmica, che è il dettaglio acquattato in disparte che sostiene l’equilibrio del mondo. Una collana invisibile di conchioline ci stringeva a un tavolo, ci legava a noi stessi. Lo zio sorrideva, mia madre correva a prendere altri stuzzicadenti, mentre mio padre versava bicchieri stracolmi a tutti. Mia nonna sferrugliava incessanti le sue labbra tra i gusci come primo violino di un’orchestra solenne, ubriaca e casta.
In quella sala abbagliata dalla luce del sud, il banchetto rustico continuava, estendendosi e prolungandosi nel pomeriggio inoltrato, e l’orario non era misurato che da un’ampia casseruola al centro della tavola imbandita, in cui i relitti cadevano uno alla volta, uno per uno, tic tac, fino a erigersi alla sommità di un’immensa piramide sepolcrale. Al rintocco dell’ora, puntuale e lieve una mano di donna sostituiva la pentola e gettava le migliaia di scheletri all’oblio perpetuo con uno scroscio abissale: così si ricominciava questo cammino di purgazione. Il tempo era solo un riflesso, un dettaglio di un orizzonte cruciale: non erano i minuti a regolare le lumache, ma queste ultime a dare il senso ai minuti. Cosa era la fatica della vendemmia, del lavoro ai campi, che ne era della cura degli olivi, le serate estive al faro se non avessimo osservato la massima diligenza prima di tutto per il piatto di ciammaruchìt? È urgente trovare un ordine delle cose in cui non venga messa in discussione l’inutilità, spensierata e sacra. Stare insieme d’altronde, far festa, non solo è un obbligo e un impegno, ma una fatica sacra, come il sudore vischioso dell’aratura o la grida disperate del parto. Così talvolta la sera ci trovava ancora a tavola, senza che fosse necessario giustificarsi o esibire permessi: avevamo pranzato assieme.
Il terzo punto capace di stupire quell’io bambino era un altro ancora, tanto più esplosivo. Era negli occhi di mio nonno Gioacchino che, prendendo il mio bicchiere, lo annegava nel vino nero, nero e profondo, nero e ruvido. “Quando si mangiano le lumache, si beve solo vino, nient’altro”. A me tale posizione pareva stramba se non palesemente assurda: per tutto l’anno mi era vietato quello che in quest’occasione diveniva obbligato? Forse a queste chiocciole era dovuto un onore che superava ogni norma quotidiana? Fatto sta, io bevevo del vino nero annacquato e, beandomi di quelle sfumature rosastre, ingurgitavo quell’intruglio più acre di quanto potessi tollerare. È questo, mi chiedo ora, che dava vita alla festa, all’ebrezza generale? Non c’era nulla di più prosastico delle “ciammaruchìt” e non c’era nessuna legge che sovvertisse così vorticosamente l’ordine del reale: “quando si mangiano le lumache, si beve solo vino, nient’altro”.
Anni e decenni dopo, la prima volta che Laura vide le ciammaruchìt, in una passeggiata sull’altopiano delle Murge, rimase stupita, quasi affascinata, leggermente attonita: “Ma quante sono? così piccole, e dovunque”. Perle lucenti di un manto gigantesco sopra Madre Terra. Stelle sparse nelle tenebre della materia. “Sono così piccole, sono dovunque”. Già comprendeva senza equivoci come non fossero solo abitanti invisibili delle distese secche, ma erano un silenzioso nume tutelare di questi luoghi, il segreto della vita qui, nascoste e assolate, una sorta di angeli che rammentavano le leggi dell’universo.
E oggi? Oggi mi impiastro ancora per ore per godermi un piccolo piatto di gusci, anche se le estati sono sempre più lontane e le giornate meno luminose, ancora rido e bevo del vino nero con mamma, zia e tutti, ancora alla fine svuoto i resti in quella casseruola centrale che risuona come una campanella per bambini, ma non è più lo stesso. Il rito è divenuto memoria e la memoria ricerca, la ricerca consapevolezza: ora, che ho perso la mia innocente meraviglia dell’infante, posso dire che ho forse scorto qualcosa in più, che dietro tutte queste follie da contadini e cafoni c’era un riflesso più profondo, miniere preziose che mi sussurrano di d-o. In questo guscio cosmico in cui siamo avvolti dalla vita come in un ventre materno, l’esistenza ci lega stretti l’un l’altro attraverso una magia silenziosa, in un flusso di grazia in cui tutti c’imbattiamo abbracciati. Questa laboriosa attività di dita e mandibole rivela con semplicità (e cristallina lucidità) che, quando c’è spazio per il tempo dell’inutilità, quando sgorga l’occasione della festa autentica, quella che ci stringe l’uno a fianco dell’altro senza più estranei, allora la vita ritrova luce.
Secoli fa i Padri della Chiesa, per tentare di spiegare il concetto di d-o, utilizzavano mille immagini e mille prefigurazioni alla portata degli ascoltatori, così i loro discorsi erano accampati da delfini, leviatani, da api e pavoni, sgargianti di colori. Se oggi potessi aggiungere uno schizzo tutto mio, esordirei aggiungendo l’allegoria di una lumaca, sebbene forse sia stato d-o che ha utilizzato queste benedette lumache per anticipare cos’è la vita della felicità perpetua e del suo regno, così in cielo come in terra: un banchetto nella stasi del tardo pomeriggio, tutti caotici attorno a un unico tavolo infinito a festeggiare, con un bicchiere di vino nero in una mano, lo stuzzicadenti già unto nell’altra. Lo zio sorride, mia madre corre a prendere altri stuzzicadenti, mentre mio padre versa bicchieri stracolmi a tutti, signori che ancora non conoscevo o invitati che avevo visto solo da lontano. Mia nonna sferruglia incessanti le sue labbra tra i gusci come primo violino di un’orchestra solenne, ubriaca e casta.