martedì 25 dicembre 2018

la filastrocca di Marise


ieri la mia amica Suza della pediatria mi ha inviato questi auguri dalla sua piccola Marise, semplici e spontanei. la filastrocca recita più o meno così:

La Pace
Perché non c'è pace in Congo?
Sempre la guerra, sempre la guerra:
Autorità congolesi, perché questi disordini in Congo?
Noi vogliamo la pace, noi odiamo la guerra.
Per favore, noi siamo stanchi di vivere nella disperazione!
Noi dobbiamo costruire il Congo di domani:
Noi nasciamo nella guerra, noi cresciamo nella guerra,
Per favore noi non vogliamo morire nella guerra!
Vi ringraziamo.

perché, dove non si riesce più a credere, bisogna continuare a sperare. grazie, piccola Marise, e sì, un Natale di festa e pace a tutti!
MBOTAMA NA YEZU MALAMU NA BINO BANSO, BANDEKO!

mercoledì 14 novembre 2018

loyembo lokakatani - la mia filastrocca stropicciata


LOYEMBO LOKAKATANI

mbala moko azalaki mokonzi moko
molakisi alobaki na ye
“yema ndaku na yo”
lisapo ebandaki…
ndaku na ngai epesi besi mabele matane
likolo monene epesi mayi na ye
likolo bule ndaku na ngai eza moanza botaka
mpe litapi petepete basali motondo na ye
efelo na ye baza na potopoto mpe tufi
bayibi bakoti awa awa bayibi babimi
babimi na maboko na mpamba
moyi mpe nzembo basali ndaku
ngai nalia libanda
awa nalia elongo na banso
zambi awa eza eyenga awa
eza ndaku na ngai
eza na kuku te eza na ngbende te
se yango elalelo ebele na bosoto te
nafandi awa elongo na batu nkama elongo
na mindoto misato nkama
mopepe enyomi elongi na biso
lokola nkoto fololo
boye na ntongo nalamuki mabeneme
botali na moyi nsima na butu
o tango natikalaki na minzoto minso
“ndaku na yo eza trop na bosawa”
molakisi aseki kasi ngai
naza mokonzi na ndoto oyo
bongo soki  bokasi te
zambi boania na biso aleki mokolo moko te
alekaki mokolo moko te boania  na liboma na biso
batu zelo esalaki oyo
zelo mitane oyo emonani makila
esalaki oyo besi moko esalaki

oyo besi na motema mobeli oyo.




LA MIA FILASTROCCA STROPICCIATA

c’era una volta un re
gli disse la maestra
“disegna la tua casa”
la storia incominciò…
la mia casa bacia la terra rossa
bagnata da un cielo senza confini
blu la mia casa è nuda capanna
e un tetto formato da gracili frasche
le sue mura sono di fango e sterco
i ladri ci entrano ed escono
con un ghigno con mani aride
la casa è fatta di sole e di canti
io mangio fuori sul piazzale
qui mangio con tutti
all’aria aperta perché
qui è la festa la mia casa
non ha cucina neanche un suo divano
e neppure tante stanze da nettare e io
io ci vivo con cento persone trecentoventi sogni
il vento che accarezza i nostri volti
come mille fili d’erba
così mi alzo la mattina benedetto
dallo sguardo del giorno dopo il buio
in cui ogni stella mi ha cullato
la tua casa è così semplice
sorride la maestra ma io
sono il re di questo sogno
anche senza la corona
poiché la nostra saggezza non è
non fu mai saggia quanto la nostra follia
umana fatta di sabbia
rossa che sporca e sangue
e di un solo bacio           
di questo cuore ammalato.



giovedì 18 ottobre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo


Questa traduzione certamente non è un lavoro senza difetti, al contrario si potrà ancora perfezionare col tempo, l'esperienza, la condivisione. 
Riconoscetele un solo merito: è la prima traduzione di questo testo di Tristan Tzara, un testo che resta di profonda poesia, di intenso surrealismo, di visionaria profezia.

Ringrazio chi vorrà leggere, chi vorrà comprendere, chi vorrà sentire, e ringrazio chi mi ha aiutato e supportato nella traduzione:
è stato così bello, così entusiasmante far tornare a parlare Tristan Tzara, tornare a riascoltare vivi e fulgidi i suoi versi, tornare a far sentire la sua voce attraverso le mie parole.

"io mi svuoto come una tasca capovolta"



TRISTAN  TZARA, L'HOMME APPROXIMATIF, PARIS 1931

incipit 
"le campane suonano senza ragione, e anche noi"

il canto dell'uomo approssimativo
"come me come te lettore e come tutti gli altri"

"io mi svuoto come una tasca capovolta"

il canto della radura

"di pagina in pagina"

il canto del bianco

il canto del quando

il canto dell'infanzia

il canto del licantropo

il canto della pietra, il canto della danza

"le ragioni del nostro tacere"

il canto del silenzio

il canto del nido, tra equilibrio e caos

il canto della consolazione

il canto della nascita

il canto della mano

il canto del cuore cacciavite

il canto dell'ultima luce

il canto dell'ultimo uomo

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, traduzione di E. Pini




lunedì 15 ottobre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, XIX

l'ultimo uomo
il finale è ciò che dà il senso all'inizio. e viceversa.
in tal modo tutto prese il via con quel "le campane suonano senza ragione e anche noi", tutto era cominciato con quel "A Greta", tutto iniziava con "penso al calore che intesse la parola / attorno al suo nocciolo il sogno che si chiama noi".
poi tutto termina con questa stoica attesa del deserto del tormento, del suo fuoco. 
forse l'aprirsi all'altro è questo deserto che ci dà struggimento e passione, forse l'aprirsi all'altro è questo fuoco che ci offre la vita e la passione, la speranza. 
non esiste una storia del tutto al singolare, non esiste un destino solamente individuale, perché gli uomini abitano questa minuscola terra come le stelle punteggiano d'oro la volta notturna.
cioé: non fu prima l'uovo né la gallina
ma c'è solo questa gallina infreddolita che chioccia 
questo uovo color paglia in bilico tra le mie dita
e io ci sono io
e tu ci sei tu
e noi che incrociamo le nostri voci
le nostre croci
di deserto e fuoco.
fragile e vinto, ma nel suo grido disperato riluce la sua forza indomabile: questo è l'Uomo Approssimativo, un uomo tanto moderno. 
agitato da fantasie celesti e visioni profetiche cui cerca di dar risposta, sballottato in un cosmo straniero, ma l'unico enigma che non può risolvere è il suo volto: questo è l'Uomo Approssimativo, alla perenne ricerca di se stesso come un eroe cantato da Omero e Sofocle.
un uomo approssimativo come me come te lettore e come gli altri

Tristan Tzara, foto


XIX

il beniamino delle montagne che arrostisce le scarpate delle gole
dai pestilenziali ronziii d’acquedotti autunnali
il dissodamento del cielo gratuito che fossa comune risucchiò tanti pascoli
i linguaggi dei nudi le breve apparizioni dei messageri
nei loro cespi annunciatori di supremi clamori e ossessioni
le inquiete fabbriche sotterranee di chimiche lente come delle canzoni la rapidità della pioggia il suo       formicolio telegrafico creduto di guscio che ruminano
le forature a carne aperta delle vette da cui affiorano gli increspati bucati
rotto per tutti i paesaggi e per gli inganni delle valli beffarde tentatrici di patrie
le passeggiate senza dio dei corsi d’acqua
le audacie delle loro imprese contro la bruna livrea d’argilla
gli oblii della benzina annegata nell’oblio dei numeri e delle vasche
nei fibrosi dimenticatoi agglomerati di spighe e di campane
dove filatrici di affanni svengono all’ombra tremula di menzogna
e aprono le palpebre dei ghiacci sessuali degli spettri
la crudezza dei muri di pietra dai noccioli inerpicati per mille dita
che s’intessono tra le trecce di tarassaco
e l’altalena delle temperature ravvivate dallo smodato sguardo
le vostre adulazioni redigono in me dei troppo dolci meandri d’oracolo agiato e di sonno
e pietroso nei miei vestiti di roccia ho votato la mia attesa
al tormento del deserto arruginito
e al robusto avvenimento del fuoco

*

urtata nel basaltico mutismo degli ibis
impigliata alle briglie dei torrenti sotterranei
abbandonata alle folli foreste di idre
dove i sermoni delle estati fitte gargarizzano di trasognate rivalità
la notte ci inghiotte e ci rigetta sino all’altro capo della tana
mentre smuove degli esseri che la grammatica degli occhi non ha ancora delimitato sullo spazio dell’indomani
di lenti accerchiamenti di corallo
sgozzano le alte forche  delle volontà rocciose
le insenature nel tuo cuore le fa un tempo pesante di ghiaia di affamato
e quante baracche al riparo della tua fronte hanno scritto l’ampio lutto di schiuma sul petto
cadendo in macerie d’ammassi d’avvenire
coperte di tare ingarbugliate mescolate alle imboscate delle liane
quando i banchi di torbidi pesci s’inflitrano di morte opaca e di chiome

*

andavamo in delle lande addolcite dall’attenzione
dolcemente attenti agli sbalzi monotoni dei fenomeni
che l’esercizio dell’infinito imprimeva ai blocchi di conoscenza
ma la squamosa struttura delle opinioni sparse
sull’umida infinità di diademi – i campi –
disdegna delle verità la polpa sensibile
di un pronto favore di uno strazio riattizzato

*

le asce colpivano in delle risate saure
e i dischi delle ore volavano all’attacco
scoppiavano nella testa delle truppe aeree
c’erano le nostre ragioni a maggese che arginavano la loro diafana turbolenza
e i tragitti nodosi questi che tracciavano temporali
s’incarnavano tentacolari nella costrizione dell’edera

*

là abbandonavamo il lusso e il dogma dello spettacolo
e immolavamo a degli altri impulsi il desiderio livido che i suoi frutti ci hanno illustrato
falciate le diamantine insistenze i vuoti paesaggi che preparano i miei sensi
ritta sorda allucinante diffidenza
sulla boscaglia del mio essere le strade ti si sono tutte aperte
porta ciò che l’ebrezza del rimprovero non ha ancora saputo riversare
e tutto ciò che non ho potuto comprendere e ciò a cui non credo più
il grumo di ciò che non ho potuto comprendere e che mi sale in gola
l’alga marina abbronzata dall’implacabile aratura delle profondità
e il fiore del triangolo inciso nella pupilla
la guerra che il mio fiato perde sulla ripida pagina bianca
e l’osmosi dei pensieri odiosi
i crucci crivellati di persistenti semine di seduzione
i crucci costruiti su trampoli al riparo dalle distrazioni
e la capanna vellutata di polvere
e quella di un’anima perduta
e tanto d’altro e tanti altri
ritrovati o malati
perché pietroso nei miei vestiti di roccia ho votato la mia attesa
al tormento del deserto arrugginito
al robusto avvenimento del fuoco

*

delle mani stranamente scostate dai grappoli di mani trasparenti
mescolano dei domino di stelle sulla savana ci sono delle pecore
e delle cortecce di nuvole annientate degli odori nautici trascinano
sulla tavola del cielo affollato d’eucaristici giochi
quali giochi quali gioie selvagge nutrono di smarrimento il tuo passo nel cielo d’acclimazione
dove bestie e pianeti ruotano avvinghiati con occhi d’oppio
disteso da un’estremità all’altra dell’acquario il tuo cuore così luminosamente squarciato di silenzio
dedicato  ai minuziosi artifici delle lame
incrostato di gocce ribelli di vino e di parole empie
s’imbeve del via vai delle estasi nella congestione verbale
di cui il tifone ha marchiato la tua fronte

*

intagliata è ormai la prua dei bastioni secondo la figura del nuoto
ma ora i tuoi occhi guidano il ciclone
altezzosa tenebrosa intenzione
e sul mare fino al limite delle veglie d’uccello
il vento tossisce fino al limite dove si scarica la morte
da prometeiche cataratte di eco tuonano nelle nostre coscienze intorpidite
si soffre quando la terra si ricorda di voi e vi scuote
cane randagio percosso e povero tu vaghi
ritorni senza sosta al punto di partenza inconsolabile con una parola
un fiore all’angolo della bocca un fiore tisico molestato dall’aspra necropoli
delle tonnellate di vento si sono riversate nella sorda cittadella della febbre
una chiglia in balia dell’impeto frastornato che sono io
un punto di partenza sconsolato al quale ritorno fumando una parola all’angolo della bocca
un fiore percosso dalla ruvida febbre del vento
e pietroso nei miei vestiti di roccia ho votato la mia attesa
al tormento del deserto arrugginito
al robusto avvenimento del fuoco

*

quando le ramificazioni del caso per la forza delle loro risa agganciano gli ormeggi
quando si chiama il tuo cuore – là dove di solidi morsi s’affondano –
polverosa e frustrata falena – opaca intimità – che ne so io – cantiere della notte
quando il barattolo dai sibili di sciame di rettili colpito
dove si ostinano le sollicitazioni delle maschie intemperie
minaccia lungamente geme
un lento incendio d’invincibile costanza – l’uomo –
un lento incendio sorge dalle fondamenta della tua lenta gravità
un lento incendio sorge dalla valle dei princìpi glaciali
un lento incendio d’indicibili leghe
un lento incendio che vince i focolai delle emozioni lucide
un incendio dilagante sorge dalle tossi schiave delle fortezze
un lento fuoco s’anima per la paura spalancata della tua forza – l’uomo –
un fuoco s’inebria delle altezze dove i cabotaggi dei nembi hanno rintanato il gusto del baratro
un fuoco che si issa supplicando sulla scala fino al contagio delle gesta illimitate
un fuoco che latra dei getti di rimpianti al di là delle ipocriti suggestioni del possibile
un fuoco che evade dai mari muscolari dove s’attardano le fughe dell’uomo
un uomo che vibra alle presunzioni indefinibili dei dedali di fuoco
un fuoco che ordisce la burrascosa insurrezione in massa dei caratteri – si china
armonia – che questa parola sia bandita dal mondo febbrile che visito
dalle feroci affinità minate di nulla coperte di assassinii
che urlano di non sfondare la paralisi singhiozzante di brandelli di fenicotteri
perché il fuoco di collera varia il movimento delle sottili macerie
secondo le balbuzienti modulazioni d’inferno
che il tuo cuore s’affatica a riconoscere tra le raffiche vertiginose di stelle
e pietroso nei miei vestiti di roccia
ho votato la mia attesa al deserto arrugginito del tormento
al robusto avvenimento del fuoco



martedì 9 ottobre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, XVIII

l'ultima luce

la luce s’esprime perde i suoi petali
e non ce n'è mai abbastanza di questa pace
si può non credere in un ordine, in una fede, in una salvezza, si può anche perdere la speranza, la voce di una promessa, ci si può persino dimenticare di camminare, di respirare, di esistere, ma l'uomo, questo uomo un po’ animale un po’ fiore un po’ metallo un po’ uomo, non può non credere nell'amore, come se fosse impresso in noi, l'amore e l'ignoto. 
voglio la lotta voglio sentire l’ustione della sorte di cui un dio di sagra paesana impresse il mio cuore
il rumore che tanti altri hanno ruminato prima di me
l’ignoto
e noi, un canto tenero e salato in lotta e  in attesa.
e i nostri amori bruciano nella fiamma delle vele
qualsiasi cosa se ne dica la morte non è che una favola per bambini
e la morte non è che una favola per bambini
attendo la morte che mi dirà che la sua vita è terminata
e fino alla prossima morte di morte in morte la roulette fa uscire il suo rosso e il suo nero
il suo blu cielo il suo rosa dalla coda di serpente con rima e sonagli
e fornito di ogni comodità dell’amore triste meccanica
sento in me contro il muro gettarsi la disperazione di tutta la città
attendo io attendo la pazienza del mio destino raggiunge la fine della candela
attendo che la divina avventatezza faccia rotolare il suo dado d’amore


Rembrandt, Autoritratto

XVIII

le impronte dei tuoi passi invisibili sul mare
sollevano delle pagode temporanee d’acqua
gesù d’aria fermento di splendide aurore e seminatore di pennuti
catena che risale fino all’elica delle nuvole
s’arrampica impalpabile sospiro diavolo a nuoto
fino al collo della bottiglia del circo
le tue parole munite di vele raggiungono tutti i porti della memoria
il traghetto rilega le nostre due mani che nel fieno del sogno si cercano 
mano – aperto diadema del cuore aperto alle corolle di frutti
dolce parola che poggia nella mia mano magica freschezza
nel cormorano la seppellisce nel suo seno mentre vola in faccia a una costellazione astrale
la luce s’esprime perde i suoi petali

*

truppa di città e villaggi che pasce all’ombra di un dio erbivoro
un dio non più grande di una foglia di quercia
non più pesante di uno frinito di grillo
non più ricco di un’asola di fossato
non più grande di una cuccia di diamante
e non più che delle sofferenze inutili su questo fiore d’arcipelaghi e d’isolotti
caduto con qualche goccia d’acqua nell’azzurro senza chiasso
il mondo i continenti gli oceani le prigioni

*

e relazioni così ingarbugliate si annodano tra le apparenze e architravi
uomo un po’ animale un po’ fiore un po’ metallo un po’ uomo
le relazioni che hanno una loro vita indipendente al di fuori di quella delle voci e delle spiagge
le relazioni che s’accrescono si sfilacciano planetarie
si gonfiano di tumori vegetano o lentamente periscono
di cui siamo accerchiati lanterne di lacci di fili spinati
corazza troppo pesante per partire in guerra contro questo falso se stesso
l’irrequieto l’inappagato di morte
l’ignoto nel fondo di se stesso che scaccia i miei giorni ciechi di speranza

*

un po’ d’oro sparso tra le foreste e i laghi
i cattivi istinti che sonnecchiano nel fondo indolente delle giare
mai abbastanza di questa pace
voglio la lotta voglio sentire l’ustione della sorte di cui un dio di sagra paesana impresse il mio cuore
sentire il caldo alito corpo a corpo l’ingiustizia la battaglia
e sconfiggere la pesante ossessione – appesantito di tanti lacci oscuri
faccia a faccia e aprirmi un cammino attraverso i diabolici abbozzi delle muffe
e furtive tentazioni che condiscono il rumore che tanti altri hanno ruminato prima di me
l’ignoto

*

i tronchi d’alberi portano dei mappamondi senza foglie sulla loro cima
i pali del telegrafo hanno delle ali di mercurio alle caviglie
di bianchi uccelli fungono da confini chilometrici
le distanze se ne volano al rovescio
e nei barattoli dei vulcani i sottomarini sfilano in lunghe collane di pesci migratori
e tuttavia nel treno sento sulle mie spalle così lungamente straziate dal deserto
il peso del bestiame mitologico condotto nei mattatoi del tempo sereno
i mulini a vento i mulini a tormenti
che macinano le regioni iperboree dove seccano gli amori primi
le lingue del cielo che falciano i comignoli delle fabbriche smilze
i fiumi si chinano al tuo orecchio e raccontano la segreta storia
tutti i mestieri si sono riuniti attorno all’appello profetico
attorno al dito sulle labbra del segnale meteorologico
il muso fiorito dell’albero fiuta la bufera che viene con passo di lupo
e tuttavia il treno continua a vangare su un apparecchio morse attraverso paesi attraverso voci
folla soffice che rimpiazza delle parole in carne e ossa
quando la parola è tanto cara per quelli che ne hanno bisogno
parola che attendo parola in pepite nell’anfratto del porto
attorno all’arnia delle tue dolcezze possibili
siamo delle api così numerose api di cui le tue promesse hanno imprigionato il volo
e nella brezza siamo canto tenero e salato di coloro che si sono impiccati al cielo
di cui i corpi lacerano il vento e i ventagli degli stracci rasentano le banchise
il fumo della macchina abbaia ora e afferra il fuoco ventilatore
la ruota della morte in nave questi sono i circuiti dei cervelli
che ruotano su loro stessi l’elica degli umani dolori
e tanto d’altri e tanti altri

*

ma la caduta di sibilo si fa minacciosa
getta il diluvio fuori bordo
ai naufragi il segreto invito si raddoppia di avatar di sirena
e i nostri amori bruciano nella fiamma delle vele
sono lontani i grassi torrenti dalle canzoni frondose che fiancheggiano la giostra
e tutte le giostre che salivano alle gole nelle vene dei barometri
le pene d’amore i secoli d’amore le lettere
le lettere che si volevano scrivere con la linfa delle viscere
ma che l’età prese al volo vuote alla ricerca di incanti
i cimiteri che gonfiano di ricordi gli otri le morti
e tutta l’amarezza che non poté uscire dai polmoni troppo morbidi
sono lontane le notizie tanto attese nei giornali
che sovrappongono le loro vite alla nostra nonostante il paese gettato lontano dal discobolo oscuro
le impazienze cadute in fondo al sacco nella fossa
le segherie d’uomini quelle rapide che portano delle teste contorte e stordite
ecco dove conducono il treno e il pensiero
qualsiasi cosa se ne dica la morte non è che una favola per bambini
e la morte non è che una favola per bambini
attendo la morte che mi dirà che la sua vita è terminata
e fino alla prossima morte di morte in morte la roulette fa uscire il suo rosso e il suo nero
il suo blu cielo il suo rosa dalla coda di serpente con rima e sonagli
e fornito di ogni comodità dell’amore triste meccanica
roulette del meridiano quale sarà la tua prossima fermata di morte
roulette messa in musica e in movimento dal fumo di una sigaretta
che nello spazio vergine aggira nevosi continenti
e tanto d’altro e tanti altri

*

ma dietro ai tuoi passi allo sbaraglio i drammi si dibattono in silenzio
ci sono gli spiriti degli respiri le vendette le imprecazioni
affinché le tue dita possano continuare la loro corsa attraverso le piste musicali
ho così tanto braccato la tua ombra verità nel florilegio di colori
che infine attorno al collo lo scialle dell’arcobaleno s’arrotola
e stringe pienezza adombrata la frusta gettata dal polo
sento in me contro il muro gettarsi la disperazione di tutta la città
lacrime che cadono in incendio dall'alto fughe terrori porcherie
sento in me contro il muro gettarsi la disperazione di tutta la città
crudeltà loquaci offese malattie maledizioni
sento in me contro il muro gettarsi la disperazione di tutta la città
orrori ipocriti inferni asfissie di fuliggine sudori
smorfie d’uragani cataclismi contagiosi valanghe sepolcri

*

attendo io attendo la pazienza del mio destino raggiunge la fine della candela
le ultime palpitazioni di falena ciò che mi resta
che l’ombra conficcò dapprima in me e che quella uscì poco a poco
e poco a poco polverizzò la pietra e poco alla volta strangolò la mia confessione
attendo infagottato nella mia umiltà subordinata
il soccorso come un’ebrezza che sovrasta l’occhio scialbo
che affiora dal mazzo di raggi sordi
attendo che la divina avventatezza faccia rotolare il suo dado d’amore
sulla mia testa di cui le radici le vanno già incontro
la virtù affilata del numero che quella innesca e che quella mi mostra
attendo che l’apocalittico mezzo di trasporto
venga a prendermi nel suo turbine d’infinito e d’oro
che infine la profezia dell’ordine si cristallizzi nella morte
e tanto d’altro e tanti altri