sabato 14 luglio 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, X


1. il sogno non è che la realtà più intima e più autentica dell'uomo.
2. un sogno in realtà non si "racconta", poiché non è una narrazione e non ha personaggi, ma atmosfere di emozioni, crogiuoli di sentimenti sparsi, nuvole di pensieri.
3. Tzara dà parole al suo sogno più intimo e autentico: una storia senza attori, un palco senza sipario, se non se stesso.
questa è la premessa di questi canti, soprattutto del decimo, in cui appare tutta la durezza di un mondo che l'uomo non riesce a scalfire:  
lassù dove tutto non è che pietra.
l'uomo non riesce a scalfire questa celeste indifferenza, eppure sa creare "catene", che lo legano all'esistente, all'altro e, anche se il mondo non sa sorridere, può divenire amico. 
chi sono io? un anello, un semplice anello nella catena dei secoli del cosmo, un anello che però nulla può sostituire, nulla e nessuno.
così tante ore m'hanno imbastito del loro cemento friabile di tibie in croce
così tanti uomini m'hanno preceduto nell'augusto solco d'esaltazione
così tanto amore s'è disperso per edificare l'opportunità che mi gioco
nel carcere senza compagni dove s'aggira un sangue denso di rimorsi
così tante dolci frenesie hanno scarrozzato i paesaggi verso i miei occhi
la celeste indifferenza non si può vincere, ma si può danzare attorno ad essa: questa è la vera scoperta del fuoco da parte dell'umanità.

e lassù lassù tutto non è che pietra e danza attorno

Leonardo da Vinci, Vergine delle Rocce I, particolare, 1483, Louvre, Parigi



X

la testa s’arrampica circondata da eco sulla traccia dei muggiti fumogeni
che i vulcani hanno percorso lungo delle migrazioni di esploratori
lassù dove tutto non è che pietra
e cinguettio fragile d’inconsolati soli seguito
dall’anemico viadotto sbocco nel cratere di calce della valle incravattata di portali
e la metallica fauna brulica amaramente nello stagno di ruggine e pelliccia

*

cinguettio fragile d’inconsolati soli – gorgo di dune
dure da spezzare – le minute cavallette nelle fessure
che un dubbio fidato libera dalle maglie del sonno
e le fatiche che bavano sui sofà in fiamme dove il sole si corica
circondato da loquaci angosce da seguiti geometrici
da ciuffi d’ectoplasmi da bulloni che dormono divertiti
da trasparenti trappole da fermate da spazi
da accozzaglie da crepature incatenate – l’aria muore

*

e che l’amore segua l’amore d’inconsolati soli seguito
lassù dove tutto non è che pietra
amante dei dolci pendii incantatore delle acque irruenti
che la notte tremi in fondo alla stiva
che tu possa tirar fuori dalle tasche dei cocchi
i fazzoletti che volano dove assordano i voti dei viaggiatori senza luna
sulle deformi illusioni e i magazini delle razze
la pioggia mette il suo telo di serra
e la fresa cresciuta al seno di corallo sbecchetta lo scoglio
gli occhi inumiditi nella rada di scoraggiamento
che t’attendono
lassù dove tutto non è che pietra
e se ne voltano con indifferenza

*

dei canti ingordi hanno aggrovigliato le piume delle loro morenti misure
al banco della nave dove il vento ha raccolto il diluvio di tutte le direzioni
che le flore hanno seguito e abbandonato
tanto quello turbinava di lente primavere nell’occhio clemente dell’imboccatura
che le scogliere si erano messe a fremere delle orecchie di zattere
che gli insetti induriti alla luna ribollivano nel’impotenza delle fantasticherie
erano delle campane degli immemorabili asserragliamenti che gli acquazzoni dei secoli schiaffeggiavano le volte
il frutto della sabbia sbiadita giaceva vicino al capezzolo dell’orrore
e la falesia aspra assisa in se stessa i ginocchi al mento
masticava la sua stella e la pacifica luce che la governava

*

raccoglitrice di mozziconi nei boschi d’estasi
e d’astri fatiscenti precipitati lontano nella fossa dei segreti
tronconi di paese di pesantezza dilaniati brandelli
di zoppe fluidità di riflusso
distratta convalescenza di fiamme di trampolieri
lassù dove tutto non è che pietra
le cisterne misteriose dell’affascinazione
fermentano il frumento illusorio delle voci
sulle ramature delle cataratte la sera i ragni degli occhi si mutano in pena
selvaggia speranza lanciata con i boomerang e le comete
nell’umidità di carbone che nessun ritorno sfiorisce d’ali pensanti
né di tizzoni d’amore

*

e la dormiente – diffidente delle raminghe carezze –
cinta di galee dove s’impasta lo spirito
dove nessuna anticipazione divide da un infedele riflesso l’indolenza stellata del mistero
si sfrega una crescita tra i vetri di proverbi che il baccano adombra
verso la carne infinitamente nomade del sogno
e se ne volta con indifferenza

*

e nel fumo sono i pergolati di fumo il fumo
che caracolla il bompresso calpesta lo scricchiolio
è nel fumo dei pascoli profondi qui dove tutto non è che pietra
ed è il fumo del sole che sale dal terremoto dei dadi
gli assembramenti delle capanne attorno a cieche dimissioni
i versanti distesi ai passaggi dei pesanti convogli di calure
gli svaghi lisi sotto la coperta dei foraggi
volto svanito nelle voci delle bestie
florido fulgore nel cesto delle voci
e mozzando di sbieco il rilievo terroso il torpore di questa rumore
tatua la facciata di funeste vedute
e d’amore

*

così tante ore m’hanno imbastito del loro cemento friabile di tibie in croce
così tanti uomini m’hanno preceduto nell’augusto solco d’esaltazione
così tanto amore s’è disperso per edificare l’opportunità che mi gioco
nel carcere senza compagni dove s’aggira un sangue denso di rimorsi
così tante dolci frenesie hanno scarrozzato i paesaggi verso i miei occhi
e delle amare coscienze hanno trattenuto gli tsunami nel loro setaccio di ansietà
così tanti viaggi invisibili sono affondati nei miei sensi
così tanti miracoli ci hanno legato
alla flottiglia di parole – sedimento delle divine allusioni –
delle ipotesi che si rotolano nei crogioli delle mezzanotti dello spirito
dove si spezzano gli tsunami e quelle dell’amore si spezzano
e tante altre si gonfiano e si sciolgono
e tante altre si spezzano segretamente

*

e che il gufo vada e che la notte intrecci
e che la notte vada ai piedi dello stagno
e che la roccia intrecciata di gufi drizzi la sua tenda
che il freddo venga dai nudi boa a ricoprire la pace della colomba
lassù dove tutto non è che pietra
dove l’erba indurisce dove le dita appassiscono
dove l’airone teme l’ondata dove la sua ombra crepita
dove i gioielli cadono e le labbra del ghiacciaio vacillano
dove il feto affonda lo scrigno in un lume mandibola
dove il ricordo scuote il vento delle vittorie sul ponte
dove ci si annienta la costa scorza del tempo
dove l’udito si vela d’oriente d’altri tempi e di fatalità
sulle volubili vanità dalle distanze di cristallo
lassù dove tutto non è che pietra all’infinito
e nell’alambicco dei giochi dove versiamo le lacrime e lassù tutto non è che pietra
l’allarme quello che suona una sola volta suona tratto dall’alto di una lacrima alla sartia
sospesa alle fauci sputo del vento tanto lenta da non poter dormire
strappata dal sole visitata dai soli gravosa verso il mare

*

tanto quanto l’ombra rosicchia i bordi porosi della notte
tanto quanto i fuochi si sistemino a fianco degli amici sulle panchine
e se ne voltino con indifferenza
l’uccellatore di quarzo può abbeverare la luce nana d’abside
verso il sussurrio che imperla lo scatto della sua élitra
ma da quale irreale disordine di cripte e palpebre
da quale colore acre dal fondo dei ritornelli
abbiamo noi attinto l’arcano disgusto coperto sotto una foglia morta di scudi
e circondati da invisibili scudi
respingendo tutta la vita lungo il passaggio
la noia – infernale mozzo – i trapani che sbirciano il pertugio
il loro magnetismo che ronza che accerchia gli alligatori nel marciare senza passi
abbiamo raggiunto – lassù dove tutto non è che pietra – la fraterna pietra
lassù dove tutto non è che pietra
e contagio nel rifugio dei talismani e degli istinti

*

quale specchio inghiottito nei golfi ci renderà all’aurora i rifugi vitrei
delle finte nudità i nomi dove non ondeggia altro che l’indulgenza delle rocce
le roccaforti della catena umana lucidate da fillosilicati
piallano il massiccio di nuvole – sono i denti della folgore –
gola spiegata – che ci tende la crosta di neve –
sogghignano lassù
uno iato nella spalancata eternità ha morso
e le terrazze si crepano fino al cuore delle credenze
le zone dei cervelli smantellati scivolano su delle imbarcazioni dai perfidi limiti
sono le esche delle nostre esperienze – lassù dove tutto non è che sasso
polare decomposizione – fanfara cavernosa –
che se ne volta con indifferenza

*

cauto avvenire – lento a venire
uno spumeggiante sussulto mi ha messo sulla tua traccia di sguardo
lassù dove tutto non è che pietra e tovaglia di tempo
vicino alle creste argillose dove non le si gonfiano mai sotto l’abito di un allusione
canto l’incalcolabile elemosina d’amarezza
che un cielo di pietra ci getta – cibo di vergogna e di rantolo –
in noi ride l’abisso
che nessuna misura scalfisce
che nessuna voce s’avventura a rischiarare
inafferrabile si protende la sua rete di rischio e d’orgoglio
lassù dove non se ne può più
dove si perde il regno il silenzio piatto pulsazione della notte
così si ordinano i giorni al numero delle indifferrenze
e i sonni che vivono agli uncini del giorno sotto il loro giogo
giorno dopo giorno si rosicano la coda e danzano attorno
e lassù lassù tutto non è che pietra e danza attorno



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