1. il sogno non è che la realtà più intima e più autentica dell'uomo.
2. un sogno in realtà non si "racconta", poiché non è una narrazione e non ha personaggi, ma atmosfere di emozioni, crogiuoli di sentimenti sparsi, nuvole di pensieri.
3. Tzara dà parole al suo sogno più intimo e autentico: una storia senza attori, un palco senza sipario, se non se stesso.
questa è la premessa di questi canti, soprattutto del decimo, in cui appare tutta la durezza di un mondo che l'uomo non riesce a scalfire:
lassù dove tutto non è che pietra.
l'uomo non riesce a scalfire questa celeste indifferenza, eppure sa creare "catene", che lo legano all'esistente, all'altro e, anche se il mondo non sa sorridere, può divenire amico.
chi sono io? un anello, un semplice anello nella catena dei secoli del cosmo, un anello che però nulla può sostituire, nulla e nessuno.
così tante ore m'hanno imbastito del loro cemento friabile di tibie in croce
così tanti uomini m'hanno preceduto nell'augusto solco d'esaltazione
così tanto amore s'è disperso per edificare l'opportunità che mi gioco
nel carcere senza compagni dove s'aggira un sangue denso di rimorsi
così tante dolci frenesie hanno scarrozzato i paesaggi verso i miei occhi
la celeste indifferenza non si può vincere, ma si può danzare attorno ad essa: questa è la vera scoperta del fuoco da parte dell'umanità.
e lassù lassù tutto non è che pietra e danza attorno
Leonardo da Vinci, Vergine delle Rocce I, particolare, 1483, Louvre, Parigi |
X
la testa s’arrampica
circondata da eco sulla traccia dei muggiti fumogeni
che i vulcani hanno
percorso lungo delle migrazioni di esploratori
lassù dove tutto non è che
pietra
e cinguettio fragile
d’inconsolati soli seguito
dall’anemico viadotto
sbocco nel cratere di calce della valle incravattata di portali
e la metallica fauna
brulica amaramente nello stagno di ruggine e pelliccia
*
cinguettio fragile
d’inconsolati soli – gorgo di dune
dure da spezzare – le
minute cavallette nelle fessure
che un dubbio fidato libera
dalle maglie del sonno
e le fatiche che bavano sui
sofà in fiamme dove il sole si corica
circondato da loquaci
angosce da seguiti geometrici
da ciuffi d’ectoplasmi da
bulloni che dormono divertiti
da trasparenti trappole da
fermate da spazi
da accozzaglie da crepature
incatenate – l’aria muore
*
e che l’amore segua l’amore
d’inconsolati soli seguito
lassù dove tutto non è che
pietra
amante dei dolci pendii
incantatore delle acque irruenti
che la notte tremi in fondo
alla stiva
che tu possa tirar fuori
dalle tasche dei cocchi
i fazzoletti che volano
dove assordano i voti dei viaggiatori senza luna
sulle deformi illusioni e i
magazini delle razze
la pioggia mette il suo
telo di serra
e la fresa cresciuta al
seno di corallo sbecchetta lo scoglio
gli occhi inumiditi nella
rada di scoraggiamento
che t’attendono
lassù dove tutto non è che
pietra
e se ne voltano con
indifferenza
*
dei canti ingordi hanno
aggrovigliato le piume delle loro morenti misure
al banco della nave dove il
vento ha raccolto il diluvio di tutte le direzioni
che le flore hanno seguito
e abbandonato
tanto quello turbinava di
lente primavere nell’occhio clemente dell’imboccatura
che le scogliere si erano
messe a fremere delle orecchie di zattere
che gli insetti induriti
alla luna ribollivano nel’impotenza delle fantasticherie
erano delle campane degli
immemorabili asserragliamenti che gli acquazzoni dei secoli schiaffeggiavano le volte
il frutto della sabbia
sbiadita giaceva vicino al capezzolo dell’orrore
e la falesia aspra assisa
in se stessa i ginocchi al mento
masticava la sua stella e
la pacifica luce che la governava
*
raccoglitrice di mozziconi
nei boschi d’estasi
e d’astri fatiscenti
precipitati lontano nella fossa dei segreti
tronconi di paese di
pesantezza dilaniati brandelli
di zoppe fluidità di
riflusso
distratta convalescenza di
fiamme di trampolieri
lassù dove tutto non è che
pietra
le cisterne misteriose
dell’affascinazione
fermentano il frumento
illusorio delle voci
sulle ramature delle
cataratte la sera i ragni degli occhi si mutano in pena
selvaggia speranza lanciata
con i boomerang e le comete
nell’umidità di carbone che
nessun ritorno sfiorisce d’ali pensanti
né di tizzoni d’amore
*
e la dormiente – diffidente
delle raminghe carezze –
cinta di galee dove s’impasta
lo spirito
dove nessuna anticipazione
divide da un infedele riflesso l’indolenza stellata del mistero
si sfrega una crescita tra
i vetri di proverbi che il baccano adombra
verso la carne
infinitamente nomade del sogno
e se ne volta con
indifferenza
*
e nel fumo sono i pergolati
di fumo il fumo
che caracolla il bompresso
calpesta lo scricchiolio
è nel fumo dei pascoli
profondi qui dove tutto non è che pietra
ed è il fumo del sole che
sale dal terremoto dei dadi
gli assembramenti delle
capanne attorno a cieche dimissioni
i versanti distesi ai
passaggi dei pesanti convogli di calure
gli svaghi lisi sotto la
coperta dei foraggi
volto svanito nelle voci
delle bestie
florido fulgore nel cesto
delle voci
e mozzando di sbieco il
rilievo terroso il torpore di questa rumore
tatua la facciata di
funeste vedute
e d’amore
*
così tante ore m’hanno
imbastito del loro cemento friabile di tibie in croce
così tanti uomini m’hanno
preceduto nell’augusto solco d’esaltazione
così tanto amore s’è disperso
per edificare l’opportunità che mi gioco
nel carcere senza compagni
dove s’aggira un sangue denso di rimorsi
così tante dolci frenesie
hanno scarrozzato i paesaggi verso i miei occhi
e delle amare coscienze
hanno trattenuto gli tsunami nel loro setaccio di ansietà
così tanti viaggi
invisibili sono affondati nei miei sensi
così tanti miracoli ci
hanno legato
alla flottiglia di parole –
sedimento delle divine allusioni –
delle ipotesi che si
rotolano nei crogioli delle mezzanotti dello spirito
dove si spezzano gli
tsunami e quelle dell’amore si spezzano
e tante altre si gonfiano e
si sciolgono
e tante altre si spezzano
segretamente
*
e che il gufo vada e che la
notte intrecci
e che la notte vada ai
piedi dello stagno
e che la roccia intrecciata
di gufi drizzi la sua tenda
che il freddo venga dai
nudi boa a ricoprire la pace della colomba
lassù dove tutto non è che
pietra
dove l’erba indurisce dove
le dita appassiscono
dove l’airone teme l’ondata
dove la sua ombra crepita
dove i gioielli cadono e le
labbra del ghiacciaio vacillano
dove il feto affonda lo
scrigno in un lume mandibola
dove il ricordo scuote il
vento delle vittorie sul ponte
dove ci si annienta la
costa scorza del tempo
dove l’udito si vela
d’oriente d’altri tempi e di fatalità
sulle volubili vanità dalle
distanze di cristallo
lassù dove tutto non è che
pietra all’infinito
e nell’alambicco dei giochi
dove versiamo le lacrime e lassù tutto non è che pietra
l’allarme quello che suona
una sola volta suona tratto dall’alto di una lacrima alla sartia
sospesa alle fauci sputo
del vento tanto lenta da non poter dormire
strappata dal sole visitata
dai soli gravosa verso il mare
*
tanto quanto l’ombra rosicchia
i bordi porosi della notte
tanto quanto i fuochi si
sistemino a fianco degli amici sulle panchine
e se ne voltino con
indifferenza
l’uccellatore di quarzo può
abbeverare la luce nana d’abside
verso il sussurrio che
imperla lo scatto della sua élitra
ma da quale irreale
disordine di cripte e palpebre
da quale colore acre dal
fondo dei ritornelli
abbiamo noi attinto
l’arcano disgusto coperto sotto una foglia morta di scudi
e circondati da invisibili
scudi
respingendo tutta la vita
lungo il passaggio
la noia – infernale mozzo –
i trapani che sbirciano il pertugio
il loro magnetismo che
ronza che accerchia gli alligatori nel marciare senza passi
abbiamo raggiunto – lassù
dove tutto non è che pietra – la fraterna pietra
lassù dove tutto non è che
pietra
e contagio nel rifugio dei
talismani e degli istinti
*
quale specchio inghiottito
nei golfi ci renderà all’aurora i rifugi vitrei
delle finte nudità i nomi
dove non ondeggia altro che l’indulgenza delle rocce
le roccaforti della catena
umana lucidate da fillosilicati
piallano il massiccio di
nuvole – sono i denti della folgore –
gola spiegata – che ci
tende la crosta di neve –
sogghignano lassù
uno iato nella spalancata
eternità ha morso
e le terrazze si crepano
fino al cuore delle credenze
le zone dei cervelli
smantellati scivolano su delle imbarcazioni dai perfidi limiti
sono le esche delle nostre esperienze
– lassù dove tutto non è che sasso
polare decomposizione –
fanfara cavernosa –
che se ne volta con
indifferenza
*
cauto avvenire – lento a
venire
uno spumeggiante sussulto
mi ha messo sulla tua traccia di sguardo
lassù dove tutto non è che
pietra e tovaglia di tempo
vicino alle creste
argillose dove non le si gonfiano mai sotto l’abito di un allusione
canto l’incalcolabile
elemosina d’amarezza
che un cielo di pietra ci
getta – cibo di vergogna e di rantolo –
in noi ride l’abisso
che nessuna misura
scalfisce
che nessuna voce
s’avventura a rischiarare
inafferrabile si protende
la sua rete di rischio e d’orgoglio
lassù dove non se ne può
più
dove si perde il regno il
silenzio piatto pulsazione della notte
così si ordinano i giorni
al numero delle indifferrenze
e i sonni che vivono agli
uncini del giorno sotto il loro giogo
giorno dopo giorno si
rosicano la coda e danzano attorno
e lassù lassù tutto non è
che pietra e danza attorno
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