Il canto del BIANCO: la forza, l'impetuosità della natura, l'autenticità, la libertà, il vuoto, la violenza.
fuori è bianco. come i denti che sbattono, come la biancheria lavata al fiume.
fuori è bianco.
l'uomo ride davanti e dietro piange.
E poi il buio finale, che sembra spegnere tutto, tranne il ricordo.
Poiché in mezzo al buio noi non potevamo che sognare altro buio.
chi ci indicherà l'ora acre dove il timo sta morendo d'inganno
e fa fondere il suo colore nell'acqua tenere dei baci beffardi?
perso all'interno di se stesso qui dove nessuno si avventura salvo l'oblio.
Lisippo, Pugile a riposo |
VI
anche sotto la scorza delle
betulle la vita si perde in ipotesi sanguinanti
dove i picchi beccano degli
astri e le volpi starnutiscono delle eco insulari
ma da quali profondità
sorgono questi fiocchi d’anime dannate
che ubriacano gli stagni
della loro calda pigrizia
forse che il cigno che
gargarizza il suo bianco d’acqua
bianco è il riflesso di cui
il vapore si prende gioco sul brivido dell’otaria
fuori è bianco
una spaccatura che canta di
ali assorbe il mistral nella sua corolla di pavone
che l’arcobaleno schioda
dalla croce del ricordo
sbattendo i denti del cielo
battendo il bucato al fiume
turbinano i mulini bianchi
tra i fiocchi d’anima che
gli oppiomani fumano all’ombra degli sparvieri
*
la bocca chiusa tra due
notizie opposte si ghermisce
come il mondo imprevisto
tra le sue mascelle
e il suono secco s’infrange
contro il vetro
perché mai parola ha
varcato la soglia dei corpi
morto è lo slancio che
faceva bollire il maltempo
nei recipienti delle povere
orribili teste nostre vicine
e nonostante il fango
cittadino dei nostri sentimenti
fuori è bianco
che importa del disgusto
poiché la nostra forza è più ininfiammabile che la morte
e il suo ardore non
distruggerà né i nostri colori né i nostri amori
conchiglie e cocci
stratificati in piani di proverbi
il senso è il solo fuoco
invisibile che ci consuma
dall’origine della prima
cifra
gli avicoltori parlano un
linguaggio semplice
formato da un alfabeto di
uccelli dal bianco di fuori
bianco è il dito che i
pensatori hanno tanto sfregato contro le loro tempie
noi non siamo affatto dei
pensatori
noi siamo fatti di specchi
e di aria
e comunque insoddisfatti
oscuri desolati impermeabili
i denti di sega che
adornano la nostra fronte s’avvicinano alla morte
e balzano agli occhi da una
cosa all’altra per tutta la lunghezza del dizionario
sbattendo i denti del cielo
battendo il bucato al fiume
vomito dalle bianche creste
la nebbia si coaugula tra noi
e forse che saremo presto
imprigionati nella materia densa e melmosa?
forse che saremo presto
assorbiti dallo spugnoso letargo del ferro
che supera della lunghezza
di una dolorosa litania la birra e la menzogna
sorta da quale ghiacciaio
pungente di cui il bianco di fuori gargarismo di nuvola
succhia dalle radici delle
nostre iridi il miele dei secoli a venire?
*
appassita della sintesi l’indomita
tonica
e fiorita nei ricci libera
dalla pelle
alta in una corporatura di
muro
frequenta la morte
quotidiana la mia giornata è una fragile insonnia
ride davanti e dietro piange
*
le conchiglie e i cocci
stratificati in piani di proverbi
si leggono dall’alto al
basso attenzione fragile vetri
le risa rampicanti
inseminano di tempesta le costellazioni di api
e le lumache annusano la
maledetta zuffa degli acquazzoni
ride davanti e dietro piange
perché fuori è sempre
bianco
e come la trota che si
affanna contro la corrente che salta gli argini nel senso opposto delle cascate
tu risali la tua brizzolata
giovinezza fin dove il sole ha deposto le sue uova
e se da ogni bagliore
placido emerge un’agitata aureola di salvezze
non si sa quale alta marea
di magie si lanci alla conquista di nuovi punti di ritorno
dunque forse che raccogli
nelle reti d’ombra i rudi desideri che passano la loro vita a morire nel mezzo
e le morti permanenti che
non arrivano a morire?
l’uomo munge l’eterna
sottrazione di ogni pezzo in lui stesso
che gli resta a maturare
del suo debito nero verso i duri soli
ride davanti e dietro piange
*
cavalcatrice di spasmi
profondi è il cassetto d’antichità
che la pesca crepuscolare e
la glaciale offerta hanno sorvegliato fino al riposo delle parole laggiù
edificio impasto urbano
sbattendo i denti del cielo
battendo il bucato al fiume
un poco di latte un poco di
zucchero un poco di
all’ombra dei fumanti spini
sotto le arcate del tuo cuore
canta in vedetta un rosario
d’occhi incerati
e senza gioia s’accende lo
scarico libero nell’occhio del vulcano
dell’aereo l’annuvolata
depressione d’aria libera
cavalcatrice di spasmi
vento è il tuo pensiero fulmine la corsa
tempesta l’ossessione
botanica il tuo letto
il mazzo di sentieri si
alza e cammina in testa
e i lunghi pendii scivolano
facili le processioni laggiù
è l’esodo delle foglie
verso delle altre presso delle albe più grasse
così sfondo alla candela il
tuo ricordo spaesato
la pioggia ha roso la
malattia delle pietre gazze
cibo dei sorci le serpi si
contendono la preda dei ripari
e la cenere dei cadaveri
porta agli scricchiolii degli abissi incastrati l’uno nell’altro
all’ombra dei fumanti spini
in vedetta la sua perfida inutilità
*
chi ci indicherà l’ora acre
in cui il timo sta morendo di inganno
e fa fondere il suo colore
nell’acqua tenera dei baci beffardi?
sull’albero i frutti terrazzano
il loro balbettio visuale
fuori è bianco
bianco è anche il tuo
sorriso insegna del tuo corpo più bianco che ogni esperienza
sbattendo i denti del cielo
battendo il bucato al fiume
se mi fortifico alle
sorgenti indicatrici delle libellule di ferro c’è che
e se mi smarrisco c’è che
io
cavalcatrice di cascate il
tempo ha corso i suoi rischi e i premi
fui più forte e il
“c’era-una-volta” fu il mio compagno di marmo
i pugni degli alberi morti
si alzano ancora
e contro l’autunno del
firmamento s’abbandonano
è la mia speranza
*
ora immergo i tuoi occhi
nel nero fitto della canzone di paglia
il vino sarà più vivo
filtrato dai vespri delle tue pupille farfalla
ora sciolgo alla candela un
ricordo spaesato
vagabondo con dei labirinti
attaccati all’ombra dei miei passi
con dei pesanti pacchetti
di labirinti sul dorso
perso all’interno di me
stesso perso
qui dove nessuno s’avventura
portato sulla lettiga delle ali d’oblio
e a dispetto dei razzi partiti all’interno del globo
gli armadi geologici
sonnecchiano nelle fauci della montagna
di cui i corvi tormentano
il silenzio indecifrabile
stringendo le loro larghe e
dure spirali d’acciaio attorno al volo unico
perso all’interno di se
stesso qui dove nessuno s’avventura salvo l’oblio
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