l'uomo è l'eterno ricordo di un bambino, che nasce, che non conosce, che si getta alla ricerca.
l'uomo ricorda e anzi non può dimenticare, perché quell'infanzia è un amore che non può conoscere fine.
l'uomo non scorda perché è destinato a ricordare, ricordare anche quando il fuoco si spegne e l'inverno gli offre la cecità. l'uomo ricorda, rannicchiato nella sua infanzia di luce.
mi ricordo anche era una giornata più dolce di una donna
e come l’ora d’amore viene dal vento ritorna al vento
ogni crocicchio si ritrova in un’altra placida attesa
col vento che lo si canta lontano
sempre più lontana infanzia [...]
era una giornata più dolce di una donna che palpitava da un’estremità all’altra
ho visto il suo corpo e ho vissuto della sua luce
il suo corpo si dimenava in tutte le stanze
offrendo degli dèi inesauditi alle cieche adolescenze
dei mucchi di ragazzi mutati in cavallette su delle immense desolazioni di spiagge
le caviglie che stridono di una felicità selvaggia [...]
le potenti cadute degli uccelli di luce
sul mondo infiammato di giornate senza uscita
e poi non ho più visto nulla
qualcuno ha serrato rumorosamente la porta
- amica piangente in fondo alla stiva –
la notte s’è rannicchiata in me
G. Klimt, Le amiche, 1917, particolare, originale perduto nell'incendio del castello di Immendorf (1945) |
VIII
mi ricordo di una disillusione
sinuosa che estraeva dal passato la sua amara sostanza
che navigava senza chiarore
non so dove
si vedeva talvolta aprirsi
sulla fronte della canzone uno specchio come un’infanzia indolenzita
che sputava l’immagine per
terra
e spezzava la fulgida
giovinezza - delle tracce di sangue erano sparse da qualche parte
su dei lenzuoli insudiciati
da dei crepuscoli attardati
dei versi febbrili sotto la
brace
mi ricordo anche era una
giornata più dolce di una donna
mi ricordo di te immagine
di peccato
fragile solitudine volevi
sconfiggere tutte le infanzie dei paesaggi
non c’eri che tu che
mancavi all’appello stellato
mi ricordo di un orologio
che tagliava delle teste per indicare le ore
quelle che attendono ai
crocicchi i solitari
in ogni passante solitario
si squarcia un giorno il crocicchio di un giorno
e come l’ora d’amore viene
dal vento ritorna al vento
ogni crocicchio si ritrova
in un’altra placida attesa
col vento che lo si canta lontano
sempre più lontana infanzia
dalla terra masticata con
le ceneri nella serratura delle mandibole agricole
vorace porta al ridere
adulto di ferro
mi ricordo della misteriosa
furia che ti spingeva dopo il passaggio di una carovana
delle catene massicce si cullavano
nere nelle teste
dei galli drizzavano un
canto frugale in ogni paio di sguardi
e i venti asciugavano degli
umidi musi i latrati ben freschi
andavano a divampare ben
lontano dove non ce n’era più di memoria
divampavano con fracasso di
fiamme senza baccano
mi ricordo di una serena
giovinezza che radunava alla sua vetrina
i sospiri lucenti dello
schianto sparsi
senza baccano ma imbottiti
di fiamme
come li amo quando
resuscitano metallici di lacrime
lo sai – nevosa adolescenza
– ti ricordi tu
dei rischi piroettanti
nello spruzzo nero di lacrime
tra le boe dei seni mozzati
volevamo bere tutto il
sangue delle rocce purulenti di sole
che tentavano di afferrare
le onde dalle fauci cocenti
il mare portava delle
cicatrici ancora voluttuosamente calde
a ogni gemito vuotava il
suo sacco di sonagli di tanto dolore
non sapendo più che fare ti
ricordi tu del baccano che ci cingeva
del nostro abbraccio che
faceva impallidire i nefasti auguri della fiamma?
e la chiusa del sole cedeva
sotto il peso di tanto chiarore
un occhio d’uva che lo si
schianta
era una giornata più dolce
di una donna che palpitava da un’estremità all’altra
ho visto il suo corpo e ho
vissuto della sua luce
il suo corpo si dimenava in
tutte le stanze
offrendo degli dèi
inesauditi alle cieche adolescenze
dei mucchi di ragazzi
mutati in cavallette su delle immense desolazioni di spiagge
le caviglie che stridono di
una felicità selvaggia
dei rami che ciarlano nei
fragili ruscelli
ho visto il suo corpo steso
da un’estremità all’altra
e mi sono immerso nella sua
luce che penetrava da una stanza all’altra
l’albero dalle fruste che
strisciava di magre scie d’oscurità
il corpo immensamente
doloroso – era una giornata più dolce di una donna
ho visto sotto i letti
di pesanti masse d’ombre
pronte a rubare attorno a
ladri addormentati
nel palmo morbido dei loro
letti
ho visto appese alle
orecchie le aureole
di pesanti masse custodi
dai pugni neri
e che procedevano verso il
centro scrittura senza tregua
la pioggia che infrangeva
delle ali grigie e dei prismi
di brevi volontà fosforescenti
perse tra gli scarabocchi del ridere
il loro trotto che
risvegliava i campi chiusi dagli occhi
che senza rumore si stringeva
sulla vite del bordo del pozzo
di rari ansimi d’erbe folli
e poi delle catacombe di
uccelli gli uccelli
in fuga attraverso i
tentacoli asserviti
i fratelli addomesticati
nel ghiaccio
gli occhi di ceramica fissi
ai recinti delle patrie
dove le si getta le terre
in delle fosse di cadaveri e d’urina
più lontano ho visto le
ciglia che si premono attorno a degli uccelli – corona polare
e le potenti cadute degli
uccelli di luce
sul mondo infiammato di
giornate senza uscita
e poi non ho più visto
nulla
qualcuno ha serrato
rumorosamente la porta
- amica piangente in fondo
alla stiva –
la notte s’è rannicchiata
in me
*
su delle veglie di ninfee a
tastoni
nevica ormai dolcemente dai
culmini della notte
colore di notte – custode
di rune
che non c’erano che gli
abissi percossi dall’impetuoso illividamento
l’occhio adorno di
girandole sta discendendo dalla sua vetrina
con una lunga scia di
sibili acuti
si credeva scivolare verso delle regioni severe di biancore
dove i ghiacci cosparsi di
sospiri di uno stretto
verso altri mari rianimano
l’inquieta crepa
che il mattino brusco apre
nel cuore della stagione
il traino dei cani che si
confeziona alla caccia
che macina dei cuori
leggeri le capanne di neve
dagli occhi di perla nel
fondo delle provette
d’aver troppo guaito nella
pioggia dei naufragi
gioiosi attorno ai pendii
dove l’amore si dibatte in
gabbia suda al focolare
e grida e geme come si
consuma una tormenta nella camicia di forza
delle barche disarcionate
su delle sabbie mute
una tosse senza eco che
bussa alla porta
il vuoto dove sbadiglia il
roco blu
soffiano le profondità
gutturale d’onda –
lontano è tanto materno il
rimprovero che cova il silenzio dentro il verme lucente –
immobile e luminoso da così
immensa tensione
restare ritto tempesta a
tribordo
la rabbia ha conquistato lo
spazio turbolento
e il delirio flagella i
fantasmi di latte
non ci sono più che fantocci
che trascinano secondo gli obiettivi
la sanguinosa nenia delle
agonie navali
le deludenti esperienze
spossate dissolute
emanazioni di grida deformi di iene
mescolate alle frenesie dei
miasmi di cervelli
alle speranze impazienti di
liberarsi
era un mattino ruvido di
scorza e di vuote corazze
nella crudeltà
se giovani erano le parole
che il loro senso lasciava scivolare sulla pelle
e la ruvidezza tutto
attorno non premeva il fogliame sonoro
del peso dei rimorsi
che il sangue incompreso
rimuginava nell’immensa devastazione del mare
*
allora ho indietreggiato
sotto i portici sprofondati nel silenzio
la luna s’è rannicchiata in
me – e io ero la notte intera
dalle grinfie fastose di
roccia pronte a dilaniare l’umano silenzio
*
le strade pesanti perdevano
le loro ali
e l’uomo cresceva sotto
l’ala del silenzio
uomo approssimativo come me
come te e come gli altri silenzi
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