venerdì 30 dicembre 2016

è il passo che diviene strada - magoro eza nzela


sì, io amo le strade che corrono come amazzoni
irte e selvatiche
ma di terra, alberi, sassi.



sabato 19 novembre 2016
la strana tra Ariwara e Durba
(Repubblica Democratica del Congo - Ituri e Haut Uele)

venerdì 23 dicembre 2016

dei semplici auguri di Natale...

anche questo è Natale.
senza luminarie, senza tavola imbandita, senza babbo natale né befana, senza inverno né strade gelate, senza presepi, viventi o artigianali che siano, senza panettone, senza regali sotto l'albero.
anche qui è Natale, anche qui è festa, perché anche qui nasce il Dio-con-noi.
tanti auguri a ciascuno di voi, amici!






venerdì 16 dicembre 2016

10 FALSI MITI SULL’AFRICA (o solamente alcune nostre piccole ipocrisie)




1. “In Africa muoiono tanti bambini, ma tanto le madri hanno tanti figli, quindi conta poco per loro”
una bella idiozia, perché basterebbe ascoltare le grida di dolore che dalla camera funebre arrivano sino all’ospedale, sino al convento, per capire quanto tagliente e devastante è quel dolore, un dolore che accomuna universalmente madri di ogni latitudine, non solo le nostre.

2. “Gli Africani non hanno voglia di lavorare”
gli Africani sono cocciuti e gran lavoratori; è vero, non amano la fretta e lo stress, ma di uomini senza paura della fatica se ne posso trovare in quantità; ad esempio papà Faustin, che lavora 9/10, a volte anche 11 ore consecutivamente nei campi, a spezzarsi la schiena, per dare da mangiare ai suoi figli, per non parlare delle donne…

3. “Gli Africani sono incivili”
qui l’educazione sin dalla scuola materna è fortemente improntata sulle regole, il rispetto dei ruoli, il protocollo e raramente ho visto persone capaci di discutere (e soprattutto di ascoltare!) in modo partecipativo e condiviso quanto qui… a volte sin troppo! una volta, al termine di una cerimonia pubblica, ho dovuto pazientare e ascoltare più di 9 discorsi di ringraziamento (tutti peraltro perlopiù stereotipati) per rispetto del protocollo e delle autorità presenti, per un totale di 5 ore di cerimonia.

4. “In Africa non ci sono disabili, perché vengono uccisi subito alla nascita”
ci sono eccome, e ci sono anche comunità. pochi giorni fa ho conosciuto una mamma con suo figlio Frederik, un ragazzo ormai 17enne con gravi disabilità: lo portava con totale amore dovunque andasse, sulla schiena, e io mi sono sentito tanto piccolo; ho conosciuto bambini nati con malformazioni che qui non si possono curare, ho conosciuto ragazzi con sindrome di down, epilettici, autistici. in Congo esistono persone con disabilità e sono amati, nonostante tutte le difficoltà, tanto quanto in Italia.

5. “Il mondo africano è un terzo mondo, un mondo primitivo”
e se il mondo africano fosse semplicemente un mondo altro, con valori, tradizioni, connotazioni proprie? sarebbe tanto difficile da accettare? non ne faccio un giudizio morale positivo o negativo, ma solamente di una diversità arricchente: come il blu è differente dal rosso, senza che uno sia meglio dell’altro, il bianco dal nero, così la loro cultura dalla nostra. anche perché la povertà qui non è un dato strutturale, quanto l’effetto di una storia coloniale che perdura da secoli: ecco, quello africano non è un continente primitivo, ma un continente sfruttato, dimenticato.

6. “Ma l’Africa non ci ha mai insegnato nulla e non potrà mai insegnarci mai nulla”
tralasciando che i primi uomini e le prime grandi novità della nostra storia sorsero proprio dalla regione africana dei grandi laghi, è innegabile e attuale la larga influenza sulla nostra cultura: dalla musica contemporanea (blues, jazz, gospel, sino alla recente RnB) alla danza moderna (hip hop) e alla moda, ma l’arte nera ha determinato anche la cultura europea più aulica, basti pensare alla casa del surrealista A. Breton, piena di feticci e statue d’ebano, o all’innovativo saggio di T. Tzara, fondatore del dadaismo, “Sull’arte primitiva”, all’influenza sul cubismo.

7. E’ facile per loro venire qui e invaderci; vorrei vedere se capitasse nei loro paesi, che succederebbe…”
ebbene, il Congo ha accolto e accoglie ogni anno migliaia, milioni di immigrati dai paesi circostanti, ora soprattutto dal Sud Sudan. nella sola regione dell’Ituri ci sono tendopoli per migliaia di profughi ad Aba e Biringi, tendopoli che si affollano sempre più. e come reagiscono? be’, la Caritas della diocesi di Mahagi-Nioka ha organizzato una raccolta fondi ed è stato infinitamente arricchente vedere come anche i più poveri portassero qualcosa da condividere, anche solo una moneta o una pentola. non serve aggiungere altro: a ciascuno la capacità di confrontare quest’accoglienza con quanto avviene in Europa in questi anni di disumana follia.

8. “Tanto l’Africa non ha futuro”
l’Africa E’ il futuro, credetemi, poiché ha risorse smisurate; non intendo solo le risorse naturali lussureggianti, di cui finora è stata costantemente derubata, ma soprattutto le risorse umane: persone geniali con un entusiasmo, una sete di vivere che in Occidente sembra perdersi sempre più. scommettiamo?

9.“Loro sono troppo differenti da noi”
che esistano diversità socio-culturali è una realtà evidente e scontata, ma parlateci insieme, con uno di loro, e vedrete che avrete più punti in comune che differenze, che ama la propria donna, che piange per il dolore o la nostalgia, che odia le ingiustizie. forse riconoscerete nei suoi occhi un amico, o un fratello.

10. “No, l’Africa non fa proprio per me”
questa è la frase che io stesso mi sono ripetuto spesso prima di conoscerla, l’Africa; poi posso dire che docce fredde, viaggi precari ed estenuanti, soli torridi o piogge torrenziali, insetti e mostri di genere, pranzi a base di cavallette o formiche e tante altre piccole nostalgie non sono bastati a inficiare nemmeno un briciolo della sua bellezza, della sua autenticità, e ora mi trovo qui. venite e vedrete, aveva detto qualcuno.


venerdì 9 dicembre 2016

magnificat anima mea


ora faccio fatica, a chiamarli poveri. forse non sono poveri, sono solo altro, forse i poveri sono altri, ma chissà chi o cosa sancirà chi, tra noi e questo mondo primo, sia veramente meglio. Forse siamo noi a non essere la normalità, ma l’eccezione.
Africa è come una donna che porta sulla testa il mondo. Il paese dove le lamentele e i pianti non hanno spazio, il paese dove la gioia non costa nulla.



molimo mwa nangai mokokubisa mokonzi
ma kokata ngulu siamo
qui. tra fufu muchicha pondu
e il salmone affumicato di Ariwara
le costellazioni cristalline di formicai
nayoki te nayoki te nayoki
il sole dalla mattina e nella notte le stelle
Orione accasciato a Oriente
Feni che non ha pantaloni infante
Grace che non ha padre per suo figlio
Colette che non ha riposo né soldi malata
e tutti che hanno lo splendore di coloro a cui non manca
nulla. na motema mobimba
la vita notre vie bomoi nangai
siamo nel campo di sangue (ari-wara)
tokata ngulu sul monte Morìa
hanno barattato l’ariete bianco
poiché i poveri puzzano e non hanno amici
hanno sgozzato Gemima figlia di Giobbe
e una mamma bambina
e quelle ridono più di Isacco
bakati ngulu: ogni respiro
è il bottino abbondante, senza sforzo
mica il trono affannato dei superbi
renvoie les riches les mains vides
e l’alba s’alza lieve all’estasi di
Colette che conosce l’amore
Grace che dondola l’uomo
Feni che sorride di occhi
e me che sono solo esule
di quest’eden tradito LA GLOIRE DE DIEU
EST L’HOMME VIVANT vivant
a Radio Simba balbetta un mundele grato
e l’eco di Tchaikovsky accoccolato
na motema ngolu na bana


molimo mwa nangai mokokubisa mokonzi: l’anima mia esalta il signore, inizio del Magnificat, in Lc 1, 46
kokata ngulu: ammazzate il maiale!
fufu muchicha pondu: cibi tipici della cucina congolese, nello specifico sono rispettivamente polenta di manioca, verdure cotte simili alle coste e foglie di manioca cotte
nayoki te nayoki te nayoki: non capisco non capisco capisco, ma anche non sento non sento sento
na motema mobimba: e tutto il (mio) cuore / e tutta la (mia) anima, ovvero continuazione di Lc 1, 46
bomoi nangai: la mia vita
tokata ngulu: ammazziamo il maiale!
il monte Moria è il monte del sacrificio di Isacco in Gn 33
bakati ngulu: ammazzano il maiale
renvoie les riches les mains vides: rimanda i ricchi a mani vuote, continuazione di Lc 1, 46
mundele: bianco
na motema ngolu na bana: per la grazia dei fanciulli

venerdì 2 dicembre 2016

Piccola Favola d'Africa


c’era una volta un bambino, una mamma e un leone.
c’era una volta in Africa un bambino, una mamma e un leone.
ad Ariwara, un lontano villaggio sperduto nell’Ituri, nell’estremità nordorientale del Congo, costantemente a 5 minuti dal nulla.
c’ero anche io, nascosto come uno straniero, a vivere questa favola dietro a un baobab.
allora, c’era una volta un bambino, che sorrideva, una mamma, che si affaticava, e un leone: no, il leone non è il protagonista e in questa storia in realtà non fa proprio nulla, scappa via nella savana, a Sud, verso Biringi.
il bambino, dicevo, sorrideva, accoccolato al dorso della mamma, che si affaticava in un campo di manioca, al mercato, in marcia sulla lunga strada di terra rossa. lunga fino a dove? lunga sino al sole.
quasi mi illudevo che bastasse così poco per una felicità.
alzarsi con l’alba, coricarsi nella sera in una capanna di fango e fogliame, una notte di silenzio e stelle senza sapere quel che avverrà domani.
quasi mi illudo che basti così poco per la felicità.
in effetti, direte voi, mancano ancora tante cose per essere felici, tante cose. le scorgo nei nostri occhi, tra le nostre mani, nei nostri pensieri. fatene un elenco rapido, anche senza pronunciarle ad alta voce: tante e tante cose davvero.
io mi fido di quel che dite, figuratevi, eppure quel dubbio mi rimane, che basti così poco per una felicità, un bambino accoccolato al grembo della mamma.
sarebbe troppo semplice, cercherete di convincermi, troppo sciocco e chissà quanti pericoli, senza tutte quelle altre nostre cose, e io vi ascolto, mi fido di voi, poiché siete delle persone serie.
ma sapete cosa succede, alla fine di questa mia storia? che il bambino sorride, che la mamma sorride e che, mi scuserete, sorrido anch’io.










venerdì 18 novembre 2016

Agnes - 5 ottobre 2016


nel cuore della notte e delle tenebre
“su all’ospedale! corri!”
l’insulina rapida manca rimane la mista
Dezu Agnes anni 12
orfana di madre e il padre in piedi
s’agita in qualche dialetto e la sorellina
dorme accucciata sotto il letto
Agnes sta morendo con una grossa lacrima
che è una stella di un cielo malato
piange Agnes va a morire
l’insulina rapida manca rimane la mista
e una preghiera nell’immensità in attesa:
che per questa notte sia sufficiente
gli ululati dell’ospedale
la risposta silenziosa della notte
le sue ossa scoperte sul materasso
io coi suoi occhi qui, a ripetermi:
l’insulina rapida manca rimane la mista



venerdì 11 novembre 2016

ESENGO - che significa gioia



sono dovuto divenire vecchio invecchiare
per vedere che quanto la vita insegna e predica
predica e impartisce rimane polvere
di menzogne LOKUTA NA BOMOI:
gli onori e l’orgoglio i pianti le tasse
la gente nei bar i pranzi le tasche
le strade e le case le parti le tarme.
sono dovuto scomparire
nel nulla per scorgere
che sono un’anima santa.
i mestieri la rabbia il profitto dell’impegno
le camere le foglie l’affanno e un regno
i privilegi e il protocollo dei primati il prezzo
la sete del possesso poi gli scarti
le scarpe scomparse per le scarpate
la fame di nuvole la fame
il viaggio dell’amore non conta i passi: i respiri
ad accarezzare la luce e le notti
la bambina dorme, stringe una frittella.



poiché le cose non sono mai come appaiono: sono molto più semplici.

venerdì 4 novembre 2016

Haendel è passato da Ariwara



lo so, audio e immagini sono improvvisati e non possono rendere l'impeto di quel momento né la grazia delle voci, ma voglio condividere da qui l'emozione di essermi trovato di fronte a questo canto una domenica mattina ad Ariwara, nell'Ituri, nella RDC. 
l'Halleluja tratta dal Messiah di Georg Friedrich Haendel (1685-1750).
la Bellezza non ha confini e, se è scelta, non imposta, valica ogni distanza e si arricchisce di nuove sfumature impensabili, imprevedibili.
Haendel è passato ad Ariwara, potete giurarci.






venerdì 28 ottobre 2016

Lamila (Jesus azali awa - Gesù è qui)



che è un quartiere ai bordi di Ariwara
repubblica democratica del Congo nord est
6 km e mezzo precisa Paskaline
sotto il sole diritto per un manipolo di pallidi
sino ai piedi sconci e gonfi di terra
Emmanuel con un’ernia ombelicale
Jesus azali awa ripete la nenia
Claire che si china e allora io
ad affrettarmi: che il mio volto
si abbassi prima Jesus azali
awa gli uomini altrove a giocare
mama Sara contorta nell’artrite
resta a patire qui con Cristo
le mani le ginocchia ritorte le dita
otto anni in un capanno Jesus
azali awa vuoto e di fango
senza un cuscino sogna
la sua danza nel giorno di luce
le capre lasciate legate a un leccio
ma qui c’è Vega c’è Pegaso
costantemente a cinque minuti di distanza dal nulla
qui c’è Vega e c’è Pegaso
come se cantasse l’ultima notte del mondo

nella regione dell’Ituri ad Ariwara


quando Marco l'ha letta, il giorno dopo, subito mi ha chiesto con franchezza: "ma allora tu cosa pensi? parli cinicamente o ci credi?" Io, risposi, pensavo di aver solo tratteggiato la diapositiva di una mattinata forte e intensa per tutti noi. Ora, settimane dopo, ora che a Lamila non ci sono tornato, penso di averlo davvero incontrato, d-o, in quella capanna di fango e frasche. E che settimana prossima ci tornerò, là a Lamila.


venerdì 21 ottobre 2016

de profundis


mercoledì 14 settembre 2016, ed ecco una delle viste più deformi della mia vita.
uno stanzone di 80 metri quadri, il buio totale, mentre fuori dalle sbarre si distinguevano le urla e le mani.
solo dopo essere entrato e dopo aver stretto quelle mani, centinaia di mani, ho lentamente riconosciuto volti: volti di ragazzi, volti corrugati, volti canuti, volti annichiliti in un’unica gigantesca camerata di tenebre. chiedo qualche nome, mi presento, respiro a malapena nell’aria rancida.
queste sono le prigioni di Aru, questa è la legge qui, la legge del più forte che stritola i ladruncoli e i pazzi: gli internati si autogestiscono, tra violenze e rendimenti di conti, e in questo angolo di inferno chi non paga 110 dollari al “presidente” eletto di questo novello Zaire non ha neppure il diritto di sedersi, di dormire, di mangiare, di essere uomo. per questo vengono chiamati zerozerò, gli zero nella terra del nulla. l’anno scorso ne sono morti di fame sette in pochi mesi. no, non si possono fare nemmeno foto: non è permesso neppure ricordarsi degli ultimi degli ultimi, poiché (mi rammenta qualcosa a cavallo tra Dante e Primo Levi) non fanno più parte della nostra umanità.
madre Angela ci ha accompagnato fin qui (quaggiù, mi verrebbe da dire), per offrire boccone di pane e una preghiera assieme. lei si cura di loro, lei si batte per loro e loro la rispettano. loro la accolgono tra loro e pregano, cantano. da un barile arrugginito nasce un ritmo e un canto a un d-o che perdona, che ama, che rimane a fianco del peccatore. “io ero in carcere e voi mi avete visitato”, ci ricorda alla fine con un sorriso commosso, mentre fuori dalle sbarre le mani ci cercano, ci salutano ancora.
mercoledì 14 settembre 2016 ed eccomi davanti all’inferno terrestre, ma anche all’amore umano.



le mani dalle porte dell’inferno
110 dollari per essere degni
di essere uomini “ero in carcere…”
dicono gli zerozerò
dalla ruggine nasce un canto

“…e mi avete visitato”

venerdì 14 ottobre 2016

mama na ariwara - donna di ariwara



“vorrei che ci insegnassi una carezza”
la donna di Ariwara dal riso chiassoso e gli occhi incerti
la donna di Ariwara dalla pelle di miele, dalle cinquanta parrucche
la donna di Ariwara che s’intraffica tutto il giorno oltre il tramonto, s’intraffica sola per quattro figli
la donna di Ariwara che ha perso gli incisivi piegata a terra
la donna di Ariwara che porta un figlio sui lombi e uno nel ventre
e un pollo le mille donne del mercato
la donna di Ariwara che è la seconda o la terza moglie di un uomo che non sa amare, ma abbandonare
la donna di Ariwara che non hai mai provato un bacio una carezza un abbraccio
la donna di Ariwara che non può accavallare le gambe, che è taboo dice lei
la donna di Ariwara che vale sette vacche, più o meno
la donna di Ariwara che sulla testa regge il mondo intero
la donna di Ariwara a cantare danzare nel coro, cantare a squarciagola e danzare forte
la donna di Ariwara che cammina cammina cammina
“vorrei che ci insegnassi una carezza”


una storia, una sola, un po’ per redimermi da tutte quelle volte che mi sono lamentato di lavorare circondato da donne, dalle loro chiacchiere su figli e abiti, dalle loro cure e apprensioni. una storia, neanche la più significativa o notevole delle cento che tengo in me, forse solo quella più semplice.



Meggy da Arua, 19 anni e una lunga ruga sulla fronte.

l’ho conosciuta a Lweza, uno dei sobborghi della regina Kampala. avevo conosciuto un ragazzo in città che mi aveva invitato a cena da lui: “perché no?”. viveva coi due fratelli, due sorelline e Margaret, la sua domestica. lui sul divano mentre lei bada a tutte le cose della casa, al cibo, alla cura delle bambine, dormendo in un ripostiglio di fianco alla cucina e mangiando a parte, intoccabile e senza una parola. mi sono avvicinato alla fine della cena, con la scusa di aiutarla a lavare le stoviglie: “no, non studio più da qualche anno. ho lasciato il mio villaggio e sono venuta qui per lavorare”. e come ti trovi? “I’m ok” abbassando gli occhi e quella lunga ruga sulla fronte. dice che ho uno strano accento americano, Meggy, ma si fa fotografare volentieri, sorride. prima di andarmene l’ho salutata, mentre tutti uscivano indaffarati e indifferenti, l’ho salutata quasi furtivamente come se quell’abbraccio no, non fosse normale, non fosse permesso tra quelle mura.



venerdì 7 ottobre 2016

ma in inglese non ha nome


una parola basta ad esprimere il cuore di un mondo? 
dove tutto sembra potere essere schiacciato e svilito, una parola può ancora rappresentare un'identità, un tesoro nascosto.
all'università mi ripetevano che la lingua è specchio del pensiero e dell'anima di una cultura: l'albero dai fiori di fuoco ha un nome.


ho visto una bambina mangiare sabbia
camicie francesi per i colletti di Kampala
film americani per gli studenti di Kyotera
e un’antenna parabolica tra le spianate di papiri
campionati arabi per i bar di Mbarara
l’albero dai fiori di fuoco
madonne bianche per madri nere
manichini bianchi per giovani neri
ho visto una bambina mangiare sabbia
moto giapponesi e chiese a croce latina
mondi bianchi per un villaggio nero
nier in japadola e giritiki in luganda
ma in inglese no, dicono non abbia nome

l’albero dai fiori di fuoco



venerdì 30 settembre 2016

bethlehem di kyotera / uganda

Una foto pubblicata da Emanuele Pini (@emanuele_pini13) in data:

nzela na papa Mayele - rue papa Mayele


era piena notte in volo tra Istanbul e Kigali, ma il mio vicino, incurante, mi ha toccato il braccio e ha iniziato a parlarmi. era un ruandese, ormai da 20 anni a Londra, e tornava a casa per lavoro. mi diceva che quando sarei stato Là, nella sua Africa, avrei dovuto capire che fare per aiutare, metterci del mio senza pensarci troppo.
poi sono arrivato Là.
quando dopo alcuni giorni madre Marcela si è lamentata per quella stradina verso l’ospedale che continuava ad allagarsi nella stagione delle piogge, mi è venuto spontaneo proporre di rifarla, poco coscientemente. aiutare, senza stare a pensarci troppo, senza alcuna esperienza non solo riguardo a strade ed edilizia civile, ma anche a comefaredelbuoncemento; una delle tipiche scommesse perse della mia vita.
eppure qualcuno ci ha scommesso con me: Paolo "moindo" Bazzocchi da Lugo, anni 21 per 195 cm, e ci abbiamo scommesso pesante (“fess”, direbbero i miei amici bresciani).
rialzare il suolo argilloso, chiedere consigli e riconciliare i differenti pareri, scavare nel prato i canali laterali di scolo, scoprire che i mattoni di terra rossa si frantumavano, recuperare delle pietre piatte a sufficienza, incastrarle come in un gigante puzzle, affrontare le perplessità degli altri e in primis del proprio passato, impastare e passare il cemento, tutto questo senza troppi fronzoli, a volte sotto il sole a picco e a volte sotto le piogge della stagione, senza grandi parole.
perché il buon Paolo non si perde in discorsi, ma si alza, va e lavora ed è forse stato questo un grande dono: badare al sodo senza fronzoli, mirando al fine, senza insicurezze, nonostante i giorni di lavoro passassero e la fatica aumentasse e i timori, silenziosi, si potessero sentire nell'aria.
sognare e sudare, l’unico pensiero.
 “ce la faremo, a fare questa nostra dannata strada”, sognando se fosse meglio intitolarla papa Mayele street, rue Bakhita o via Maria Goretti o, perché no, via Marcela Lopez.
sognare e sudare, l’unico pensiero.
come quando abbiamo preso "in prestito" un’ambulanza per battere il fondo, come quando papa Maurice rideva dei nostri modi così “mundele” e noi ridevamo di come aggiustasse un piccone col machete, come quando osservavamo e studiavamo nei dettagli ogni scolo che incrociavamo, come quando riempivamo la piazzuola di spettatori incantati dal fatto che, sì, allora anche i bianchi lavorano, come quando si andava in cerca di sabbia per le stradine attorno.
ora però non andate al classico lieto fine, perché io penso che forse non ce l’avremmo fatta, io e Paolo.
ce l’abbiamo fatta io, Paolo, Juniore, Christian, Dunya, Zebra, Jean, e poi quando le speranze sembravano assottigliarsi sono arrivati in nostro aiuto anche Marco, Oscar “mr. silenzio stampa”, Carmine “il maestro” e Sean. no, senza di loro non si sarebbe concluso granché, perché, lo ammetto, niente a volte è difficile quanto chiedere aiuto. perché non abbiamo costruito muri, ma una strada.
sognare e sudare, l’unico pensiero.

sì, erano solo 37 metri di strada di un villaggio sconosciuto ai bordi del mondo e tutto può apparire tanto banale e insignificante, ma forse il mio amico ruandese ora potrà sorridere un poco anche di me e di queste immagini: