giovedì 27 settembre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, XVI

la mano di un uomo 
la mano dell'uomo è il campo dei suoi sogni e l'estensione del suo sguardo. 
la mano, ascoltate, è solo un seme e i suoi frutti sono alberi secolari di cui non conosceremo l'ombra.

dove siete voi popoli piegati sotto al peso degli dèi dell’assurdo?
dove siete voi dèi stretti attorno all’argilla della parola?
l’amore sono valanghe delle occasioni inesistite
nel calice fiero della tua età
berrai si dice ancora tante livide annate
e la tua ebrezza consumerà ogni luce
e i tuoi occhi esauriranno la luce
ma il mio orizzonte non supera più il quadrante d’un orologio
l’arena dove la corsa dei tori ribolle nel mio cuore incalzato dalle accese estati
ci sono dei fiori che s’inginocchiano
mani mozzate
ci sono anche mani che scrivono
pace agli uni gratuità disincantata agli altri a seconda del caso dei pozzi in cui cadiamo
mani incendiarie
le sole che splendono
come agglomerato di epidermidi e di geroglifici

A. Warhol, Portrait of L. Van Beethoven 390, 1987


XVI

le eclissi mostruose fitte d’alberi
tritate nei mortai delle lune senza scontri
i cenci vegetali della dimora rampante
che la nuvola trascina al conflitto degli occhi
hanno conquistato la tua ombra – xilofono di scaglie – montagna
di cui i fulvi letti di sole crepitano frigidi di volts e d’abbandoni
e nelle gole aperte a colpi di incubo
la crudeltà del vento cauterizza il fulmine e la sete della bacca

*

la speranza dai molteplici flussi clima a livello del paradiso
ha logorato il vagone e in ogni viaggiatore trovo uno scomodo domicilio e m'annoio
conosco le onte tumulate nel dolciore dei luoghi cicatrizzati
sulla scala le contingenze che ribattono alla fame di ciascuno
alla sua ribellione alla sua umiltà dove siete voi aspre avidità?
valanghe accumulate ai crocevia delle latitudini
dove siete voi popoli piegati sotto al peso degli dèi dell’assurdo?
rinchiusi nelle stalle assopite d’anfibi
nelle lagune cesellati d’intemperie e traffici
e sotto le prospettive delle arcate nelle penisole maestose d’umanità
sottomessi ad occulte turbolenze alle tirannie verbali e funebri
valanghe delle stanchezze incavate
dove siete voi dèi stretti attorno all’argilla della parola?
le braccia incrociate sulla pancia della caverna la notte magnetica cospira
già con il lento brulichio batteriologico
che da piante ci rende uomini
dalle mascelle ferine per l’impotenza di rigettare l’odio creatore
e pure l’amore valanghe delle occasioni inesistite
tra i suoi denti s’infrange l’intrepido impeto delle dinamo
nel calice fiero della tua età
berrai si dice ancora tante livide annate
e la tua ebrezza consumerà ogni luce
e i tuoi occhi esauriranno la luce
per regali troppo frequenti di libertà
c’è la luce che lava le stoviglie interiori
dei nostri miseri affari con ogni presenza
e la prostituzione alla quale ci abbandoniamo presso le stazioni
dove a ogni ora gli altri noi stessi arrivano carichi d’ingombranti bagagli di vita

*

il mio orizzonte non supera più il quadrante d’un orologio
l’arena dove la corsa dei tori ribolle nel mio cuore incalzato dalle accese estati
e sotto i passaggi imbarazzati di patetiche confessioni ci sono dei fiori che s’inginocchiano
espiando il loro smarrimento sui mercati delle pulci delle creazioni spontanee
accatastati nei caleidoscopici guardaroba le generazioni silenziose
appese ai grappoli di bolle di sapone i polpi
salgono alla putrescente escrescenza del cielo di fasce
e la voce di pappagallo grasso incastrato in una porta
tinge i getti d’acqua illuminati a giorno dove di sonnolenti decorazioni di addobbi si ostentano
un’altra città come un altro dolore
il tempo si beffa di noi

*

vicolo sotto il via-vai delle ruote impastato
mantice che solleva ritmicamente la scorza terrestre
il grembo delle parole tanto amate nutrici madri
che palpano la bramosa carne delle sere
mani che rimuovono dalla fronte dura la fitta coltre di pensieri erosi
alle labbra portano il bicchiere dove si moltiplicano i mondi
fanno la carità e sviliscono il pulito portamento dell’uomo
mani tese sul rottame che trasporterà il corpo abietto
ma il rottame è d’aria e fugge
mani che pregano davanti al rottame d’aria – senza poterlo afferrare
che dicono ad altre mani l’inarticolabile possibilità
ciò in cui l’orecchio s’avventura nelle vibrazioni irrealizzabili e fini
che sole sentono l’oscillazione del disprezzo
mani fresche e musicanti delle serene scoperte
mani capaci nei soccorsi o distruttrici
che coprono di lacrime che mettono in ordine gli erbari degli appunti e dei fatti
mani che catturano e domano le belve sorte in corpi d’uomo
forgiati alla tensione dei parti celesti
e mani che assassinano pure
vendicano l’uomo caduto nell’ossessione animale
mani mozzate
ci sono anche mani che scrivono
pace agli uni gratuità disincantata agli altri a seconda del caso dei pozzi in cui cadiamo
mani incendiarie
le sole che splendono

*

così si meraviglia della cantilenante illustrazione il viale
di cui il focolare è numero lume cuore di barbarie
e sollevando la regione sebbene l’acqua sia vigile
noi noi siamo la vivisezione botanica
che canta per i viali
e gonfia d’atlante l’estinzione opaca degli oboi

*

i bar si aprono alle confidenze e all’interno delle conchiglie
danzano le diaboliche vibrazioni attraverso cui si filtra il passato
tra i denti solidificati sul morso d’aria
ascolto ancora la sega di nuvole
che tagliò l’orizzonte della maturità dalle tracce ondeggianti
e nel tuo cuore il tormentoso contorno e al di là
il burrone s’abbuia e serrato è il brulichio di natanti nella pentola
c’è nell’uomo un paese incolto e arido che questo calpestio si ripete
con battibecchi e crudeltà o terremoti
incudine su di te le scintille degli occhi si spezzano prestigiatore
uomo approssimativo come me come te
perché non sai sparpagliare la tua anima in carte da gioco?
in carte geografiche che i tuoi solidi piedi pesteranno
comparando così la forza delle scogliere con quella delle città e dei nervi
sbucciando negli scali generazionali i frutti delle nuove età oh siccità
sotterfugi sputi d’angeli che incollano grasso di medusa
escremento del mare vendicatore

*

e il melmoso mollusco si risveglia agglomerato di epidermidi e di geroglifici
la città stretta nella boa delle sue periferie circondata a fatica dalla misera moda
e tutto fluisce nella fangosa mediocrità da dove s’è schiuso un canto vagabondo
ognuno se ne va dietro al carro funebre della propria densa esistenza
che il baccano nella sua chiassosa fossa comune fagocita e soffoca lentamente
e mentre crepa il timpano del tamburo da dove schizzano le nuove versioni l’elettrico diluvio
sfiora l’improvvisa esalazione e il filo che risale all’origine dell’angelo
alle crisalidi degli astri miagolanti che galleggiano sullo stagno del tempo
illumina sul suo tragitto lo schieramento nuziale i mancamenti di piovre lattee







mercoledì 26 settembre 2018

senza abbassare lo sguardo



stasera mi arrivano immagini strazianti e straziato sono qui a informare di una nuova strage in Congo, a Beni, una città del Nord Kivu, che stava ancora vivendo l'emergenza ebola.
amici congolesi mi hanno inviato un video in cui guerriglieri, dicono ugandesi, sgozzano 21 ragazzi, 21 civili, un video troppo cruento anche per i miei occhi.
tanto sangue che si sparge su quella stessa terra che dovrebbe unirci.
amici di Beni, di Butembo mi scrivono "Oyebisa oyo na Poto! Motema ezosala nga pasi..." Fallo sapere in Europa! il mio cuore sta soffrendo...
altri amici commentano ancora più amari: "Imagine l’outrage du monde et des médias occidentaux si, au lieu de 21 Congolais, c’était 21 gorilles qui avaient été massacrés! Ou si 1 seul ressortissant américain y avait été contaminé par ebola... Où est l’humanité?" Pensa lo sdegno del mondo e dei media occidentali se, al posto di 21 congolesi fossero stati massacrati 21 gorilla! o se un solo cittadino americano fosse stato contaminato dall'ebola... dov'è l'umanità?
non so che scrivere e non so che dire: soffro anch'io, con loro in questa notte in cui sento tutto il peso di tanta violenza, di tanto odio, di un mondo crudele, che noi abbiamo reso crudele.
crudele in Congo, un paese ostaggio della ferocia del dio denaro; un mondo folle in un'Italia in cui i migranti ormai sono il capro espiatorio della frustrazione universale; un mondo fascista a Rebbio in cui un prete amico degli ultimi viene minacciato per il bene che fa; un mondo cieco, persino a Bulgarograsso, in cui ci si fanno roghi per una persona che neppure si è voluto conoscere. 
da quando ci siamo fatti vincere dalle paure razziste, dall'indifferenza più becera, dagli istinti più livorosi?
è forse la notte del mondo, ma l'alba inizia quando si inizia a fissare l'oriente, a fissarlo tutti assieme. voglio alzare lo sguardo. io sono solo un uomo, ma voglio vivere da uomo e attraversare quest'oceano con una piccola fiamma di speranza in mano.
buongiorno, notte.


domenica 23 settembre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, XV


la nascita
la nascita è un mattino. 
ogni nascita è accompagnata da un dramma o, come sosteneva Otto Rank, la nascita è il dramma, il trauma di tutta la nostra vita.
nascere è venire alla luce, ma anche al sangue, al dolore, alla lotta; nascere è semplicemente venire a se stesso.
come un mattino, coi suoi soli e i suoi geli.
la luce nuda che si trascina ai tuoi piedi
mentre il bambino si dispone nella fila freddolosa
che segue l'eterno gemito della carne
in ogni poro della pelle
c'è un giardino e tutta la fauna dei dolori
bisogna saper guardare con un occhio più grande che una città
sul ghiaccio danzano i lupi
mattino mattino
mattino sigillato di cristalli e larve
mattino che profuma
alito allacciato alle striature dell'iris

Maschera africana dan, Costa d'Avorio

 XV


quando il sole ebbe affollato a sufficienza di record a prezzo d’oro
i velieri d’ardore e gonfiato le mammelle della terra
questi qui si guardano a gettare al cielo il loro cibo di fuoco e d’abisso

*

sul versante venato d’acanto e di ceppi
il vomere mina la nebbia di gnomi nell’argilla rachitica dei mimi
mentre dall’orecchio del polo il mondo raffigura la tempesta
degli astri incompleti i boreali salassi
le levate di lava bavano sulla vallata
d’aria abbottonata alla brina sono i boccioli dei fuochi folletti
che dalla loro colata di metallo cavano il miele dei suoni affrettati
e la mordace disperazione aggrappata all’armatura della notte
ha lasciato la presa tale è la forza della luminosa ammonizione
il vento una volta teso attorno alla sera del tuo collo nudo
ha superato gli aerei approdi del volto eterno
invita oramai per dei segreti sussurri
l’aurora suadente ad abbandonare l’inesauribile lavacro
e le onde sciolte si contraggono sotto le pieghe
della fisarmonica – il brivido assorbe e restituisce le trottole scisse
le multicolori brache si disperdono verso tutti i venti
alla gola tu prendi il violino
e poi alle tempie ausculti il disgelo della sua parola
ma subito l’uccello s’aggancia al bavero della capanna
fiaccola di rozzi presagi
appicca il fuoco al giorno che si risveglia nei nostri petti

*

si festeggiano le nozze cristalline
da dove emergono le fresche spighe dei scintillii marini
le carriole squillano già i vivi arrivi
di monete d’argento sul banco del mattino rarefatto
e lo stagno dei soli inghiotte le afroditi di foschia
il latte precoce delle loro età che schizza sulle pareti delle conche
tu sei all’ora della colazione della tua vita
i tuoi passi lavorano a maglia la desolante distanza che è già aumentata
tu cammini a testa alta di fili d’erba
tu spremi la luce dalle colline domestiche
la luce nuda che si trascina ai tuoi piedi
e che dalla tua parola bambina abbigli di lane
ma prima che le tue preghiere abbiano ingarbugliato la via atmosferica a cui l’eco s’aggrappa
il cesto delle strade che si ritrovano attorno al rocchetto
l’età è matura per catturarti nella sua rete sorniona
da dove le vie d’uscita sono tortuose e i ricordi setacciano a stento

*

e allora i rami di fuoco ricamano le crepe dello zenith
attraverso cui hai messo radici in te stesso e volontà
una pipa nella bocca della porta socchiusa
che il tuo bacio divide in due spicchi di addii alternativi
s’immobilizza docile calice
mette la museruola al campanile ardente di latrati
che ai chiassosi stravolgimenti enumera l’abbandono
chiesa presa per la vita al fianco della collina
irrigata dalla marea delle frange di bagliori che fuggono in fondo
lo sbarco delle stelle senza guida né tregua
il loro prolifico accamparsi tra noi

*

e la mano di dio tasta il polso duro del timone
regolare e senza paura il sangue frusta lo zodiaco
mentre dai genitori della fidanzata s’alza il dignitoso lamento
allattato dal rischio del tic tac della linfa vulcanica e del treno in marcia
ecco qui che la vita si taglia come il verme
e che il bambino si dispone nella fila freddolosa
che segue l’eterno gemito della carne

*

in ogni poro della pelle
c’è un giardino e tutta la fauna dei dolori
bisogna saper guardare con un occhio più grande che una città
sul ghiaccio danzano i lupi
si porta il suo bagliore sulle spalle
sul suo verde si fanno degli sport si gioca alla borsa
e spesso si canta sul tetto
da ogni nota sale dalle linee della mano sull’albero di trinchetto
scende dagli animali alle radici
perché ogni nota è grande e vede

*

seminare delle tossine nell’epidermide della terra
sotto l’albero sovraccarico di segni musicali
arrampicarsi a tastoni sulle collinette calcaree
tra le lucertole e le lapidi tombali
le rimesse di resina e gesso
i cimiteri dall’odore di trementina
sbranati dalle aguzze grinfie schierate in semicerchi
aperte come il ridere dei sonagli
e corrose dai ricordi delle lebbre diluviane
che sanno quelle della solitudine
dove le strade s’estinguono sotto le antiche fughe
un’ombra si affretta la morte

*

la brezza chiomata spazzerà le sponde gli arbusti e i corni
e il pianto che la nuvola contorta straniera
risuona sul paese in bilico un lutto che calpesta il suo grido di battaglia
nell’oceano sul velluto di sogno
la notte in disparte partorisce una nave

*

mattino mattino
mattino sigillato di cristallo e di larve
mattino di pane cotto
mattino di battenti impazziti
mattino guardiano di stalla
mattino di scoiattoli e di smerigliatori di vetrate fresche al fiume
mattino che profuma
alito allacciato alle striature dell’iris


martedì 18 settembre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, XIV

i versi della consolazione

“alza i tuoi occhi”: è questo l’invito del poeta, “alza gli occhi più in alto”.
cosa c’è sopra i nostri occhi, cosa c’è sopra di noi?
chiudi gli occhi e alza gli occhi
“al lento inferno del tuo abbraccio caldo
una voce si riversa e si spegne
una voce ha lasciato l’impronta delle sue cinque dita di cristallo sul soffitto”
tu senti questa voce, fratello? tu senti la tua voce, uomo?
“e una foresta vorrebbe bruciare tanto tremolante è il suo calore
un uomo vorrebbe bruciare una foresta di uomini
un uomo vorrebbe piangere un uomo
un uomo vorrebbe gettare la sua testa nel fiume fresco la sua testa
una donna vorrebbe piangere sull’uomo
un uomo è così poca cosa che un fine alito di vento lo travolge
l’uomo
ed è infinita la santa varietà della tua specie

uomo approssimativo come me come te lettore e come gli altri”

qualcuno mi chiede parafrasi, ma che posso aggiungere io a questa Bellezza?

A. Wildt, Vedova, 1894, GNAM, Roma



XIV

alza i tuoi occhi più in alto che le alluvioni delle pesanti nevi
alza i tuoi occhi là dove le mascelle sbattono di tanta severa chiarezza
verso i mulini a banderuole degli astri è così veloce il turbine nella sua rotazione
che i suoi raggi non macinano più il tributo di fondotinta al cielo la polvere
i chicchi di caffé bruciato a valle della notte
la farina come sono bianche le camicie dei dirupi
quale calamo scrive la bizzarra lettera circolare dell’orizzonte querulo
che i tuoi occhi dal centro scaccia verso il più confuso e lontano dei sensi
si alzano verso l’eterna incandescenza
che assorda l’apparenza delle cose e la loro parvenza d’eroismo

*

abbiamo spostato le nozioni e confuso i loro vestiti con i loro nomi
cieche sono le parole che non sanno ritrovare che il loro posto fin dalla loro nascita
il loro rango grammaticale nell’universale certezza
è davvero gramo il fuoco che credemmo di vedere covare in loro nei nostri polmoni
ed è spento il barlume predestinato di quello che dicono

*

ma quando il ricordo viene a minacciare la sua maschera di grido di delitto
che vuole strappare le lettere delle parole
la paglia esce dal materasso del mio corpo che resiste tanto quanto il mio dio mi opprime
e così duro oh cielo febbrile e
e m’infrango lungo la struttura di ferro
e calpestato come un frutto sotto il piede distratto
piango del fiele succulente liberazione
se avessi potuto ammazzare il ricordo preda in fuga
che la parola al suo arrivo diviene sudicia che non la strozzi mica tu
prima che non straripi dal secchio dell’atmosfera
che non resti impigliata alla mostruosa bava delle stalactiti
all’orlo del sorridere le grotte animali
che il ricordo si annienti folgorata sia la sua gloria e il miraggio
la velocità contagiosa con la quale si propaga
raggiunge le più recondite contrade in altezza e in orrore

*

e tuttavia gli oggetti son qui consolazione che sfiora le sensazioni
non ci sono che i loro nomi che siano marci putrefatti guasti
la luce ci è un dolce fardello un mantello caldo
e benchè invisibile ella ci è tenera amante
consolazione
canto l’uomo vissuto alla potenza voluttuosa del granello di tuono
che si avvolge anche della sontuosità siderale della polvere e brilla
consolazione
e quando uno dopo l’altro saremo passati per il passaggio supremo
instancabile girasole giostra di sole
e che la tristezza del nostro soggiorno sarà stata spazzata via da questo mondo
dalla cima della cupola di raggi scenderanno delle lacrime chiare
e l’amore sarà abbastanza forte per camminare a fianco della lenta coscienza delle piante
consolazione
nelle culle volanti dove cresce la lenta coscienza delle piante e delle cose

*

il nero tunnel attraversa la testa cotta in un forno
contorno e dimenato contro i muri gettato spazzato in mucchi come immondizia
esco tremante e bendato di larghi solchi di crepuscolo
una parola
convalescenza
una parola
secca e cupa
imbacuccata in delle ferite d’inverno
una voce sganciata dai sipari
consolazione
cellule crude stratificate
al lento inferno del tuo abbraccio caldo
una voce si riversa e si spegne
una voce ha lasciato l’impronta delle sue cinque dita di cristallo sul soffitto
dispiega il suo chicco di fuoco concentrico
sotto il messaggio del fachiro luminoso
sgrana dei miti e dei denti dagli occhi

*

ora l’albero è divampato dalla terra
e l’esplosione ha ancora paralizzato lo scoppio sparso
ma nel mio cuore non è permesso alle radici degli istinti variabili
di uscire col benefico baccano delle liberazioni e delle colombe
c’è forse ancora bisogno a lungo per la rigidità delle corde
che io riempia il bicchiere già traboccante di così minuscoli lamenti
oh mio dio mio violino non è ancora il varco tanto atteso
che al fracasso dei pesi morti delle vulcaniche sorsate
mentre attraversava gli argini e i filtri potrebbe un giorno riversarsi
nel cavo della tua mano impassibile alla base di tutto
che forse una seconda sostiene ancora
impasto degli astri

*

un tronco d’albero posto sul bordo
fuma ancora di dense nuvole
e una foresta vorrebbe bruciare tanto tremolante è il suo calore
un uomo vorrebbe bruciare una foresta di uomini
al suono delle truppe fosforescenti nella notte delle mie consolazioni
un uomo vorrebbe piangere un uomo
un uomo vorrebbe gettare la sua testa nel fiume fresco la sua testa
una donna vorrebbe piangere sull’uomo
un uomo è così poca cosa che una fine rete di vento lo travolge
l’uomo

*

ma che importa l’uomo al crocicchio di spade
che sulla pista del cielo mette alle prese saetta e stella
nelle cantine del cervello cuociono la muffa o l’aurora
fermenta il pasticcio che marcisce nel fondo delle antiche acque
e il suo sapore di vino crepita nella gola
è secca la mia lingua e avido il petto di nuovi inferni
mentre pasce sulla prateria schiantata da fienili e da travi
mentre sbatte al vento orifiamma e palato
la lingua dello stendardo selvaggio batte contro la membrana del cielo
e la gola del cielo così secca scricchiola come i vecchi solai
rossa è la sua chioma che cade sulle spalle dello zenith
amara la scarlatta moneta con la quale ci rimborsa
la pazienza che abbiamo messo nell’aspettare
e irritata dalle beccate della folgore latra la tempestosa stretta da cui siamo assediati
fino al fosso del giorno dove gravitano i suoi germogli attorno alla lanosa acidità del vagone di terza classe

*

è il cimitero di campagna saccheggiato
mal rasato mal scarabocchiato di lievito e gessi
che al fondo fertile del nostro fervore moltiplica il divino reticolo di rizomi sovrumani
e nonostante l’ombra vana scorra per il delta di fumo
e l’usura degli arredi ci dica l’antica miseria
delle sovrapposizioni di generazioni e di famiglie o di processi
piove dal sole sulla brace di sole
e delle barche di sole si annegano nella germogliazione del niente
nuovamente sulla lingua s’incastona il petalo di sole dal gusto della partenza
la mia respirazione non s’arresta che alla frontiera della penitenza
piove dal sole grosse lacrime trillano sulla fronte del ghiacciaio
piange dal sole e la zucca del mondo ne è piena
un occhio di vetro il mondo galleggia nel vetro dell’universo
verde è il suo sangue verdi le impetuose correnti di brandelli e di vento
o di latte che nutrono i neonati nei luoghi astrali
ed embrionale il turbine così lontano
che lo spavento sarà già morto da molto tempo
quando la sua immagine avrà raggiunto lo spazio che ci separa da esso
questo è il canto di colui che vede brucare il sole
e sulla tempia del mondo appoggia le labbra di rivoltella
le cifre sono allora degli angeli distillati nei sussulti delle vene accelerate
e benché l’ardente ortica abbia toccato la mia fronte al posto del sole
canto più veloce che sul cuore il rullio della grandine
e affannata freme la palpebra del mattino
ventosa aggrappata alla carne frenetica dell’anno

*

continuate timori angolari a far risuonare al di sopra delle nostre teste
lo scalpitio degli arnesi chirurgici
indefiniti presagi sondate la profondità lampante dei pozzi
dove ammassiamo alla rinfusa conoscenze e lirismi
ma dai nostri pugni serrati e cementati di provvidenze
mai non potrete mai strappare quello che la prova dell’irrisorio briciolo
coglie all’incertezza di un giorno consolatore
all'indietro lebbrosi pensieri di morte di vermi
consolazione
lasciate ai contadini di colori e di cieli la promessa succulenta
dell’uomo che porta nel suo frutto il bruciante e propizio schiudersi di un mattino
consolazione
la speranza si cicatrizza sulla tristezza delle coscienze disboscate
una malattia come un’altra un’abitudine da prendere
consolazione
perché è vasta la distesa della pianura che sorvegliano gelosamente i doganieri del varco
ed è infinita la santa varietà della tua specie
uomo approssimativo come me come te lettore e come gli altri