la mano di un uomo
la mano dell'uomo è il campo dei suoi sogni e l'estensione del suo sguardo.
la mano, ascoltate, è solo un seme e i suoi frutti sono alberi secolari di cui non conosceremo l'ombra.
dove siete voi popoli piegati sotto al peso degli dèi dell’assurdo?
dove siete voi dèi stretti attorno all’argilla della parola?
l’amore sono valanghe delle occasioni inesistite
nel calice fiero della tua età
berrai si dice ancora tante livide annate
e la tua ebrezza consumerà ogni luce
e i tuoi occhi esauriranno la luce
ma il mio orizzonte non supera più il quadrante d’un orologio
l’arena dove la corsa dei tori ribolle nel mio cuore incalzato dalle accese estati
ci sono dei fiori che s’inginocchiano
mani mozzate
ci sono anche mani che scrivono
pace agli uni gratuità disincantata agli altri a seconda del caso dei pozzi in cui cadiamo
mani incendiarie
le sole che splendono
come agglomerato di epidermidi e di geroglifici
A. Warhol, Portrait of L. Van Beethoven 390, 1987 |
XVI
le eclissi mostruose fitte d’alberi
tritate nei mortai delle lune senza scontri
i cenci vegetali della dimora rampante
che la nuvola trascina al conflitto degli
occhi
hanno conquistato la tua ombra –
xilofono di scaglie – montagna
di cui i fulvi letti di sole crepitano
frigidi di volts e d’abbandoni
e nelle gole aperte a colpi di incubo
la crudeltà del vento cauterizza il fulmine
e la sete della bacca
*
la speranza dai molteplici flussi clima a
livello del paradiso
ha logorato il vagone e in ogni viaggiatore
trovo uno scomodo domicilio e m'annoio
conosco le onte tumulate nel dolciore dei
luoghi cicatrizzati
sulla scala le contingenze che ribattono alla fame di ciascuno
alla sua ribellione alla sua umiltà dove
siete voi aspre avidità?
valanghe accumulate ai crocevia delle
latitudini
dove siete voi popoli piegati sotto al
peso degli dèi dell’assurdo?
rinchiusi nelle stalle assopite d’anfibi
nelle lagune cesellati d’intemperie e
traffici
e sotto le prospettive delle arcate nelle penisole
maestose d’umanità
sottomessi ad occulte turbolenze alle
tirannie verbali e funebri
valanghe delle stanchezze incavate
dove siete voi dèi stretti attorno
all’argilla della parola?
le braccia incrociate sulla pancia della
caverna la notte magnetica cospira
già con il lento brulichio batteriologico
che da piante ci rende uomini
dalle mascelle ferine per l’impotenza di rigettare l’odio creatore
e pure l’amore valanghe delle occasioni
inesistite
tra i suoi denti s’infrange l’intrepido
impeto delle dinamo
nel calice fiero della tua età
berrai si dice ancora tante livide annate
e la tua ebrezza consumerà ogni luce
e i tuoi occhi esauriranno la luce
per regali troppo frequenti di libertà
c’è la luce che lava le stoviglie interiori
dei nostri miseri affari con ogni presenza
e la prostituzione alla quale ci
abbandoniamo presso le stazioni
dove a ogni ora gli altri noi stessi arrivano carichi d’ingombranti bagagli di vita
*
il mio orizzonte non supera più il
quadrante d’un orologio
l’arena dove la corsa dei tori ribolle nel
mio cuore incalzato dalle accese estati
e sotto i passaggi imbarazzati di patetiche
confessioni ci sono dei fiori che s’inginocchiano
espiando il loro smarrimento sui mercati
delle pulci delle creazioni spontanee
accatastati nei caleidoscopici guardaroba le
generazioni silenziose
appese ai grappoli di bolle di sapone i polpi
salgono alla putrescente escrescenza del
cielo di fasce
e la voce di pappagallo grasso incastrato
in una porta
tinge i getti d’acqua illuminati a giorno dove
di sonnolenti decorazioni di addobbi si ostentano
un’altra città come un altro dolore
il tempo si beffa di noi
*
vicolo sotto il via-vai delle ruote impastato
mantice che solleva ritmicamente la scorza
terrestre
il grembo delle parole tanto amate nutrici
madri
che palpano la bramosa carne delle sere
mani che rimuovono dalla fronte dura la
fitta coltre di pensieri erosi
alle labbra portano il bicchiere dove si
moltiplicano i mondi
fanno la carità e sviliscono il pulito
portamento dell’uomo
mani tese sul rottame che trasporterà il
corpo abietto
ma il rottame è d’aria e fugge
mani che pregano davanti al rottame d’aria
– senza poterlo afferrare
che dicono ad altre mani l’inarticolabile
possibilità
ciò in cui l’orecchio s’avventura nelle
vibrazioni irrealizzabili e fini
che sole sentono l’oscillazione del disprezzo
mani fresche e musicanti delle serene
scoperte
mani capaci nei soccorsi o distruttrici
che coprono di lacrime che mettono in ordine gli
erbari degli appunti e dei fatti
mani che catturano e domano le belve sorte
in corpi d’uomo
forgiati alla tensione dei parti celesti
e mani che assassinano pure
vendicano l’uomo caduto nell’ossessione
animale
mani mozzate
ci sono anche mani che scrivono
pace agli uni gratuità disincantata agli
altri a seconda del caso dei pozzi in cui cadiamo
mani incendiarie
le sole che splendono
*
così si meraviglia della cantilenante
illustrazione il viale
di cui il focolare è numero lume cuore di
barbarie
e sollevando la regione sebbene l’acqua sia
vigile
noi noi siamo la vivisezione botanica
che canta per i viali
e gonfia d’atlante l’estinzione opaca degli
oboi
*
i bar si aprono alle confidenze e
all’interno delle conchiglie
danzano le diaboliche vibrazioni attraverso cui si filtra il passato
tra i denti solidificati sul morso d’aria
ascolto ancora la sega di nuvole
che tagliò l’orizzonte della maturità dalle
tracce ondeggianti
e nel tuo cuore il tormentoso contorno e al
di là
il burrone s’abbuia e serrato è il
brulichio di natanti nella pentola
c’è nell’uomo un paese incolto e arido che
questo calpestio si ripete
con battibecchi e crudeltà o terremoti
incudine su di te le scintille degli occhi
si spezzano prestigiatore
uomo approssimativo come me come te
perché non sai sparpagliare la tua anima
in carte da gioco?
in carte geografiche che i tuoi solidi
piedi pesteranno
comparando così la forza delle scogliere
con quella delle città e dei nervi
sbucciando negli scali generazionali i frutti
delle nuove età oh siccità
sotterfugi sputi d’angeli che incollano grasso di medusa
escremento del mare vendicatore
*
e il melmoso mollusco si risveglia
agglomerato di epidermidi e di geroglifici
la città stretta nella boa delle sue
periferie circondata a fatica dalla misera moda
e tutto fluisce nella fangosa mediocrità da
dove s’è schiuso un canto vagabondo
ognuno se ne va dietro al carro funebre
della propria densa esistenza
che il baccano nella sua chiassosa fossa
comune fagocita e soffoca lentamente
e mentre crepa il timpano del tamburo da
dove schizzano le nuove versioni l’elettrico diluvio
sfiora l’improvvisa esalazione e il filo che
risale all’origine dell’angelo
alle crisalidi degli astri miagolanti che
galleggiano sullo stagno del tempo
illumina sul suo tragitto lo schieramento
nuziale i mancamenti di piovre lattee
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