le mie mostruose brame di cielo corrosivo
i miei lebbrosari di nuvole
i cuori di struzzo nascondono la testa del paesaggio nella sabbia
e il pennello del dolore scivola sempre su tutte le carni
a ogni passo il problema della nostra realtà sfiora il furore delle ragioni d’azzurro e di follia
poiché questo nostro cuore cacciavite batte e gira, batte, gira e si rigira alla ricerca di quel marchingegno che spalancherà la porta davanti a noi, quel congegno diabolico della verità
non chiudere ancora gli occhiné quelli degli altri
maschera funeraria copta; IV-VII secolo d.C.; Egitto; legno dipinto |
XVII
imperfetti ritorni dalle lunghe meditazioni
magiche
dalle meditazioni che indagano ossessioni e schianti
dai punti estremi dalle luminose
longitudini
dagli alti sguardi dalla fatica delle nevi
imperfetti ritorni dalle lunghe meditazioni
magiche
alle stagioni di quaggiù
inzuppate in queste alghe brulicanti di
trasparenze
dei drappeggi d’eterocliti eternità trascinate
nel fango di quaggiù
occhio sempre nuovo al ritorno delle cose
instancabile ritorno dall’alto dei sogni
migratori
abito la musica nel forno dove le ombre cuociono
una lacrima – fredda traccia di lucertola –
ci basta – negligenza smagliante
per spegnere in ogni luce il silenzio che
ci seppellisce in delle orecchie di aurora
e portando la stella al guinzaglio
l’affluente del giro del mondo tenta l’infinito con sfrigolanti imitazioni
non rinchiudere la stella non ancora nella
teca degli occhi
stacca dalle banchine la chiaroveggenza dei
fantasmi di cui le mani tese da catene
raccolgono il decollo leggero dalle
fluorescenti profezie di suicidi
e le speculazioni inesauribili di alti
studi d’atmosfere
lebbrosari di nuvole
*
sotto la cupola delle ali parlanti che sa
enumerare gli aculei della grotta
la leva della notte tiene nella sua mano di
ferro tutta la pesante chioma chiusa a chiave
così nel tuo cuore di folli ammiccamenti il
bimbo sta in l’equilibrio
al centro del suo cuore di spugna
all’ombra della forza burrascosa e barbara
e malgrado l’esitazione lunare delle
prospettive assise
nei campi di stelle alpine dove crescono
gli stemmi selvaggi
gli arbusti impigliati alle capre svitano i
bagliori che la foschia travolge
che il volto d’anemone lecca la macchia di
luna improvvisa
e che le sopracciglia d’amara lana al di
sopra del tempio di sale
s’attardano ai tentativi di schiudersi dalle
prue notturne –
i cuori di struzzo nascondono la testa del
paesaggio nella sabbia
e il pennello del dolore scivola sempre su
tutte le carni
che siano di perle o di coltri
e su tanti altri
*
ai nucleari confini dove la nuvola palpeggia
di pioggia
spreme la cima squamata contro la guancia
succosa
da dove precipitano le segrete impazienze
i piaceri inesplorati di questi abissi di
solfeggi
nel fondo sempre più lontano dell’affetto
si riversano sulla pianura quando
mezzanotte mietitrice di tutti gli errori
rimbrotta l’infinito colore che muore della
notte di piombo
del giorno di piombo
*
l’uomo celeste brocca da dove il sogno
succhia la sua luce di corridoio
raccoglie il polline di pietra all’incrocio
dei viali
le cineree gobbe – non ne abbiamo il tempo
l’uomo a sonagli si dipana dal sentimento
quando dal mulino s’avvicinano i covoni
e il pesce orecchio stropicciato scorrazza
attorno al contagocce del risveglio
ecco l’archetto tende il reticolo
articolato del riso – l’aurora
e i guanti tiran fuori le effimere miniere
di verità dalle tasche scoscese di vivi prestiti
*
sepolte sono le immagini nei voli alla
ricerca degli albatros
e il cuore cacciavite va loro incontro
perché ti ho abbandonato bell’orlatura di
sole
alla tenda della finestra vuota appuntata
con dei giardini d’arcobaleno
e sebbene l’orizzonte della mia chiara voluttà
sia restato a scaldarti
del calore vigile dei tulipani accanto a te
addolorato dai calabroni di nuvole la brace
delle canzoni
serpeggia verso l’ineffabile disperazione
di granito
la liquefazione dei giorni – i ruscelli si
trasformano
e il cuore cacciavite va loro incontro
*
e quando come il sale la tua età sale alla
superficie dell’acqua
filtrato attraverso tante lunghe
capigliature di femmine e fumi di treni e battelli
le rimesse delle annate di scorie si svuotano
nella vallata
e contro i biliardi sdentati sbattono le
case degli straccioni
e i cervelli d’asfalto
ci sono anche le occasioni che offre la
natura allo sbaraglio
degli olfatti senza filo di assurdi eccessi
d’asfodeli
degli spaventapasseri d’anima che non si
lasciano avvicinare da alcuna consolazione dei gabbiani di latte
dei vecchi giardini che volteggiano in
lacrime nei fronzoli dei fremiti
le medaglie di schiuma piantate contro le
macerie di nicchie
che indicano agli stigi dei nostri
diluviani saperi la strada da seguire lungo gli asterischi dell’autunno
e quando il fieno fermenta lungo i fischi
che senza ragione si riversano nei profondi
scoppi di risa
mentre mostrano dei denti di stalattiti
dalle rugiade di cenere
e dagli sbadigli terrorizzati dei crostacei
la tremula fiamma dei pugnali sale su delle
scalinate d’araucarie
sulle alte gradinate popolate di nembi
d’aeree precauzioni di vocali gracili
di cuscini che cantano degli ascessi di chiarezza che scoppiano e di venti
dove a ogni passo il problema della nostra
realtà sfiora il furore delle ragioni d’azzurro e di follia
e di tanto altro e di tanto d’altri
*
non chiudere ancora gli occhi
nelle custodie di siepe sotto i
passamontagna dei pascoli ogni tenda si mantiene segreta
e per la bocca assediata dagli insulti di trombe
e di petardi
abbandona il sudore delle mani di resina
*
i pori della terra si aprono con quelli
della pelle
e le mani scostate le ferite ancora soffici
delle granate
nella terra aggrappate di paura che questa
non se ne vola via come biancheria
serrano il suo rigore di sudario sporco
non chiudere ancora gli occhi
le mortifere cavalcate della solitudine
e questo slancio che si ripercuote in me
annerito
si spezza in me contro le pareti si spezza
impetuoso come un getto di pesante sole che
schizza
che affonda il pestello nella gola sorda
del pozzo –
che questo slancio senza nome la bocca contorta
dal non conoscersi
dal non poter strappare la notte
profondamente piantata nel cranio
possa congiungere attraverso tumuli e polipai
sul familiare vassoio
le due eclissi a manovella di maggiorana i
popoli disfatti
la caccia all’onda nera che stende la folgorale
conoscenza
il cielo che ristagna di falso
e l’amore svezzato d’amarezza sotto la
cupola
e il sorridere di smalto innestato nella
vena
la chitarra museruola delle diffidenze
vistose
il facile arnese nella mano del deserto di
rafia
la sorgente corretta nell’anima laboriosa
che cede alla droga di una giovinezza
futura
quale crimine insospettato e quale sobrio
dolore vegetale
sapranno in un giorno di zaffiro placare le
mie mostruose brame
le mie mostruose brame di cielo corrosivo
d’uomo braccato dai morsi seppie degli
idoli violenti
mentre la sua vita si sbriciola sotto la
pioggia continua delle tentazioni
cieca alle congiure di fascini questi pani
d’illusione quotidiana
sul sagrato del sonno dalle lattee
incertezze di larve
dove lentamente scorrono le linfe delle
nostre dottrine di morte e d’ispirazione
*
allora quella vecchiaia ci esilia dai fondi
furfanti degli inferi
ci sbircia pure all’angolo del sole per
dove la nostra strada è passata o passerà un giorno
ronzante d’ambizioni ancora sconosciute
munita di purulenti pazienze
e sulla cancrena dei pascoli che dissolve la
bocca del colore al tramonto
si prepara l’avvento dello spirito dai
segni morti dell’antracite
e il cuore cacciavite gli va incontro
*
e che questo siano i nomi dei fiori le rive
delle espressioni mescolate all’oro delle isole
i costumi delle strade le punte dei sensi
gravi
dove tutto è vero e il giardino delle esperidi
non è più lontano che una stretta di mani
dove i linguaggi fanno spumeggiare a fior
di pelle la loro feccia
e tutti i supremi disinganni e le loro
condotte di fuoco
sigillano il pasto pagano dai silenzi della
pietra
che questa sia l’usura prodigiosa degli schiamazzi
che questo siano le vacillanti aspirazioni che
circolano nelle erboristerie del sogno
e i bambù che orbitano attorno
all’acrobatico cerimoniale dei remi
tanto lenta è la navigazione dello spirito
che si affida ai pegni solenni della malinconia
ed è eloquente la lanterna che prelude
tante emozioni a fianco della notte
ai pegni solenni della malinconia
che importa – la piroga dei prodigi traccia
dei nuovi sentieri
su questa terra di cuori – il suo impero
non chiudere gli occhi
da dove escono i labirinti e gli agili
agguati della carne sazia di demenza
e se apri gli zefiri ai fianchi solenni
della malinconia
non sobbalzare – il circo inghirlandato di
sonagli di pagode si consegna alla peonia
e le commozioni hanno consumato la sella
delle cascate orchestrali
così tante notti hanno acceso la loro pipa
dalle scintillanti staffe i venti mistici
che alla base della tua parola hanno preso
respiro
non chiudere ancora gli occhi
alla cuccia del sole s’è ritirata tutta la
musica
le radici l’hanno germogliata fino alle
torture delle sfere sporadice
e costeggiandone i fianchi e le frane di
metafore
gli occhi delle cifre si sono riempiti del
tempo suonato al gioco delle arti
*
e l’amore umano plasmato sotto la crosta
del disgusto
che coagula nel suo ventre di ferro
l’inconsolabile pallore delle prigioni
e la paura che aumenta su dei pioli di
verità
s’inventa e si perde nell’occhio del
cinghiale
e i pianti chimerici si regolano su dei
trampoli
l’odio che nidifica nella memoria del vino
si scrosta e si ritrova alle ore di selce
irrigidita
e la pena – calice di rughe – che l’agreste
figura del giorno immemore augura
e beve – prolifica stagione d’esequie le
tempie schiodate –
e che questo sia il dolore del vento
portato in fronte al nichel
che riempe l’olifante di fosca argilla
delle passioni liriche dei clan scossi
le cifre si sono spianate tanto prosegue
l’immensità degli istinti
verso questo divino concime – le carogne
e che questo sia il cuore che va al suo
incontro d’amore o il disprezzo
ce ne saranno sempre tanti altri e tanti altri
non chiudere ancora gli occhi
né quelli degli altri
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