l'ultimo uomo
il finale è ciò che dà il senso all'inizio. e viceversa.
il finale è ciò che dà il senso all'inizio. e viceversa.
in tal modo tutto prese il via con quel "le campane suonano senza ragione e anche noi", tutto era cominciato con quel "A Greta", tutto iniziava con "penso al calore che intesse la parola / attorno al suo nocciolo il sogno che si chiama noi".
poi tutto termina con questa stoica attesa del deserto del tormento, del suo fuoco.
forse l'aprirsi all'altro è questo deserto che ci dà struggimento e passione, forse l'aprirsi all'altro è questo fuoco che ci offre la vita e la passione, la speranza.
non esiste una storia del tutto al singolare, non esiste un destino solamente individuale, perché gli uomini abitano questa minuscola terra come le stelle punteggiano d'oro la volta notturna.
cioé: non fu prima l'uovo né la gallina
ma c'è solo questa gallina infreddolita che chioccia
questo uovo color paglia in bilico tra le mie dita
e io ci sono io
e tu ci sei tu
e noi che incrociamo le nostri voci
le nostre croci
di deserto e fuoco.
fragile e vinto, ma nel suo grido disperato riluce la sua forza indomabile: questo è l'Uomo Approssimativo, un uomo tanto moderno.
agitato da fantasie celesti e visioni profetiche cui cerca di dar risposta, sballottato in un cosmo straniero, ma l'unico enigma che non può risolvere è il suo volto: questo è l'Uomo Approssimativo, alla perenne ricerca di se stesso come un eroe cantato da Omero e Sofocle.
un uomo approssimativo come me come te lettore e come gli altri
Tristan Tzara, foto |
XIX
il beniamino delle montagne che arrostisce
le scarpate delle gole
dai pestilenziali ronziii d’acquedotti
autunnali
il dissodamento del cielo gratuito che
fossa comune risucchiò tanti pascoli
i linguaggi dei nudi le breve apparizioni
dei messageri
nei loro cespi annunciatori di supremi
clamori e ossessioni
le inquiete fabbriche sotterranee di
chimiche lente come delle canzoni la rapidità della pioggia il suo formicolio telegrafico creduto di guscio che
ruminano
le forature a carne aperta delle vette da
cui affiorano gli increspati bucati
rotto per tutti i paesaggi e per gli
inganni delle valli beffarde tentatrici di patrie
le passeggiate senza dio dei corsi d’acqua
le audacie delle loro imprese contro la
bruna livrea d’argilla
gli oblii della benzina annegata nell’oblio
dei numeri e delle vasche
nei fibrosi dimenticatoi agglomerati di
spighe e di campane
dove filatrici di affanni svengono
all’ombra tremula di menzogna
e aprono le palpebre dei ghiacci sessuali
degli spettri
la crudezza dei muri di pietra dai noccioli
inerpicati per mille dita
che s’intessono tra le trecce di tarassaco
e l’altalena delle temperature ravvivate
dallo smodato sguardo
le vostre adulazioni redigono in me dei
troppo dolci meandri d’oracolo agiato e di sonno
e pietroso nei miei vestiti di roccia ho
votato la mia attesa
al tormento del deserto arruginito
e al robusto avvenimento del fuoco
*
urtata nel basaltico mutismo degli ibis
impigliata alle briglie dei torrenti
sotterranei
abbandonata alle folli foreste di idre
dove i sermoni delle estati fitte
gargarizzano di trasognate rivalità
la notte ci inghiotte e ci rigetta sino
all’altro capo della tana
mentre smuove degli esseri che la
grammatica degli occhi non ha ancora delimitato sullo spazio dell’indomani
di lenti accerchiamenti di corallo
sgozzano le alte forche delle volontà rocciose
le insenature nel tuo cuore le fa un tempo
pesante di ghiaia di affamato
e quante baracche al riparo della tua
fronte hanno scritto l’ampio lutto di schiuma sul petto
cadendo in macerie d’ammassi d’avvenire
coperte di tare ingarbugliate mescolate alle
imboscate delle liane
quando i banchi di torbidi pesci
s’inflitrano di morte opaca e di chiome
*
andavamo in delle lande addolcite
dall’attenzione
dolcemente attenti agli sbalzi monotoni dei
fenomeni
che l’esercizio dell’infinito imprimeva ai
blocchi di conoscenza
ma la squamosa struttura delle opinioni
sparse
sull’umida infinità di diademi – i campi –
disdegna delle verità la polpa sensibile
di un pronto favore di uno strazio
riattizzato
*
le asce colpivano in delle risate saure
e i dischi delle ore volavano all’attacco
scoppiavano nella testa delle truppe aeree
c’erano le nostre ragioni a maggese che
arginavano la loro diafana turbolenza
e i tragitti nodosi questi che tracciavano
temporali
s’incarnavano tentacolari nella costrizione
dell’edera
*
là abbandonavamo il lusso e il dogma dello
spettacolo
e immolavamo a degli altri impulsi il
desiderio livido che i suoi frutti ci hanno illustrato
falciate le diamantine insistenze i vuoti
paesaggi che preparano i miei sensi
ritta sorda allucinante diffidenza
sulla boscaglia del mio essere le strade ti
si sono tutte aperte
porta ciò che l’ebrezza del rimprovero non
ha ancora saputo riversare
e tutto ciò che non ho potuto comprendere e
ciò a cui non credo più
il grumo di ciò che non ho potuto
comprendere e che mi sale in gola
l’alga marina abbronzata dall’implacabile
aratura delle profondità
e il fiore del triangolo inciso nella
pupilla
la guerra che il mio fiato perde sulla
ripida pagina bianca
e l’osmosi dei pensieri odiosi
i crucci crivellati di persistenti semine
di seduzione
i crucci costruiti su trampoli al riparo
dalle distrazioni
e la capanna vellutata di polvere
e quella di un’anima perduta
e tanto d’altro e tanti altri
ritrovati o malati
perché pietroso nei miei vestiti di roccia
ho votato la mia attesa
al tormento del deserto arrugginito
al robusto avvenimento del fuoco
*
delle mani stranamente scostate dai
grappoli di mani trasparenti
mescolano dei domino di stelle sulla savana
ci sono delle pecore
e delle cortecce di nuvole annientate degli
odori nautici trascinano
sulla tavola del cielo affollato
d’eucaristici giochi
quali giochi quali gioie selvagge nutrono
di smarrimento il tuo passo nel cielo d’acclimazione
dove bestie e pianeti ruotano avvinghiati
con occhi d’oppio
disteso da un’estremità all’altra
dell’acquario il tuo cuore così luminosamente squarciato di silenzio
dedicato
ai minuziosi artifici delle lame
incrostato di gocce ribelli di vino e di
parole empie
s’imbeve del via vai delle estasi nella
congestione verbale
di cui il tifone ha marchiato la tua fronte
*
intagliata è ormai la prua dei bastioni
secondo la figura del nuoto
ma ora i tuoi occhi guidano il ciclone
altezzosa tenebrosa intenzione
e sul mare fino al limite delle veglie
d’uccello
il vento tossisce fino al limite dove si
scarica la morte
da prometeiche cataratte di eco tuonano
nelle nostre coscienze intorpidite
si soffre quando la terra si ricorda di voi
e vi scuote
cane randagio percosso e povero tu vaghi
ritorni senza sosta al punto di partenza
inconsolabile con una parola
un fiore all’angolo della bocca un fiore
tisico molestato dall’aspra necropoli
delle tonnellate di vento si sono riversate
nella sorda cittadella della febbre
una chiglia in balia dell’impeto
frastornato che sono io
un punto di partenza sconsolato al quale
ritorno fumando una parola all’angolo della bocca
un fiore percosso dalla ruvida febbre del
vento
e pietroso nei miei vestiti di roccia ho
votato la mia attesa
al tormento del deserto arrugginito
al robusto avvenimento del fuoco
*
quando le ramificazioni del caso per la
forza delle loro risa agganciano gli ormeggi
quando si chiama il tuo cuore – là dove di
solidi morsi s’affondano –
polverosa e frustrata falena – opaca
intimità – che ne so io – cantiere della notte
quando il barattolo dai sibili di sciame di
rettili colpito
dove si ostinano le sollicitazioni delle
maschie intemperie
minaccia lungamente geme
un lento incendio d’invincibile costanza –
l’uomo –
un lento incendio sorge dalle fondamenta
della tua lenta gravità
un lento incendio sorge dalla valle dei
princìpi glaciali
un lento incendio d’indicibili leghe
un lento incendio che vince i focolai delle
emozioni lucide
un incendio dilagante sorge dalle tossi
schiave delle fortezze
un lento fuoco s’anima per la paura
spalancata della tua forza – l’uomo –
un fuoco s’inebria delle altezze dove i
cabotaggi dei nembi hanno rintanato il gusto del baratro
un fuoco che si issa supplicando sulla
scala fino al contagio delle gesta illimitate
un fuoco che latra dei getti di rimpianti
al di là delle ipocriti suggestioni del possibile
un fuoco che evade dai mari muscolari dove
s’attardano le fughe dell’uomo
un uomo che vibra alle presunzioni
indefinibili dei dedali di fuoco
un fuoco che ordisce la burrascosa insurrezione
in massa dei caratteri – si china
armonia – che questa parola sia bandita dal
mondo febbrile che visito
dalle feroci affinità minate di nulla
coperte di assassinii
che urlano di non sfondare la paralisi
singhiozzante di brandelli di fenicotteri
perché il fuoco di collera varia il
movimento delle sottili macerie
secondo le balbuzienti modulazioni
d’inferno
che il tuo cuore s’affatica a riconoscere
tra le raffiche vertiginose di stelle
e pietroso nei miei vestiti di roccia
ho votato la mia attesa al deserto
arrugginito del tormento
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