martedì 9 ottobre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, XVIII

l'ultima luce

la luce s’esprime perde i suoi petali
e non ce n'è mai abbastanza di questa pace
si può non credere in un ordine, in una fede, in una salvezza, si può anche perdere la speranza, la voce di una promessa, ci si può persino dimenticare di camminare, di respirare, di esistere, ma l'uomo, questo uomo un po’ animale un po’ fiore un po’ metallo un po’ uomo, non può non credere nell'amore, come se fosse impresso in noi, l'amore e l'ignoto. 
voglio la lotta voglio sentire l’ustione della sorte di cui un dio di sagra paesana impresse il mio cuore
il rumore che tanti altri hanno ruminato prima di me
l’ignoto
e noi, un canto tenero e salato in lotta e  in attesa.
e i nostri amori bruciano nella fiamma delle vele
qualsiasi cosa se ne dica la morte non è che una favola per bambini
e la morte non è che una favola per bambini
attendo la morte che mi dirà che la sua vita è terminata
e fino alla prossima morte di morte in morte la roulette fa uscire il suo rosso e il suo nero
il suo blu cielo il suo rosa dalla coda di serpente con rima e sonagli
e fornito di ogni comodità dell’amore triste meccanica
sento in me contro il muro gettarsi la disperazione di tutta la città
attendo io attendo la pazienza del mio destino raggiunge la fine della candela
attendo che la divina avventatezza faccia rotolare il suo dado d’amore


Rembrandt, Autoritratto

XVIII

le impronte dei tuoi passi invisibili sul mare
sollevano delle pagode temporanee d’acqua
gesù d’aria fermento di splendide aurore e seminatore di pennuti
catena che risale fino all’elica delle nuvole
s’arrampica impalpabile sospiro diavolo a nuoto
fino al collo della bottiglia del circo
le tue parole munite di vele raggiungono tutti i porti della memoria
il traghetto rilega le nostre due mani che nel fieno del sogno si cercano 
mano – aperto diadema del cuore aperto alle corolle di frutti
dolce parola che poggia nella mia mano magica freschezza
nel cormorano la seppellisce nel suo seno mentre vola in faccia a una costellazione astrale
la luce s’esprime perde i suoi petali

*

truppa di città e villaggi che pasce all’ombra di un dio erbivoro
un dio non più grande di una foglia di quercia
non più pesante di uno frinito di grillo
non più ricco di un’asola di fossato
non più grande di una cuccia di diamante
e non più che delle sofferenze inutili su questo fiore d’arcipelaghi e d’isolotti
caduto con qualche goccia d’acqua nell’azzurro senza chiasso
il mondo i continenti gli oceani le prigioni

*

e relazioni così ingarbugliate si annodano tra le apparenze e architravi
uomo un po’ animale un po’ fiore un po’ metallo un po’ uomo
le relazioni che hanno una loro vita indipendente al di fuori di quella delle voci e delle spiagge
le relazioni che s’accrescono si sfilacciano planetarie
si gonfiano di tumori vegetano o lentamente periscono
di cui siamo accerchiati lanterne di lacci di fili spinati
corazza troppo pesante per partire in guerra contro questo falso se stesso
l’irrequieto l’inappagato di morte
l’ignoto nel fondo di se stesso che scaccia i miei giorni ciechi di speranza

*

un po’ d’oro sparso tra le foreste e i laghi
i cattivi istinti che sonnecchiano nel fondo indolente delle giare
mai abbastanza di questa pace
voglio la lotta voglio sentire l’ustione della sorte di cui un dio di sagra paesana impresse il mio cuore
sentire il caldo alito corpo a corpo l’ingiustizia la battaglia
e sconfiggere la pesante ossessione – appesantito di tanti lacci oscuri
faccia a faccia e aprirmi un cammino attraverso i diabolici abbozzi delle muffe
e furtive tentazioni che condiscono il rumore che tanti altri hanno ruminato prima di me
l’ignoto

*

i tronchi d’alberi portano dei mappamondi senza foglie sulla loro cima
i pali del telegrafo hanno delle ali di mercurio alle caviglie
di bianchi uccelli fungono da confini chilometrici
le distanze se ne volano al rovescio
e nei barattoli dei vulcani i sottomarini sfilano in lunghe collane di pesci migratori
e tuttavia nel treno sento sulle mie spalle così lungamente straziate dal deserto
il peso del bestiame mitologico condotto nei mattatoi del tempo sereno
i mulini a vento i mulini a tormenti
che macinano le regioni iperboree dove seccano gli amori primi
le lingue del cielo che falciano i comignoli delle fabbriche smilze
i fiumi si chinano al tuo orecchio e raccontano la segreta storia
tutti i mestieri si sono riuniti attorno all’appello profetico
attorno al dito sulle labbra del segnale meteorologico
il muso fiorito dell’albero fiuta la bufera che viene con passo di lupo
e tuttavia il treno continua a vangare su un apparecchio morse attraverso paesi attraverso voci
folla soffice che rimpiazza delle parole in carne e ossa
quando la parola è tanto cara per quelli che ne hanno bisogno
parola che attendo parola in pepite nell’anfratto del porto
attorno all’arnia delle tue dolcezze possibili
siamo delle api così numerose api di cui le tue promesse hanno imprigionato il volo
e nella brezza siamo canto tenero e salato di coloro che si sono impiccati al cielo
di cui i corpi lacerano il vento e i ventagli degli stracci rasentano le banchise
il fumo della macchina abbaia ora e afferra il fuoco ventilatore
la ruota della morte in nave questi sono i circuiti dei cervelli
che ruotano su loro stessi l’elica degli umani dolori
e tanto d’altri e tanti altri

*

ma la caduta di sibilo si fa minacciosa
getta il diluvio fuori bordo
ai naufragi il segreto invito si raddoppia di avatar di sirena
e i nostri amori bruciano nella fiamma delle vele
sono lontani i grassi torrenti dalle canzoni frondose che fiancheggiano la giostra
e tutte le giostre che salivano alle gole nelle vene dei barometri
le pene d’amore i secoli d’amore le lettere
le lettere che si volevano scrivere con la linfa delle viscere
ma che l’età prese al volo vuote alla ricerca di incanti
i cimiteri che gonfiano di ricordi gli otri le morti
e tutta l’amarezza che non poté uscire dai polmoni troppo morbidi
sono lontane le notizie tanto attese nei giornali
che sovrappongono le loro vite alla nostra nonostante il paese gettato lontano dal discobolo oscuro
le impazienze cadute in fondo al sacco nella fossa
le segherie d’uomini quelle rapide che portano delle teste contorte e stordite
ecco dove conducono il treno e il pensiero
qualsiasi cosa se ne dica la morte non è che una favola per bambini
e la morte non è che una favola per bambini
attendo la morte che mi dirà che la sua vita è terminata
e fino alla prossima morte di morte in morte la roulette fa uscire il suo rosso e il suo nero
il suo blu cielo il suo rosa dalla coda di serpente con rima e sonagli
e fornito di ogni comodità dell’amore triste meccanica
roulette del meridiano quale sarà la tua prossima fermata di morte
roulette messa in musica e in movimento dal fumo di una sigaretta
che nello spazio vergine aggira nevosi continenti
e tanto d’altro e tanti altri

*

ma dietro ai tuoi passi allo sbaraglio i drammi si dibattono in silenzio
ci sono gli spiriti degli respiri le vendette le imprecazioni
affinché le tue dita possano continuare la loro corsa attraverso le piste musicali
ho così tanto braccato la tua ombra verità nel florilegio di colori
che infine attorno al collo lo scialle dell’arcobaleno s’arrotola
e stringe pienezza adombrata la frusta gettata dal polo
sento in me contro il muro gettarsi la disperazione di tutta la città
lacrime che cadono in incendio dall'alto fughe terrori porcherie
sento in me contro il muro gettarsi la disperazione di tutta la città
crudeltà loquaci offese malattie maledizioni
sento in me contro il muro gettarsi la disperazione di tutta la città
orrori ipocriti inferni asfissie di fuliggine sudori
smorfie d’uragani cataclismi contagiosi valanghe sepolcri

*

attendo io attendo la pazienza del mio destino raggiunge la fine della candela
le ultime palpitazioni di falena ciò che mi resta
che l’ombra conficcò dapprima in me e che quella uscì poco a poco
e poco a poco polverizzò la pietra e poco alla volta strangolò la mia confessione
attendo infagottato nella mia umiltà subordinata
il soccorso come un’ebrezza che sovrasta l’occhio scialbo
che affiora dal mazzo di raggi sordi
attendo che la divina avventatezza faccia rotolare il suo dado d’amore
sulla mia testa di cui le radici le vanno già incontro
la virtù affilata del numero che quella innesca e che quella mi mostra
attendo che l’apocalittico mezzo di trasporto
venga a prendermi nel suo turbine d’infinito e d’oro
che infine la profezia dell’ordine si cristallizzi nella morte
e tanto d’altro e tanti altri

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