“alza i tuoi occhi”: è questo l’invito del poeta, “alza gli
occhi più in alto”.
cosa c’è sopra i nostri occhi, cosa c’è sopra di noi?
chiudi gli occhi e alza gli occhi
“al lento inferno del tuo abbraccio caldo
una voce si riversa e si spegne
una voce ha lasciato l’impronta delle sue cinque dita di
cristallo sul soffitto”
tu senti questa voce, fratello? tu senti la tua voce, uomo?
“e una foresta vorrebbe bruciare tanto tremolante è il suo
calore
un uomo vorrebbe bruciare una foresta di uomini
un uomo vorrebbe piangere un uomo
un uomo vorrebbe gettare la sua testa nel fiume fresco la
sua testa
una donna vorrebbe piangere sull’uomo
un uomo è così poca cosa che un fine alito di vento lo
travolge
l’uomo
ed è infinita la santa varietà della tua specie
uomo approssimativo come me come te lettore e come gli altri”
qualcuno mi chiede parafrasi, ma che posso aggiungere io a questa Bellezza?
A. Wildt, Vedova, 1894, GNAM, Roma |
XIV
alza i tuoi occhi più in
alto che le alluvioni delle pesanti nevi
alza i tuoi occhi là dove
le mascelle sbattono di tanta severa chiarezza
verso i mulini a banderuole
degli astri è così veloce il turbine nella sua rotazione
che i suoi raggi non
macinano più il tributo di fondotinta al cielo la polvere
i chicchi di caffé bruciato
a valle della notte
la farina come sono bianche
le camicie dei dirupi
quale calamo scrive la
bizzarra lettera circolare dell’orizzonte querulo
che i tuoi occhi dal centro
scaccia verso il più confuso e lontano dei sensi
si alzano verso l’eterna
incandescenza
che assorda l’apparenza
delle cose e la loro parvenza d’eroismo
*
abbiamo spostato le nozioni
e confuso i loro vestiti con i loro nomi
cieche sono le parole che
non sanno ritrovare che il loro posto fin dalla loro nascita
il loro rango grammaticale
nell’universale certezza
è davvero gramo il fuoco
che credemmo di vedere covare in loro nei nostri polmoni
ed è spento il barlume
predestinato di quello che dicono
*
ma quando il ricordo viene
a minacciare la sua maschera di grido di delitto
che vuole strappare le
lettere delle parole
la paglia esce dal
materasso del mio corpo che resiste tanto quanto il mio dio mi opprime
e così duro oh cielo
febbrile e
e m’infrango lungo la
struttura di ferro
e calpestato come un frutto
sotto il piede distratto
piango del fiele succulente
liberazione
se avessi potuto ammazzare
il ricordo preda in fuga
che la parola al suo arrivo
diviene sudicia che non la strozzi mica tu
prima che non straripi dal
secchio dell’atmosfera
che non resti impigliata
alla mostruosa bava delle stalactiti
all’orlo del sorridere le
grotte animali
che il ricordo si annienti folgorata sia la sua gloria e il miraggio
la velocità contagiosa con
la quale si propaga
raggiunge le più recondite
contrade in altezza e in orrore
*
e tuttavia gli oggetti son
qui consolazione che sfiora le sensazioni
non ci sono che i loro nomi
che siano marci putrefatti guasti
la luce ci è un dolce
fardello un mantello caldo
e benchè invisibile ella ci
è tenera amante
consolazione
canto l’uomo vissuto alla
potenza voluttuosa del granello di tuono
che si avvolge anche della
sontuosità siderale della polvere e brilla
consolazione
e quando uno dopo l’altro
saremo passati per il passaggio supremo
instancabile girasole
giostra di sole
e che la tristezza del
nostro soggiorno sarà stata spazzata via da questo mondo
dalla cima della cupola di
raggi scenderanno delle lacrime chiare
e l’amore sarà abbastanza
forte per camminare a fianco della lenta coscienza delle piante
consolazione
nelle culle volanti dove
cresce la lenta coscienza delle piante e delle cose
*
il nero tunnel attraversa
la testa cotta in un forno
contorno e dimenato contro
i muri gettato spazzato in mucchi come immondizia
esco tremante e bendato di
larghi solchi di crepuscolo
una parola
convalescenza
una parola
secca e cupa
imbacuccata in delle ferite
d’inverno
una voce sganciata
dai sipari
consolazione
cellule crude stratificate
al lento inferno del tuo
abbraccio caldo
una voce si riversa e si
spegne
una voce ha lasciato
l’impronta delle sue cinque dita di cristallo sul soffitto
dispiega il suo chicco di
fuoco concentrico
sotto il messaggio del
fachiro luminoso
sgrana dei miti e dei denti
dagli occhi
*
ora l’albero è divampato
dalla terra
e l’esplosione ha ancora paralizzato
lo scoppio sparso
ma nel mio cuore non è
permesso alle radici degli istinti variabili
di uscire col benefico baccano
delle liberazioni e delle colombe
c’è forse ancora bisogno a
lungo per la rigidità delle corde
che io riempia il bicchiere
già traboccante di così minuscoli lamenti
oh mio dio mio violino non è
ancora il varco tanto atteso
che al fracasso dei pesi
morti delle vulcaniche sorsate
mentre attraversava gli
argini e i filtri potrebbe un giorno riversarsi
nel cavo della tua mano
impassibile alla base di tutto
che forse una seconda
sostiene ancora
impasto degli astri
*
un tronco d’albero posto
sul bordo
fuma ancora di dense nuvole
e una foresta vorrebbe
bruciare tanto tremolante è il suo calore
un uomo vorrebbe bruciare
una foresta di uomini
al suono delle truppe
fosforescenti nella notte delle mie consolazioni
un uomo vorrebbe piangere
un uomo
un uomo vorrebbe gettare la
sua testa nel fiume fresco la sua testa
una donna vorrebbe piangere
sull’uomo
un uomo è così poca cosa
che una fine rete di vento lo travolge
l’uomo
*
ma che importa l’uomo al
crocicchio di spade
che sulla pista del cielo
mette alle prese saetta e stella
nelle cantine del cervello
cuociono la muffa o l’aurora
fermenta il pasticcio che marcisce nel fondo delle antiche acque
e il suo sapore di vino
crepita nella gola
è secca la mia lingua e
avido il petto di nuovi inferni
mentre pasce sulla prateria
schiantata da fienili e da travi
mentre sbatte al vento
orifiamma e palato
la lingua dello stendardo
selvaggio batte contro la membrana del cielo
e la gola del cielo così
secca scricchiola come i vecchi solai
rossa è la sua chioma che
cade sulle spalle dello zenith
amara la scarlatta moneta
con la quale ci rimborsa
la pazienza che abbiamo
messo nell’aspettare
e irritata dalle beccate
della folgore latra la tempestosa stretta da cui siamo assediati
fino al fosso del giorno
dove gravitano i suoi germogli attorno alla lanosa acidità del vagone di terza
classe
*
è il cimitero di campagna
saccheggiato
mal rasato mal
scarabocchiato di lievito e gessi
che al fondo fertile del
nostro fervore moltiplica il divino reticolo di rizomi sovrumani
e nonostante l’ombra vana
scorra per il delta di fumo
e l’usura degli arredi ci dica l’antica miseria
delle sovrapposizioni di
generazioni e di famiglie o di processi
piove dal sole sulla brace
di sole
e delle barche di sole si
annegano nella germogliazione del niente
nuovamente sulla lingua s’incastona
il petalo di sole dal gusto della partenza
la mia respirazione non
s’arresta che alla frontiera della penitenza
piove dal sole grosse
lacrime trillano sulla fronte del ghiacciaio
piange dal sole e la zucca
del mondo ne è piena
un occhio di vetro il mondo
galleggia nel vetro dell’universo
verde è il suo sangue verdi
le impetuose correnti di brandelli e di vento
o di latte che nutrono i
neonati nei luoghi astrali
ed embrionale il turbine
così lontano
che lo spavento sarà già
morto da molto tempo
quando la sua immagine avrà
raggiunto lo spazio che ci separa da esso
questo è il canto di colui
che vede brucare il sole
e sulla tempia del mondo
appoggia le labbra di rivoltella
le cifre sono allora degli
angeli distillati nei sussulti delle vene accelerate
e benché l’ardente ortica
abbia toccato la mia fronte al posto del sole
canto più veloce che sul
cuore il rullio della grandine
e affannata freme la
palpebra del mattino
ventosa aggrappata alla
carne frenetica dell’anno
*
continuate timori angolari
a far risuonare al di sopra delle nostre teste
lo scalpitio degli arnesi
chirurgici
indefiniti presagi sondate
la profondità lampante dei pozzi
dove ammassiamo alla
rinfusa conoscenze e lirismi
ma dai nostri pugni serrati
e cementati di provvidenze
mai non potrete mai
strappare quello che la prova dell’irrisorio briciolo
coglie all’incertezza di un
giorno consolatore
all'indietro lebbrosi pensieri
di morte di vermi
consolazione
lasciate ai contadini di
colori e di cieli la promessa succulenta
dell’uomo che porta nel suo
frutto il bruciante e propizio schiudersi di un mattino
consolazione
la speranza si cicatrizza
sulla tristezza delle coscienze disboscate
una malattia come un’altra
un’abitudine da prendere
consolazione
perché è vasta la distesa
della pianura che sorvegliano gelosamente i doganieri del varco
ed è infinita la santa
varietà della tua specie
uomo approssimativo come me
come te lettore e come gli altri
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