lunedì 10 settembre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, XII


"la poesia è una delle più grandi forze dell'umanità.
la poesia non si scrive, vive sul fondo del crogiuolo in cui ha origine ogni cristallizzazione umana, ogni condensazione sociale, per quanto semplice essa sia. è quella forza priva di metodo che assegna a ogni cosa il suo significato e che sgorga dalle profondità insondabili delle cause oscure e incontestabili. dalle sue possibilità è nata l'invenzione del mondo"

T. Tzara, Scoperta delle arti cosiddette primitive, 1929

S. Botticelli, Venere, particolare, 1485, Uffizi, Firenze

XII

il tempo lascia perdere i pollicini dietro di sé
falcia le fini molecole sulle praterie d’acqua
doma le sacche d’aria valica la loro giungla
mozza il verme dell’onda e da ogni metà s’irradia una farfalla
scantona nel vulcano lungo una nota di violino
accerchia il corso filante del vetro nelle fini ore di trasparenza
qui dove i nostri sonni spintonano l’alimento cantilenante di luce

*

il fiume che la montagna infilza all’oriente articolato di rischio e di perché
e carica di medaglie e d’olocausti lungo tutte le gardenie
s’è teso attorno al tuo polso strada abbottonata di limiti coi soli vicini ai campi
al di là delle rive l’arco distende il sorriso della vastità sino al ghigno del ghiacciaio
e la navetta del tessitore pizzicata da remi nell’ebrezza del millepiedi
valica i calvi ostacoli e gli occhi chiomati delle frecce che vedono
ma la saldatura in cima al lago si disfa
come ventate di nuvole si stagliano sull’acqua i sentimenti precisi dei corredini ricamati di biro
forse che io non sono frenesia l’elfo che s’affoga ingoiando delle grosse bocche d’aria per gioco
o il tremolo di fuoco che corre nello spazio che l’eco ha svuotato?
il vento fugge la girandola il vento sfoglia i paesaggi i passeggeri
e la volontà d’essere se stesso nidifica nel cavo dello sciabordio la sua lunga allocazione

*

le lampadine elettriche covano sotto la corazza di tartaruga i chicchi di sabbia e di bellezza
il crepuscolo toglie gli addii all’orizzonte lavato di freddo chiarore di stereoscopio
frustato dai bagliori navali fa il giro della prigione
e le sue cadute di luogo in luogo preparano l’elettrificazione degli occhi
adamo ed eva si nascondono nel bel mezzo del frutto spezzato
due torri fanno abbassare il cielo gemelle delle età sotterraneamente
al sapore dei metalli ingrossati le lenti delle stelle danno il seno all’imboccatura della grotta
alla roccia solidificata sull’attenti
cadendo nel lasciar andare dell’inverno che estrae le sue sciabole
nullità ed ebetismo mentre sgrana con mano robusta gli alberi nel precipizio
mentre proclama ai nuovi venti le partenze i tuffi rapaci del vuoto
nell’illusione delle bianchezze appesantite dal cloroformio
che la pelle del ghiaccio porta al mezzogiorno di sangue

*

adolescente attardato in una nuvola di angeli dissacrati
non temi tu la sorda rapidità del fiume
che trascinando le stazioni di ricche collane di gelide corone
e i giardini i ponti gli oggetti addormentati
porta il fango filiale in vetta ai destini
sbadigliando al tuo seno incatenato a pesanti leonesse –
tuttavia il ritmo dell’uomo consuma il segreto debito sull’unghia
sotto la sottana foglia morta che sbircia il debitore
l’uomo peregrina prigioniero nella doppiezza del suo animo
circondato da vapori d’angeli dissacrati
perché nel palmo del suo giorno di festa
hanno suonato l’ora invisibile dello spirito e le stigmate dell’infinito di voci
la serratura inganna i sensi
quando si risvegliano le cavallette di polvere che in ogni ferita mettono un cuore d’aracnide
e per le grinfie afferrano l’uomo alla ricerca di un grazie di terracotta o di sole

*

ma pesante delle migliaia d’ore alle quali gli anfratti della roccia fungono da incredibile oblio
ho alzato il mio silenzio fino alla dolcezza della morte
che la sua piena primaverile ci porti presto via
che il raccolto dei suoi sensi pervada i nidi di feltro
dove la canicola veglia intorpidita tra le ciglia di tabacco
che il suo soffio chiuda le porte alle civette
che una lama di notte bruchi il tacito pelo delle formiche
l’agnello si dissolve dal cielo germogliato dalle ortiche della grandine
e la rivolta raggiunge il culmine di splendori e di ali insanguinate
tra le debolezze dei naufraghi ancora a malapena in movimento
alcune vette smarrite sull’immensità dei fumi si disperdono
e mentre la rabbia urla al lutto della luna
e sparge le fetide oscurità nei vicoli vacillanti
che fuggono da ogni parte come i ruscelli di vino dal fusto della creazione
e che le case non si dispongono più in ranghi serrati di denti sentinelle
scontrandosi con le teste gli edifici che nessun diluvio poté dissolvere nell’acido
ora scricchiolano a pezzi sul lastrico con i resti di stampelle
e rodono la morte dalle pietre dure nella testa
gli scheletrici scricchiolii che aprono la tomba ai richiami striscianti
tagliando le arterie è il deragliamento delle tube che s’accumulano
e si radunano di fianco a noi

*

dio giustapposto a ogni allusione di gesto millimetrico
dio inserito tra le cellule non lasciatemi solo
come sono – piantato da solo al centro dell’incudine oraria
onde sono i tuoi richiami i dintorni che applaudono ma levigate
le tue mani nelle mie strette al volo delle crisi migratrici
e circolare vive la solitudine acquattata in fondo al crepaccio
rannicchiato in fondo a me stesso mi guardo assente e mi stupisco di potermi ancora agitare tanto
alla periferia della macchia sparsa sulla tovaglia terrestre
c’è ancora come me qualche goccia leggera d’animo rigettata dalla forza centrifuga
e qui dove lo stelo si drizza nel dente di pugnale
stagnano le anime appesantite che non vedono più

*

irta è la valle che ti ricongiunge dio di penombra
e supremi sono i pesi che gettasti tra noi
ma le tramontane che ci guidano e con le quali abbiamo limpidamente giocato d’astuzia
ci accompagnano più lontano
più lontano più lontano della portata del tuo sorriso confuso più lontano
più lontano del disprezzo in cui la tua carità si compiace a promettere il branco delle tenebre
più lontano delle lacrime qui dove le ricompense non sapranno distogliere il chiaro remo del nostro grido dalla corsa
e i sobbalzi d’errori e d’impurità che coltiviamo sulle fronti d’aurora
provocano con noi le fresche e vigorose penetrazioni
i tratti polari delle antenne
respingendo la carne putrida e terribilmente solcata di ignoto
si alzano fino alle lucidità ormai superate agli argini dei sogni
struggendosi di un’insonnia lesta di selvaggina e di brace
la trasfusione delle intruse dolcezze quelle dei confini delle vite e quelle in scompiglio frontiera dei morti

*

uomo dalle vele spiegate dal vento lanciato nell’imbarazzo degli agguati
l’occhio ferito delle rocce ti rimpiange amaramente di rimpiangere
bianca è l’inquietudine che la schiuma getta contro la pietra
ma l’autunno ha gemmato il sospiro delle lunge scie
e per sbuffi di scartoffie spoglia delle crisalidi le fluorescenti tettoie
non ci sono che le donne rastrellate di riviste che s’intestardiscono a rianimare i giochi della primavera
irrimediabile slancio gustato nella ghiaia di ogni fibra e di cui ogni fine è un’origine
per la via di quale invincibile folgore saprai tu un giorno perforare la dimora della conoscenza
e più lontano di dio piantare gli alberi delle bandiere e dei pugnali
condannato a sopravviverti doloroso accerchiamento d’universo
che straripa di forze isolate ma impotente spossato dalle urla delle lime
così poca cosa sei tu e limitato così poco per lo stridente desiderio
che le vergogne maturano nel tuo seno nelle vegetazioni senza numero
e tuttavia santa è l’insoddisfazione che ti cova indomabile andatura
germe dell’alluvione arrogante di tirannici numeri e voltafaccia




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