Quest'estate le rose sono blu; il bosco è di vetro. La terra drappeggiata nel suo verde mi fa tanto poco effetto quanto un fantasma. Vivere e cessare di vivere sono delle soluzioni immaginarie. L'esistenza è altrove.
A. Breton, finale del I Manifesto del Surrealismo, 1924
R. Magritte, Georgette Magritte, 1937 |
XIII
c’è davvero un paese bello nella sua testa
lì dove la promessa del
cielo lo tocca con la sua mano
nuda è la pelle del cielo e
scorticata dai grappoli di pietre
i ripidi itinerari dei
convogli di rovi
hanno limitato di aria i
febbrili profili
e nella cisterna della sua
memoria lo sciame dei popoli
maturati nei perfidi
livellamenti
disgrega la schiuma senza
fiato la ragione senza via d’uscita
il suo dannato
capovolgimento si paralizza qui dove finisce la tua voluttà accresce il vuoto
si spacca lo sperone delle
steppe squallide contro il percorso dei dolmen
ventilatore che raschia nel
feretro di risonanza dell’abisso
abisso ebbro di profondità
mugolanti
imbottito di fini scritture
di vertigini disdegnose e d’alghe
i nostri sguardi che scivolano
da perpendicolare a perpendicolare si dissolvono
disegnano degli occhi di
petrolio sulla loro pozza
così ti fisso ai piedi
della montagna
assisa come la notte è
pronta a dilagare
e sui passi vuoti che
affondano le tue andature
serpeggia la morte alito di
riappacificazione
*
ma sulla passerella che
tiene nel suo equilibrio
il piano della spiaggia e
il ponte della nave
tu barcolli flusso del
giorno
portando i piccoli miracoli
di tutti i giorni
sul fiotto delle tue braccia
e dietro te la notte piagnucola
con delle fiaccole e della
selvaggina ella viene sparsa
sbottonata e gettando nei
fossati e nelle miniere
dei grossi brandelli di
grasso levante
e il vento si alza
scansando la notte soffocante
come gridano soccorso gli
occhi sbarrati
e braccia all’aria che
battono i cenci dell’aria
e dilaniata dagli degli
assalti di sciacallo nelle montagne
la notte si lascia cascare strato
dopo strato densa
cataratta in gradinate
d’asma che scende nelle arene
percossa sconfitta muta
fino all’apertura dei cancelli dell’indomani
*
una curva gettata lontano
trema nello sguardo
il volo temprato d’acciaio
di un uccello obliquo
d’inverno è il suo gorgo di
diamante il becco
mentre spara il suo
stridore aspro sul vetro smerigliato
che sul vergine abisso ti
serve un impenetrabile
pasto di lutto che giace in
un fiocco scialbo di bruma
*
non senti tu il lungo
graffio sul tuo petto teso
estensione del violino il
passeggero umore
cucito nel precipizio il
filo del torrente
capello perduto una lacrima
una lama di coltello
ha fuggito il lamento
ozioso del crinale di creta
che affiorando dai
fondotinta scarta i petali
e sulle pianure pregne di paesane
speranze
accumula dei biancori
successivi di letto
*
le grotte si scavano
nell’ammasso della tua età
da dove discendono da
robuste stalactiti
e il freddo spegne l’aria
brizzolata
simili alla follia i morsi
calcarei che i sogni hanno ghiacciato
lungo le palpebre della
terra aperta con le unghie
hanno tracciato nella tua
vita le sanguinanti oscurità
di cui i sentieri viventi
sono soli la mia luce
e lontano nella tempesta dell’essere
s’accoccola l’infanzia delle passioni
carezzata in macerie di
grida ardenti di terrori
alla radice del mondo nelle
culle dei germogli
l’uomo nidifica i suoi
significati e i suoi proverbi
*
intrecciati di ciglia i
pozzi disarticolati sulle scogliere
ospitano il mattino spoglio
di dubbio e di preghiera
solleva il coperchio della
prigione delle voci
che anche alla deriva
queste possano fiutare l’eloquenza degli scontri
e sbrogliare le convulsioni
le capriole dei segni
s’impigliano ai promontori
malvagie sopracciglia del mondo
che queste possano
rivoltare la traiettoria dell’ordine
o abbeverare il cammino dei
sorrisi lungo delle carovane
il sole che dimenticato sul
quadrante delle vigne
fermenta il sale delle
nostre strette rimette sulla via
l’affannata carne
esitazione latente
*
vedi lo schieramento di
cadaveri in me?
è il ponte dei dolori in
ranghi coagulati di età
la morente oscillazione dei
sentimenti che non s’illuminano più
allo sfregamento degli
occhi contro la dura luce vedi?
nonostante
l’argomentazione per gettare delle lettere di pioggia nella pattumiera
le piante rampicanti delle
tue vene
lottano contro il peso della
luce scoscesa
spasmodiche le loro dita
cingono la mia testa e la notte
scioglie le leggi della
giostra di spine
cervello di cui i canali
all’alba approdano
al nodo del giorno e della
notte quando si stringono le mani
alla fonte delle strade
costeggiate da peli e da denti
il tempo corre per le vie
lungo degli addii
mentre sullo schermo le
giocolerie del demonio risalito
crepitano in fuggitive
scintille intessute d’acqua
e nei cuori gli squilli
delle fanfare robuste
portano gli anni alla
conquista dei rancori
ora la cupola del silenzio
affonda il suo berretto sulla città
un angelo non ha paura di
restare sospeso in aria
dopo aver gettato la chiave
dalla finestra
qual è questo sorriso
perpetuo che ci osserva
e che le notti d’estate
chiamiamo mistero
il segreto al tuo orecchio
fa gemmare dei fiori dei frutti negli orecchini
l’alfabeto della tua
collana di denti
sei così bella da non
saperlo
al chiarore delle antiche
colonnate chiavistello di rime
porta al cielo la sua
lettera d’amore
senza trovarlo senza trovarlo
il treno lacera il paese
*
i panni avvolgono le
piantagioni
i piani dispiegano le loro
piume di pavone
sulla fronte delle aureole
ma al riparo
il grande sarto taglia le
praterie della terra
stese i rumori delle oasi
seccano da un polo all’altro lobo auricolare
diffidando delle vette
apoplettiche
il passero si stritola si
precipita di crisi in crisi
verso gli schiumosi
torrenti di criniere e di disagi
lassù i ghiacci spezzati
sulla testa del paese
scampanellano dal cielo i
gloriosi riflessi
montagne lisce e muscolose
sulle quali le voci si impennano
montagne drappeggiate con
fiori d’infinito
riccioli incastonati nelle
glabre carni
perché le meteore si
affrancano dalle virtù spettrali
corazze sgualcite nelle
tasche oceano
montagne pettinate lacerate e fitti crepacci
il laccio dei fianchi in
pendio serra il corsetto della valle
i clamori martellano le
stive dell’essere
e sparsa di pietre preziose
la lucertola sabbiosa trascina la sua traccia dal sentiero
dissoda il ghiaccio gremito
di crostacei
percorsi dai falcetti
cadono
dai getti di chiarore i
bruschi colpi
nel tamburo dei giochi di
massa
*
così s’ammucchia l’uomo mentre
raccoglie le generazioni perdute
dai cesti di vendemmia
nella sacca della collina
che da altri tormenti s’arrotoleranno davanti a loro
ciascuno la sua tormenta da
un estremo all’altro stringendo le briglie dei cammini
spezzando le serre dove
servono i nani
ciascuno la sua tormenta da
un estremo all’altro canta
alle svolte pericolose
portando le madri e le
piante in mano
che da altri tormenti
s’arrotoleranno davanti a loro
sepolcri di vino che
svoltano al suono dei rovesci la bufera
assordate le estati delle
nostre coltri nel sangue
fino alla deflagrazione
delle frontiere in solari brandelli di marea
le barche scricchiolano al
richiamo sbracato dell’infido fondale
per il quale scivola
fuggitivo un altro fondale che capitola di fondo in fondo
di trasparenza in
trasparenza non ci sono che le sonde astrali che raccattano
dalle ore di vetro la
celeste messe
ma l’uomo alle sue pene si affida
e nei granai della sua
testa i sorci s’ingozzano d’infinito
uomo marcato da punteggiature funebri
spazzato all’interno dalle
correnti di frenesia e d’aria
la civetta immobile sulla
tua spalla
ti ficca nella testa la sua
dura chiaroveggenza
la sterilità del castigo
stabilito
*
magro pozzo mulino ruotato dall’asino funebre
il groviglio delle corone
di lutti
le mani della scala mobile
riversano degli uomini che
si appiattiscono e si precipitano in pile trasparenti
nello stretto senza fine e
senza auspicio
l’uragano ha rimosso la sua
lotteria dalla loro notte
ha rimosso le stelle dai
loro occhi
e le campane della notte le
ha rovesciate nel mare
e anche i mari le ha
rovesciate
ecco quel che noi sappiamo
dei mari rovesciati nel pozzo del cielo
*
nonostante l’alone
cagliato della luce
una tiara d’incenso sul
capo del promontorio
si schiude dalle trecce
saturnine
e ritto in piedi
incandescente fiamma il tuo cuore nella mano
colto nelle urne
traboccanti d’angosce
faro che ammicca del sole
il tuo occhio passato per
tutti i buchi i cedimenti delle ore
profetizza la sorprendente
chiarezza del cammino
*
che ci farà condurrà fuori dagli
ingorghi delle cose e della carne
gli applausi del mare si
schiantano contro di te
diga tragica e indolenzita
sul primo gradino dell’anfiteatro
vecchia piega di pietra sulla
fronte provata del mondo
i relitti e i rottami
gettati nel mare
e quelli del mare nel mondo
crucciata ruga di terra
congestionata
ormeggiata nella gola delle
tenebre marine
aggrappata alla nerezza
della poppa sfrontata dell’avvenire
mentre fa fronte alle
grinfie mentre si schianta nelle onde ritta in piedi
solco immerso
nell’inconcepibile imprecazione del tempo
fino al compimento dei
secoli
fino allo sfinimento dei
cicloni nei depositi elisei
povera piccola vita che
perde terreno ogni giorno
inciampata caduta
precipitata povera vita
povera vita incalzata dai
presagi selvaggi calpestata
e nondimeno: mascella
d’incrollabile eternità e insolenza
fortificata e merlata fino
alla vetta di dio
che nessun occhio ha potuto
scalare
nessuna guancia riscaldare
d’umana tenerezza
ma per quale bene inerpicarsi in cima filtrarle nude
quando l’umana tenerezza
non sa più riscaldare le mie allegrie
che importa l’amico il solo
la notte la noia
io porto in me la mica di
pane la morte l’amico
e il grado di freddo ogni
giorno aumenta in me amico
diviene amico che importa
l’abitudine
che importa l’amico il solo
la notte la noia
un giorno un giorno un
giorno metterò il manto dell’eterno calore su di me
seppellito dimenticato
dagli altri a loro volta dimenticati dagli altri
se avessi potuto attendere
il luminoso oblio
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