lunedì 25 giugno 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, IV

"che senso ha parlare di poesia, quando fuori accade quello che accade: la propaganda, i censimenti, la violenza?" sta pensando qualcuno.
ma quante volte Babele è crollata, Roma è bruciata e il il "crociato" è stato sconfitto? e il "barbaro" non è nemmeno mai esistito.
io parlo di poesia perché come è possibile comprendere la complessità della realtà senza comprendere la complessità dell'interiorità umana?
io parlo di poesia perché un uomo che amerà una sola poesia, un solo verso non potrà non dico odiare, ma semplicemente essere indifferente di fronte agli occhi di un altro essere umano, un essere umano diverso, un essere umano come lui. la battaglia con l'odio si può combattere solo con l'amore, l'impegno e la conoscenza.
io parlo di poesia poiché, dentro, ci siamo tutti noi e pure questa giornata di sole del 24 giugno 2018, "e tanto d'altro, e tanto d'altri". 
scommettiamo?


"io mi svuoto davanti a voi come una tasca capovolta
T. Tzara, appunto.


Gustav Klimt, Ritratto di Johanna Staude, 1917, Museo del Belvedere, Vienna


IV

filtra il fiore setaccio di radura
la fragola ruota il suo occhio grasso all’interno imbottito di labbra
e l’indice del pistillo tocca l’incredula piaga del cielo
saccheggiato dagli attacchi notturni delle lontre
disteso accanto a noi dove gli incerti equilibristi si lasciano cascare nella rete
al salice sono appese le bardature della tristezza
che le lunghe giornate d’autunno hanno unto con carezze di amaca

*

il bucato dalle bianche fiamme ride nella sua lingua d’alcool
e l’insetto carrozzina piega bagagli e competenze
se ne va sulla strada imberbe dove la parola ricama il sughero
e l’albero succhia la resina dalle ciotole dei cuori torridi

*

un colpo di cannone raggrinzisce i globuli rossi sotto la tenda
dove gli assonnati missili vivono in colonie d’elettricità
e raccoglie nel suo grembiule di raggi le bucce dell’orizzonte nella sera
l’informe demiurgo vede in ogni albero un vivo benvenuto
sulla strada imberbe dove la parola ricama l’altezza
la foresta affannata è salita sino alla cima della concezione matematica
e senza nuvole il suo petto volteggia attorno a dei cuculi trasformati in minuti
ma la freschezza crepuscolare dello spirito placherà presto la nostra fame di mondi
e appannerà i brandelli di vita che deponiamo di scalino in scalino
nella vuota vertigine che la morte lascia sfuggire dalla sua orbita
dalla bisaccia così miserabilmente carica delle scorie sonanti d’ineffabili castighi
di scontri e di fatiche incalcolabili per non arrivare a nulla
tormentati come lo siamo noi dalle microbiche previsioni dei pensieri
poveri esseri che non possono distogliere lo sguardo dal calcagno della morte
quando l’informe demiurgo vede in ogni albero un alibi vivente
l’autunno trascina su delle stampelle il vento balbettante
e le pinne dei cespugli non piangono più sotto il mantello
dormi dormi
l’alfa si chiude sulla tua palpebra
il chicco delle montagne
l’acqua ti osserva
carovana d’acqua
chicco di sguardo
aggrotta le foglie sopraccigli delle montagne
sotto le dita dell’acqua cullate le campane si chinano
il ventaglio della galleria si apre sul seno della sera
i sogni hanno suonato tutte le vacanze

*

moncherino barbuto d’albero il pugno alzato al combattimento delle secchezze
tuono valvola delle valli dolenti
che canta monotonia dai chioschi schierati come tazzine di caffé
e fili soprannaturali che legano le strade sanitarie
appese ai bastioni dai colli robusti
cerchi volteggianti attorno alla morte di fosforo
l’erpice delle smorfie marce ha aggirato l’irreale dai denti belligeranti
ma tu incurante di ciò che non ha né peso né presagio
bagliore sostanziale
che a mala pena sorride a caso dei muscoli gli occhi e il vento
così le lingue di neve leccando i sali profondi dei precipizi che brulicano di sfere
dormi dormi
il pioppo sta volandosene via
il biancospino sta cavalcando il relitto di nuvola
morso è il fianco della bilancia
dove il paesaggio pesa sul suo dorso d’asino il dolore da distribuire ai montanari
dei fiori più piccoli che dei chicchi di polvere
ti porteranno su un alfabeto di armoniche
e sui tetti che arrotolano delle farfalle
schiena trasparenza fissata di brina
per l’abbondanza di notte
e chiaro canestro del lago
sono i nuovi violini che germogliano sui violinisti
sono i nuovi bambini che escono dai violini volanti
dormi dormi
la pioggia é fuggita canoista di bianco

*

sparsi sui mazzi di chiavi delle fonti sotto i tappeti calcarei
le nere bende di proverbi predatori vegetano sempre nei dintorni del sonno
e le lische di cristallo cantano sull’organo l’impalcatura dorsale del carico che rimugina le sue forze
alla frontiera dell’odore di asfalto si muovono le pesanti tribù di mobili carnosi
ma quando l’orgoglio del petalo fiorisce ritornano foreste di caprioli per morire
e  i geyser del flauto e della coscienza arruffati sul fronte dei mucchi
ammuffiscono sotto gli ombrelli di paglia dovunque l’equatore riponga i suoi nidi
davanti al focolare dove il silenzio si mescola all’henné stellare
e la scorza colori ingannevoli si stacca
i frutti abbronzati si spogliano delle boscaglie addolorate di anziane ragazze
che i racconti alisei hanno battuto sul parapetto dei ponti
nella grotta la musica di gesso s’illumina
l’abete veglierà sui montoni d’ombra che s’infrangono delle lampade di acetilene
la fiera dalle conchiglie in sordina
tinta nel corno di mica
è il corteo dei viaggi che si scuote
il colchico delle mani giunte s’inabissa
crisalide di rondine
dorso della biancore proibito ai lupi

*

e la mitologia diffusa dei nostri selvaggi fuscelli di sapere
ruota la mola increstata del pianeta
una lunga dipartita di canto d’usignolo senza lacuna
e l’ambra senza lacuna del tuo tormento maestoso
così si uniscono alle metalliche verità i giorni di festa che siamo
che vogliamo essere
radunati nella stessa treccia di fluide colline
sgranano i cuori lungo dei nodi quando il palombaro scende nel fondo dei pianti
sempre accanto a noi l’odore di catastrofe che sparge la luna
dormi sotto l’ascella dell’acqua
vaga sola
stringe forte il fiore attardato
al petto dove si accampa la solitudine dei marinai
la notte ha messo le ginestre in prigione
l’uomo si disfa dei suoi arnesi
i succhiacapre addomesticano il chiasso angusto
e le corone di ferraglie imbianchite fino alle ossa
sono sospese in alto dalla collera che viene dai fiordi
pronte a cadere nel bollente eccesso le loro mammelle dentellate d’ardesia
s’ingranano con delle cure di neonati nella catena del sole che sorge
la minaccia dei rapimenti crudeli spezza i contatti dei nervi
sbarra la strada dello spavento dalle manne soporifere che colmano tutte le brecce del sentimento
e il chiassoso niente incrocia le sue braccia sopra il baratro stregato dove la pace fuma il suo dolore
nei giacimenti nel cuore delle vegetazioni che si dimenano
le palpebre si ubriacano nell’allegoria dei drappi
io getto l’ancora del sonno disordinato nell’ansa chr così familiarmente vagisce d’incanti
e i lamenti di notte spaccature nell’alambicco delle menzogne
mendicano all’equipaggio folle la tregua del rimpianto errante

*

schiava è la ragione di una favola di discordia
così il coleottero che porta in sé il suo sconvolgimento fuggitivo
rintanata nell’elogio del suo rimedio occulto
sottomessa ai riti colossali delle vane passioni
e l’antro dove l’ingiuria sgozza il daino dell’alto giuramento
dove alloggiano i crateri degli inferni dove passeggiano i pettegolezzi dei pipistrelli
i piloti della disputa scartano l’incantevole espressione della regola del giusto
crolla sotto il peso dei ceppi in fiamme e dei malinconici schiavi delle furie
e attraverso la delirante distanza dell’acquavite e dei rottami d’orgoglio
L’esempio di vendetta misura il riscatto astuto

*

custode delle immateriali baracche del riposo
bottiglia sull’onda incinta di mostruose immortalità
tu porti rinchiusa nel segreto delle tue viscere la chiave delle immense coincidenze
tu non lasci penetrare alcuna bramosia dalle scrostature irrequiete della tribù dei frutti
ma l’eterna agitazione ci è luce comune
e di generazione in generazione ci incatena ai suoi sogni costellati di spighe
pace sul di fuori di questo mondo capovolto nella mola delle unanimi approssimazioni
e su tanto altro e su tanto d’altri





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