venerdì 21 ottobre 2016

de profundis


mercoledì 14 settembre 2016, ed ecco una delle viste più deformi della mia vita.
uno stanzone di 80 metri quadri, il buio totale, mentre fuori dalle sbarre si distinguevano le urla e le mani.
solo dopo essere entrato e dopo aver stretto quelle mani, centinaia di mani, ho lentamente riconosciuto volti: volti di ragazzi, volti corrugati, volti canuti, volti annichiliti in un’unica gigantesca camerata di tenebre. chiedo qualche nome, mi presento, respiro a malapena nell’aria rancida.
queste sono le prigioni di Aru, questa è la legge qui, la legge del più forte che stritola i ladruncoli e i pazzi: gli internati si autogestiscono, tra violenze e rendimenti di conti, e in questo angolo di inferno chi non paga 110 dollari al “presidente” eletto di questo novello Zaire non ha neppure il diritto di sedersi, di dormire, di mangiare, di essere uomo. per questo vengono chiamati zerozerò, gli zero nella terra del nulla. l’anno scorso ne sono morti di fame sette in pochi mesi. no, non si possono fare nemmeno foto: non è permesso neppure ricordarsi degli ultimi degli ultimi, poiché (mi rammenta qualcosa a cavallo tra Dante e Primo Levi) non fanno più parte della nostra umanità.
madre Angela ci ha accompagnato fin qui (quaggiù, mi verrebbe da dire), per offrire boccone di pane e una preghiera assieme. lei si cura di loro, lei si batte per loro e loro la rispettano. loro la accolgono tra loro e pregano, cantano. da un barile arrugginito nasce un ritmo e un canto a un d-o che perdona, che ama, che rimane a fianco del peccatore. “io ero in carcere e voi mi avete visitato”, ci ricorda alla fine con un sorriso commosso, mentre fuori dalle sbarre le mani ci cercano, ci salutano ancora.
mercoledì 14 settembre 2016 ed eccomi davanti all’inferno terrestre, ma anche all’amore umano.



le mani dalle porte dell’inferno
110 dollari per essere degni
di essere uomini “ero in carcere…”
dicono gli zerozerò
dalla ruggine nasce un canto

“…e mi avete visitato”

venerdì 14 ottobre 2016

mama na ariwara - donna di ariwara



“vorrei che ci insegnassi una carezza”
la donna di Ariwara dal riso chiassoso e gli occhi incerti
la donna di Ariwara dalla pelle di miele, dalle cinquanta parrucche
la donna di Ariwara che s’intraffica tutto il giorno oltre il tramonto, s’intraffica sola per quattro figli
la donna di Ariwara che ha perso gli incisivi piegata a terra
la donna di Ariwara che porta un figlio sui lombi e uno nel ventre
e un pollo le mille donne del mercato
la donna di Ariwara che è la seconda o la terza moglie di un uomo che non sa amare, ma abbandonare
la donna di Ariwara che non hai mai provato un bacio una carezza un abbraccio
la donna di Ariwara che non può accavallare le gambe, che è taboo dice lei
la donna di Ariwara che vale sette vacche, più o meno
la donna di Ariwara che sulla testa regge il mondo intero
la donna di Ariwara a cantare danzare nel coro, cantare a squarciagola e danzare forte
la donna di Ariwara che cammina cammina cammina
“vorrei che ci insegnassi una carezza”


una storia, una sola, un po’ per redimermi da tutte quelle volte che mi sono lamentato di lavorare circondato da donne, dalle loro chiacchiere su figli e abiti, dalle loro cure e apprensioni. una storia, neanche la più significativa o notevole delle cento che tengo in me, forse solo quella più semplice.



Meggy da Arua, 19 anni e una lunga ruga sulla fronte.

l’ho conosciuta a Lweza, uno dei sobborghi della regina Kampala. avevo conosciuto un ragazzo in città che mi aveva invitato a cena da lui: “perché no?”. viveva coi due fratelli, due sorelline e Margaret, la sua domestica. lui sul divano mentre lei bada a tutte le cose della casa, al cibo, alla cura delle bambine, dormendo in un ripostiglio di fianco alla cucina e mangiando a parte, intoccabile e senza una parola. mi sono avvicinato alla fine della cena, con la scusa di aiutarla a lavare le stoviglie: “no, non studio più da qualche anno. ho lasciato il mio villaggio e sono venuta qui per lavorare”. e come ti trovi? “I’m ok” abbassando gli occhi e quella lunga ruga sulla fronte. dice che ho uno strano accento americano, Meggy, ma si fa fotografare volentieri, sorride. prima di andarmene l’ho salutata, mentre tutti uscivano indaffarati e indifferenti, l’ho salutata quasi furtivamente come se quell’abbraccio no, non fosse normale, non fosse permesso tra quelle mura.



venerdì 7 ottobre 2016

ma in inglese non ha nome


una parola basta ad esprimere il cuore di un mondo? 
dove tutto sembra potere essere schiacciato e svilito, una parola può ancora rappresentare un'identità, un tesoro nascosto.
all'università mi ripetevano che la lingua è specchio del pensiero e dell'anima di una cultura: l'albero dai fiori di fuoco ha un nome.


ho visto una bambina mangiare sabbia
camicie francesi per i colletti di Kampala
film americani per gli studenti di Kyotera
e un’antenna parabolica tra le spianate di papiri
campionati arabi per i bar di Mbarara
l’albero dai fiori di fuoco
madonne bianche per madri nere
manichini bianchi per giovani neri
ho visto una bambina mangiare sabbia
moto giapponesi e chiese a croce latina
mondi bianchi per un villaggio nero
nier in japadola e giritiki in luganda
ma in inglese no, dicono non abbia nome

l’albero dai fiori di fuoco



venerdì 30 settembre 2016

bethlehem di kyotera / uganda

Una foto pubblicata da Emanuele Pini (@emanuele_pini13) in data:

nzela na papa Mayele - rue papa Mayele


era piena notte in volo tra Istanbul e Kigali, ma il mio vicino, incurante, mi ha toccato il braccio e ha iniziato a parlarmi. era un ruandese, ormai da 20 anni a Londra, e tornava a casa per lavoro. mi diceva che quando sarei stato Là, nella sua Africa, avrei dovuto capire che fare per aiutare, metterci del mio senza pensarci troppo.
poi sono arrivato Là.
quando dopo alcuni giorni madre Marcela si è lamentata per quella stradina verso l’ospedale che continuava ad allagarsi nella stagione delle piogge, mi è venuto spontaneo proporre di rifarla, poco coscientemente. aiutare, senza stare a pensarci troppo, senza alcuna esperienza non solo riguardo a strade ed edilizia civile, ma anche a comefaredelbuoncemento; una delle tipiche scommesse perse della mia vita.
eppure qualcuno ci ha scommesso con me: Paolo "moindo" Bazzocchi da Lugo, anni 21 per 195 cm, e ci abbiamo scommesso pesante (“fess”, direbbero i miei amici bresciani).
rialzare il suolo argilloso, chiedere consigli e riconciliare i differenti pareri, scavare nel prato i canali laterali di scolo, scoprire che i mattoni di terra rossa si frantumavano, recuperare delle pietre piatte a sufficienza, incastrarle come in un gigante puzzle, affrontare le perplessità degli altri e in primis del proprio passato, impastare e passare il cemento, tutto questo senza troppi fronzoli, a volte sotto il sole a picco e a volte sotto le piogge della stagione, senza grandi parole.
perché il buon Paolo non si perde in discorsi, ma si alza, va e lavora ed è forse stato questo un grande dono: badare al sodo senza fronzoli, mirando al fine, senza insicurezze, nonostante i giorni di lavoro passassero e la fatica aumentasse e i timori, silenziosi, si potessero sentire nell'aria.
sognare e sudare, l’unico pensiero.
 “ce la faremo, a fare questa nostra dannata strada”, sognando se fosse meglio intitolarla papa Mayele street, rue Bakhita o via Maria Goretti o, perché no, via Marcela Lopez.
sognare e sudare, l’unico pensiero.
come quando abbiamo preso "in prestito" un’ambulanza per battere il fondo, come quando papa Maurice rideva dei nostri modi così “mundele” e noi ridevamo di come aggiustasse un piccone col machete, come quando osservavamo e studiavamo nei dettagli ogni scolo che incrociavamo, come quando riempivamo la piazzuola di spettatori incantati dal fatto che, sì, allora anche i bianchi lavorano, come quando si andava in cerca di sabbia per le stradine attorno.
ora però non andate al classico lieto fine, perché io penso che forse non ce l’avremmo fatta, io e Paolo.
ce l’abbiamo fatta io, Paolo, Juniore, Christian, Dunya, Zebra, Jean, e poi quando le speranze sembravano assottigliarsi sono arrivati in nostro aiuto anche Marco, Oscar “mr. silenzio stampa”, Carmine “il maestro” e Sean. no, senza di loro non si sarebbe concluso granché, perché, lo ammetto, niente a volte è difficile quanto chiedere aiuto. perché non abbiamo costruito muri, ma una strada.
sognare e sudare, l’unico pensiero.

sì, erano solo 37 metri di strada di un villaggio sconosciuto ai bordi del mondo e tutto può apparire tanto banale e insignificante, ma forse il mio amico ruandese ora potrà sorridere un poco anche di me e di queste immagini: