mercoledì 20 giugno 2012

aneddoto minore

Un vecchio saggio viene interrogato sull’arco della propria esistenza fino ad oggi. Ed ecco come ne riassume le tre tappe:
< A vent’anni conoscevo solo una preghiera: 
"D-o, aiutami a cambiare questo mondo così insopportabile, così spietato". E per vent’anni mi sono battuto come una belva per constatare in fin dei conti che non era cambiato niente. 
A quarant’anni, conoscevo una sola preghiera: 
"D-o mio, aiutami a cambiare mia moglie, i miei parenti e i miei figli”! Per vent’anni ho lottato come una belva per constatare in fin dei conti che non era cambiato niente. 
Ora sono vecchio e conosco una sola preghiera: 
"D-o mio, aiutami a cambiare me stesso" ed ecco che il mondo cambia intorno a me! >.  


C. Singer, Del buon uso delle crisi, pp. 29-30



sabato 16 giugno 2012

z = q – h (cioè, precisamente, all’incirca, la produttività è ovviamente eguale alla quantità di merce prodotta meno le ore di lavoro svolte)


ti stringo come un'onda che mi travolge
e a tastoni per i tuoi fondali
una mandria di vacche nere nuotare
attraversa la prigionia marina la valica
e alla fine che ti amo te lo dico
neppure stavolta
troppo tardi, credimi,
così balleremo ebbri
in questo nostro buco di doccia
sconfinato quanto lo slancio d'un'altalena 
                                                        devastante e sciolto


marc chagall, les amoureux en gris, 1956-60, kunsthaus zurich
                                          

sabato 9 giugno 2012

quanto si può trovare scritto di un amore



ripropongo la poesia polifonica recitata nella serata del 21 ottobre 2011 presso la biblioteca F. Nietzsche di Lurate Caccivio (CO) da me, Valentina Rusconi ed Emanuele Parravicini. mi scuso per la bassa qualità audio e video, ma l'emozione di quella performance dal vivo è stata davvero irripetibile, cosicché spero che da qui se ne possa attingere anche solo qualche sprazzo, promettendo che che ne seguiranno di certo molte altre!


venerdì 1 giugno 2012

inappelLabile


certo che d-o esiste
irreperibile
tra gli spiragli della nostra polvere
c’è una stanza gialla luci colorate
intermittenza d’uditi qualcuno
gridò a gran voce è plausibile
tutto sfocia impertinentemente
impalpabile hai intenso l’irrequieta mistica del sipario?
la parola comunione è un cornicione impotente io
mi ascolto poco interessato così
saluto la gente che passa disinteressata
irreparabile
e d’equilibrio non mi si adagia l’assalto
al cielo come profetizza la perpetua
crisi motrice come tenta di sopprimermi
il paradosso di goebbels (che parla a parer mio
a sproposito d’un’arte amorale) vuote
senza te queste braccia s’agitano
dibattono dimenano sbattono
scrollano monche e dispercezioni di avere rassettato
il letto nel subbuglio della notte
e quest’io che è qui (è qui!) finalmente
godot s’accoccola labile sul pavimento infranto
nelle fogne della città terrestre certo che d-o
esista saldo e assiderato






domenica 27 maggio 2012

il senso della fine


pensieri durante la lettura in classe del XXXIV capitolo de “I promessi sposi”

gli occhi non davano lacrime, ma portavano segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo.
sono nato nostalgico, pensavo così. sono nato con distacco nei confronti della vita.
forse non volevo neppure nascere, forse semplicemente non ho mai scelto di vivere, io.
ciò che nasce muore, ciò che l’uomo insegue svanirà, pensavo ai miei quattro anni, dopo le preghiere della sera di mia madre, alla penombra della mia cameretta bianca e innocente. mio padre non era ancora tornato a casa e io aspettavo invano la sua carezza. la tua carezza, papà.
sono nato storto, agitato nell’indole dalla paura connaturata agli anziani, con la maledizione, o più ingenuamente la consapevolezza, che ogni mio castello sarebbe stato spazzato dalla prossima notte, dalla prossima marea. ogni mio castello sarà spazzato via.
la madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, la stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: addio, cecilia! riposa in pace! stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme.
allora mi sono fermato, mi sono sdraiato sulla spiaggia, mi sono sdraiato sulla sabbia e ho gustato la pioggia e ho guardato il cielo. piove ancora. il mare mi sgomenta, prigione di melanconia e decadenze. vanitas vanitatum. miro soltanto a essere me, a irradiare me, a ricordare di me. piove ancora e c’è ancora quel cielo che la marea non avrebbe potuto strapparmi. che la marea non potrà strapparmi via.
ma lei che canta è muta, infanzia, lei che canta resta muta.
voi, disse, passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.
e quanta gente vedevo attorno a correre per dettagli. quanta gente correre. quanti dettagli.
per questo non ho mai detestato la gente, lo confesso, con un velo di compassione, ma ho sempre odiato i dettagli, le inezie inutili che ingarbugliano, la cucina, i condimenti, le raffinatezze vestiarie, le leggere sfumature inavvertibili, le risate del circo, le pieghe delle lenzuola, i galatei ingessati, le complicazioni che rubano vita agli attimi. tutto finirà, lele, mi diceva con quella dolcezza disperata, finirà.
io capii chiaramente il senso della fine e non guardai più la gente che correva, non vidi più dettagli che fossero interessanti quanto fissare la bellezza del cielo in lacrime. il cielo in lacrime.
ma lei che canta è muta, infanzia, lei che canta resta muta.
eppure proprio la tragedia più infernale viene trapassata da uno spiraglio d’umanità, così mi pare di leggere nel cielo.
così detto, rientrò in casa e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto.
pensavo allora, ma ora so bene di essere come tutti voi.
ma lei che canta è muta, infanzia, lei che canta resta muta.
il senso della fine.