pensieri durante la lettura in classe del XXXIV
capitolo de “I promessi sposi”
gli occhi non davano lacrime, ma portavano segno
d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di
profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo.
sono nato nostalgico, pensavo così. sono nato
con distacco nei confronti della vita.
forse non volevo neppure nascere, forse semplicemente
non ho mai scelto di vivere, io.
ciò che nasce muore, ciò che l’uomo insegue
svanirà, pensavo ai miei quattro anni, dopo le preghiere della sera di mia
madre, alla penombra della mia cameretta bianca e innocente. mio padre non era
ancora tornato a casa e io aspettavo invano la sua carezza. la tua carezza, papà.
sono nato storto, agitato nell’indole dalla
paura connaturata agli anziani, con la maledizione, o più ingenuamente la
consapevolezza, che ogni mio castello sarebbe stato spazzato dalla prossima
notte, dalla prossima marea. ogni mio castello sarà spazzato via.
la madre, dato a questa un bacio in fronte, la
mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, la stese sopra un panno bianco, e
disse l’ultime parole: addio, cecilia! riposa in pace! stasera verremo anche
noi, per restar sempre insieme.
allora mi sono fermato, mi sono sdraiato sulla
spiaggia, mi sono sdraiato sulla sabbia e ho gustato la pioggia e ho guardato
il cielo. piove ancora. il mare mi sgomenta, prigione di melanconia e decadenze. vanitas vanitatum. miro
soltanto a essere me, a irradiare me, a ricordare di me. piove ancora e c’è
ancora quel cielo che la marea non avrebbe potuto strapparmi. che la marea non
potrà strapparmi via.
ma lei che canta è muta, infanzia, lei che canta
resta muta.
voi, disse, passando di qui verso sera, salirete
a prendere anche me, e non me sola.
e quanta gente vedevo attorno a correre per
dettagli. quanta gente correre. quanti dettagli.
per questo non ho mai detestato la gente, lo
confesso, con un velo di compassione, ma ho sempre odiato i dettagli, le inezie
inutili che ingarbugliano, la cucina, i condimenti, le raffinatezze vestiarie,
le leggere sfumature inavvertibili, le risate del circo, le pieghe delle lenzuola, i galatei
ingessati, le complicazioni che rubano vita agli attimi. tutto finirà, lele, mi
diceva con quella dolcezza disperata, finirà.
io capii chiaramente il senso della fine e non
guardai più la gente che correva, non vidi più dettagli che fossero interessanti quanto fissare la bellezza del cielo in lacrime. il cielo in lacrime.
ma lei che canta è muta, infanzia, lei che canta
resta muta.
eppure proprio la tragedia più infernale viene
trapassata da uno spiraglio d’umanità, così mi pare di leggere nel cielo.
così detto, rientrò in casa e, un momento dopo, s’affacciò
alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi
segni della morte in volto.
pensavo allora, ma ora so bene di essere come
tutti voi.
ma lei che canta è muta, infanzia, lei che canta
resta muta.
il senso della fine.
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