domenica 27 maggio 2012

il senso della fine


pensieri durante la lettura in classe del XXXIV capitolo de “I promessi sposi”

gli occhi non davano lacrime, ma portavano segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo.
sono nato nostalgico, pensavo così. sono nato con distacco nei confronti della vita.
forse non volevo neppure nascere, forse semplicemente non ho mai scelto di vivere, io.
ciò che nasce muore, ciò che l’uomo insegue svanirà, pensavo ai miei quattro anni, dopo le preghiere della sera di mia madre, alla penombra della mia cameretta bianca e innocente. mio padre non era ancora tornato a casa e io aspettavo invano la sua carezza. la tua carezza, papà.
sono nato storto, agitato nell’indole dalla paura connaturata agli anziani, con la maledizione, o più ingenuamente la consapevolezza, che ogni mio castello sarebbe stato spazzato dalla prossima notte, dalla prossima marea. ogni mio castello sarà spazzato via.
la madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, la stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: addio, cecilia! riposa in pace! stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme.
allora mi sono fermato, mi sono sdraiato sulla spiaggia, mi sono sdraiato sulla sabbia e ho gustato la pioggia e ho guardato il cielo. piove ancora. il mare mi sgomenta, prigione di melanconia e decadenze. vanitas vanitatum. miro soltanto a essere me, a irradiare me, a ricordare di me. piove ancora e c’è ancora quel cielo che la marea non avrebbe potuto strapparmi. che la marea non potrà strapparmi via.
ma lei che canta è muta, infanzia, lei che canta resta muta.
voi, disse, passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.
e quanta gente vedevo attorno a correre per dettagli. quanta gente correre. quanti dettagli.
per questo non ho mai detestato la gente, lo confesso, con un velo di compassione, ma ho sempre odiato i dettagli, le inezie inutili che ingarbugliano, la cucina, i condimenti, le raffinatezze vestiarie, le leggere sfumature inavvertibili, le risate del circo, le pieghe delle lenzuola, i galatei ingessati, le complicazioni che rubano vita agli attimi. tutto finirà, lele, mi diceva con quella dolcezza disperata, finirà.
io capii chiaramente il senso della fine e non guardai più la gente che correva, non vidi più dettagli che fossero interessanti quanto fissare la bellezza del cielo in lacrime. il cielo in lacrime.
ma lei che canta è muta, infanzia, lei che canta resta muta.
eppure proprio la tragedia più infernale viene trapassata da uno spiraglio d’umanità, così mi pare di leggere nel cielo.
così detto, rientrò in casa e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto.
pensavo allora, ma ora so bene di essere come tutti voi.
ma lei che canta è muta, infanzia, lei che canta resta muta.
il senso della fine.







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