ormai tocco soltanto il cuore delle cose ho in mano il bandolo
è giorno a sinistra ma è notte buia a destra
i pedali della notte si muovono ininterrottamente
gli uccelli si annoieranno
il mio cuore è un cucù per Dio
siamo i sospiri della statua di vetro che si solleva sul gomito quando l'uomo dorme
ma i nomi degli amanti saranno dimenticati
è l'azzurro. non hai niente da temere dall'azzurro
è più facile sbarazzarsi di una macchia di grasso che di una foglia morta
e la fiamma corre sempre
noi rendiamo le luci felici
cuore sentenza arbitraria
m'ha dato un'occhiata d'intesa
andré breton ha detto passa
V. Kandinsky, "Linee traverse", 1923
scriveva V. Kandinsky ne "Lo spirituale nell'arte":
"ogni opera d'arte è figlia del suo tempo, e spesso è madre dei nostri sentimenti.
analogamente, ogni periodo culturale esprime una sua arte, che non si ripeterà mai più. lo sforzo di ridar vita a princìpi estetici del passato può creare al massimo delle opere d'arte che sembrano bambini nati morti, prive di anima, come le imitazioni delle scimmie. [...]
attualmente però lo spettatore è quasi sempre incapace di emozioni. l'opera d'arte viene osservata con sguardi freddi e indifferenti. i conoscitori ammirano la fattura (come si ammira un acrobata) e gustano la pittura (come si gusterebbe una focaccia). le anime affamate restano affamate.
questa è arte che non ha avvenire, che è solo figlia del suo tempo ma non diventerà mai madre del futuro, è un'arte sterile; l'altra arte possiede invece una stimolante forza profetica, capace di esercitare un'influenza ampia e profonda.
la vita spirituale, di cui l'arte è una componente fondamentale, è un movimento ascendente e progressivo, tanto complesso quanto chiaro e preciso. [...]
la parola è un suono interiore e l'artista ovunque sa vedere la vita interiore".
non aggiungo molto altro, non ne sarei capace, ma sottolineo come dunque lo spettatore di questo secolo non può più rimanere come elemento passivo dell'arte, ma ogni forma artistica dovrà divenire frutto dell'ispirazione dell'autore e re-ispirazione del lettore.
l'autore è ispirato nella creazione di un'opera, accostandosi alla quale il lettore dovrà dar vita a una nuova creazione, ri-creazione propria.
l'arte è così incrocio, dialogo, amore di due artisti, così finalmente lo spettatore si emanciperà divenendo protagonista attivo dell'evento artistico in atto.
per la ricerca di questa autenticità il mio linguaggio non sarà parlato, non sarà scrittura, ma sarà parlura, linguaggio interiore e intimo, parola sbrigliata e visiva, pensiero spontaneo e infantile.
non fatevi intimorire dalla lunghezza ma piuttosto datevi il tempo di lasciarvi trascinare dalla parola; aspettate almeno due minuti.
in questi versi ho voluto riprodurre il pensiero, questo pensare che non può essere inteso come un discorso intessuto ragionevolmente, ma è un fluire ininterrotto, un coro di voci di cui rimane solo il canto. perché l'illuminazione di un ordine cosmico s'infrange alle porte di un io scosso, forse l'io stesso viene meno, ma permane la sete di una voce, di un tu.
un grazie a quanti hanno collaborato: Anna Minotti, Alessandra Monti, Gisela Morante, Francesco Pini, Gianbattista Pini, Matteo Pini.
appoggiato a una panchina verde piazza vittoria i passanti baldanti o tardi e leggeri o lenti la freccia di qualche bicicletta il suo volo catrame che splende pure inespugnabilmente eburneo gli sguardi il roboare storno di vetture vrooom metalliche e tutto vrooom ha il suo tempo tutto vrooom combacia con armonia (squilla un messaggio) come una lira in mano a d-o vrooom mi ha sussurrato clemente d'alessandria con un cenno sottobanco IL METRONOMO E IL COSMO mentre qui (uozzàp) mormora questo mio canto santo affranto:
#
dis-moi quelque chose nous courions nous criions j'etait heureux ce moment je me rappele mais depuis
tutto quell'oro falso in grado di comprare un'intera vita
senza offrire un fiore
pareti bianche e pavimenti lucidi
i suoi lunghi ipnotici corridoi d'apnea
in cui ti ci specchi my curse my swan
non mi amavi neppure mi ricordi
ora καὶ πεσὼν ἐπὶ τὴν γῆν ἤκουσεν
φωνὴν λέγουσαν αὐτῷ dis-moi
quelque chose Σαοὺλ
Σαούλ (fosfolipidi in gran misura)
der stein der stern ist
sternschnuppe anima vagula
blandula in your dirty
hands DIS-MOI
DIS-MOI QUELQUE CHOSE la morte
del cigno questo canto
merdre!
der stern der stein ist
steinbild in loca
pallidula rigida nudula
pelle del leviatano stesa all'ombra [di sé]
ma parla ma grida nella tua furia:
non ferrate i piedi dei prigionieri non!
quelli di hollywood attendono la sera per incontrare le braccia glabre dei loro amanti fosse possibile per un uomo semplice solo
stringere i seni d'una dea bambina
poi spirando morire
fosse possibile!
s'il vous plait
the glass fallen from your big clumsy
hands il vino è a terra
היה הארץ יין
in nomine hominis amen
#
le rotte divengono linee a capofitto (il y aura toujours une pelle au vent dans les sables du reve) nella sera ascolto la nostra sesta tu non ci sei più e la lira scompare rimane un appartamento di memorie passano senza salutare (ci sarà sempre una pala al vento nelle sabbie del sogno) l'angoscia delle cose preme su un vaso di fiori sfiniti e i miei occhi inchiodati su un materasso troppo duro lo dicevi tu (il y aura toujours une pelle au vent dans les sables du reve) colleziono anime morte in cassetti scassati ne commercio con le mie valvole cardiache coi miei occhi di nicotina questa piazza è scomparsa (siempre existera una pala al viento en las arenas de lo sueno) tra le stelle marciapiedi hanno onde marine hanno dune forse non ci sono neppure più io ma incespica solo l'eco stonata stanca del mio canto
agli occhi dei ragazzi che mi chiedevano perché mai scrivessi poesia ("è insolito", aggiungevano) rispondevo che scrivevo per necessità.
ai signori dai sorrisi di sigaro che mi hanno spesso chiesto perché mai io abbia scritto poesie, queste poesie ("è inutile", aggiungevano), ho ripetuto spesso che ho scritto per autenticità, che vien naturale come mangiare, ammalarsi, dormire, baciare, lavarsi e tante altre cose.
a me che nella penombra notturna di questa sala sottofondo di archi stanchi mi chiedo perché sono ancora davanti a un verso zoppo e sgraziato (tale e quale a me), sono finalmente giunto alla risposta che si scrive per disperazione. nella policromia arcadica di un'ortensia non si trova contraddizione, e non vi è nulla di sconsolatamente afflitto, credetemi.
come ultimi vagiti di un bimbo che si crede padrone di un mondo invece ribelle, che vede la luna, la vede vicina, ma non può toccarla, non riesce.
disperazione per la bellezza persa e la bellezza d'un istante. un oggetto perduto, la nota piena di un violoncello, un attimo scosso da emozione, la guancia di una donna, una notte lucente e leggiadra, memorie di speranza o il miraggio, una fede: scrivendo mi avvinghio disperatamente all'onda che squaderna il cosmo proprio mentre questa già refluisce nell'oceano che non posso afferrare.
una voce dell'infante senza parola che riconduce all'origine e riconduce all'esito.
del resto, quando dell'acqua bollente vi cade sulla mano, voi gridate e, quando un fantasma vi appare all'incrocio delle vostre vie notturne, voi saltate in aria presi dal panico, poiché qualcosa di ostile si erge inatteso.la sofferenza è resistenza alla realtà.
ecco, ora lo dico e non mi taccio: odio le coppie al ristorante che restano tutto il pasto in silenzio e senza sguardi, spenti attori di una commedia interrotta, assuefatti a tagliare bocconi da masticare lenti e insipidi. odio e detesto, in parte anche abiuro. gridate, litigate, baciatevi, date testate al colonnato in marmo, costruite cattedrali o devastate intere nazioni, bevete sangue di bambini pallidi e innocenti, coccolate la pelle di leviatani, amputate le ali agli angeli, lasciatevi, ma non tacete come sassi di un'aia infangata! questo per me è l'orrore supremo, poiché è ammissibile estinguersi per ogni oscenità e sofferenza, ma di apatia e di asfissia no. dis-moi quelque chose. queste cene assassinano anche la mia gola, e so che le avete bene chiare in mente, queste dannate cene, perché così siamo spesso noi stessi.
la sofferenza in fondo è solo resistenza alla realtà circostante, lo scontro tra il mondo interiore e il fenomeno in cui il bambino, non ancora incelophanato nelle vacuità delle convenzioni, non ancora ancorato alla vita come una nave stanca, non ancora addomesticato alle opinioni altrui, GRIDA.
GRIDA, appena partorito, davanti al freddo pungente sulla sua pelle appena palpitante, GRIDA, a pieni polmoni, di fronte alla violenza di una luce a cui non sa come reagire, GRIDA confusamente stupito tra i rumori insondabili che lo travolgono, e questo GRIDO di disperazione è il suo primo verso, perfetto nella sua unicità architetturale, sino a divenire Omero, Virgilio, Saffo, a divenire Leopardi, Eliot, Dante, sino a me e te, in un desiderio di ritorno che è innanzitutto un desiderio di pienezza, bellezza, verità; un grido destinato a rimanere un tormento senza risposta.
credo che la poesia non sia altro che questo: reazione e disperazione viscerale, di pancia, in un amplesso di contenuto e forma. cosa è poesia? poesia è cosa, intensa e concreta. disperata.
dedicata alla mia cara amica Chiara Capuzzo, alla quale, tra chiacchiere e piadine a pranzo, ho sottratto un sogno, tanto da renderlo un mio incubo: lo possiamo chiamare "furto onirico"? un'epigrafe che, attraverso l'equilibrio stantìo dei versi, alessandrini regolari, vuole sprigionare l'allucinazione spiazzante di questa armonica disperazione. horror vacui compreso.
all'isola sola giunsi nel mattino
nuotando fino a diventare lacrima
negli oceani degli oceani incinta
il mausoleo era placato - zefiro -
e soleggiata mentrattorno la macchia
di lecci zufolava. sopiva il cielo.
all'isola sola m'alzai al vespro
ammirando il volo dell'ultimo stormo
migrava (quanto fresche le sue sorgenti
a mezzogiorno, no?, e fervide!) dispersa
un'imperatrice e il mausoleo pigola
senza occorrenza di santi d'eroi
d'apparenze: che sono formato (eco
risonava) di notte, lì mi accorsi
alla penombra, di vuoto [ t à n t a t à t a ]
io attesi l'intera settimana attesi
che qualcosa avvenisse qualcuno qua
inatteso venisse e non venne non
avvenne [tàntatàtatatàntatàta]
fui soffocato dal parto d'infinito senza naufragio e senza epifania
il paradosso di Olbers, enunciato dallo stesso nel 1826 e risolto dall'astronomo Hubble nel 1929, si interroga su come, essendoci costellazioni di luce infinite, possa essere possibile l'oscurità notturna.
la realtà che è un'assuefazione l'angolo di incidenza pari all'angolo di riflessione la cantilena che ci addestra alla terra: porto in cima al condominio bigio sei bottiglie d'acqua naturale e un fiore strappato rubato da quando il mondo è divenuto favola MA LA LUCE NON SI STANCA quanto la femme fatale è fatua fantasia dei timori virili dove vi è l'ombra dell'ombra [olbers: come è possibile che il cielo la notte buio nonostante l'infinità delle stelle qui nell'universo infinito nel tempo infinito?] 1929 MA LA LUCE NON ABITUA ACCECA LA LUCE e mentre (questo è il moto di rotazione e rivoluzione) gracchia la cornacchia e l'acqua si spoglia riflettendo i primi fari dalla vetta di questo quinto piano la notte sarà trascorsa sono passati sette treni per milano / ed io