giovedì 13 settembre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, XIII

Quest'estate le rose sono blu; il bosco è di vetro. La terra drappeggiata nel suo verde mi fa tanto poco effetto quanto un fantasma. Vivere e cessare di vivere sono delle soluzioni immaginarie. L'esistenza è altrove.

A. Breton, finale del I Manifesto del Surrealismo, 1924

R. Magritte, Georgette Magritte, 1937


XIII

c’è davvero un paese bello nella sua testa
lì dove la promessa del cielo lo tocca con la sua mano
nuda è la pelle del cielo e scorticata dai grappoli di pietre
i ripidi itinerari dei convogli di rovi
hanno limitato di aria i febbrili profili
e nella cisterna della sua memoria lo sciame dei popoli
maturati nei perfidi livellamenti
disgrega la schiuma senza fiato la ragione senza via d’uscita
il suo dannato capovolgimento si paralizza qui dove finisce la tua voluttà accresce il vuoto
si spacca lo sperone delle steppe squallide contro il percorso dei dolmen
ventilatore che raschia nel feretro di risonanza dell’abisso
abisso ebbro di profondità mugolanti
imbottito di fini scritture di vertigini disdegnose e d’alghe
i nostri sguardi che scivolano da perpendicolare a perpendicolare si dissolvono
disegnano degli occhi di petrolio sulla loro pozza
così ti fisso ai piedi della montagna
assisa come la notte è pronta a dilagare
e sui passi vuoti che affondano le tue andature
serpeggia la morte alito di riappacificazione

*

ma sulla passerella che tiene nel suo equilibrio
il piano della spiaggia e il ponte della nave
tu barcolli flusso del giorno
portando i piccoli miracoli di tutti i giorni
sul fiotto delle tue braccia e dietro te la notte piagnucola
con delle fiaccole e della selvaggina ella viene sparsa
sbottonata e gettando nei fossati e nelle miniere
dei grossi brandelli di grasso levante
e il vento si alza scansando la notte soffocante
come gridano soccorso gli occhi sbarrati
e braccia all’aria che battono i cenci dell’aria
e dilaniata dagli degli assalti di sciacallo nelle montagne
la notte si lascia cascare strato dopo strato densa
cataratta in gradinate d’asma che scende nelle arene
percossa sconfitta muta fino all’apertura dei cancelli dell’indomani

*

una curva gettata lontano trema nello sguardo
il volo temprato d’acciaio di un uccello obliquo
d’inverno è il suo gorgo di diamante il becco
mentre spara il suo stridore aspro sul vetro smerigliato
che sul vergine abisso ti serve un impenetrabile
pasto di lutto che giace in un fiocco scialbo di bruma

*

non senti tu il lungo graffio sul tuo petto teso
estensione del violino il passeggero umore
cucito nel precipizio il filo del torrente
capello perduto una lacrima una lama di coltello
ha fuggito il lamento ozioso del crinale di creta
che affiorando dai fondotinta scarta i petali
e sulle pianure pregne di paesane speranze
accumula dei biancori successivi di letto

*

le grotte si scavano nell’ammasso della tua età
da dove discendono da robuste stalactiti
e il freddo spegne l’aria brizzolata
simili alla follia i morsi calcarei che i sogni hanno ghiacciato
lungo le palpebre della terra aperta con le unghie
hanno tracciato nella tua vita le sanguinanti oscurità
di cui i sentieri viventi sono soli la mia luce
e lontano nella tempesta dell’essere s’accoccola l’infanzia delle passioni
carezzata in macerie di grida ardenti di terrori
alla radice del mondo nelle culle dei germogli
l’uomo nidifica i suoi significati e i suoi proverbi

*

intrecciati di ciglia i pozzi disarticolati sulle scogliere
ospitano il mattino spoglio di dubbio e di preghiera
solleva il coperchio della prigione delle voci
che anche alla deriva queste possano fiutare l’eloquenza degli scontri
e sbrogliare le convulsioni le capriole dei segni
s’impigliano ai promontori malvagie sopracciglia del mondo
che queste possano rivoltare la traiettoria dell’ordine
o abbeverare il cammino dei sorrisi lungo delle carovane
il sole che dimenticato sul quadrante delle vigne
fermenta il sale delle nostre strette rimette sulla via
l’affannata carne esitazione latente

*

vedi lo schieramento di cadaveri in me?
è il ponte dei dolori in ranghi coagulati di età
la morente oscillazione dei sentimenti che non s’illuminano più
allo sfregamento degli occhi contro la dura luce vedi?
nonostante l’argomentazione per gettare delle lettere di pioggia nella pattumiera
le piante rampicanti delle tue vene
lottano contro il peso della luce scoscesa
spasmodiche le loro dita cingono la mia testa e la notte
scioglie le leggi della giostra di spine
cervello di cui i canali all’alba approdano
al nodo del giorno e della notte quando si stringono le mani
alla fonte delle strade costeggiate da peli e da denti
il tempo corre per le vie lungo degli addii
mentre sullo schermo le giocolerie del demonio risalito
crepitano in fuggitive scintille intessute d’acqua
e nei cuori gli squilli delle fanfare robuste
portano gli anni alla conquista dei rancori
ora la cupola del silenzio affonda il suo berretto sulla città
un angelo non ha paura di restare sospeso in aria
dopo aver gettato la chiave dalla finestra
qual è questo sorriso perpetuo che ci osserva
e che le notti d’estate chiamiamo mistero
il segreto al tuo orecchio fa gemmare dei fiori dei frutti negli orecchini
l’alfabeto della tua collana di denti
sei così bella da non saperlo
al chiarore delle antiche colonnate chiavistello di rime
porta al cielo la sua lettera d’amore
senza trovarlo senza trovarlo
il treno lacera il paese

*

i panni avvolgono le piantagioni
i piani dispiegano le loro piume di pavone
sulla fronte delle aureole ma al riparo
il grande sarto taglia le praterie della terra
stese i rumori delle oasi seccano da un polo all’altro lobo auricolare
diffidando delle vette apoplettiche
il passero si stritola si precipita di crisi in crisi
verso gli schiumosi torrenti di criniere e di disagi
lassù i ghiacci spezzati sulla testa del paese
scampanellano dal cielo i gloriosi riflessi
montagne lisce e muscolose sulle quali le voci si impennano
montagne drappeggiate con fiori d’infinito
riccioli incastonati nelle glabre carni
perché le meteore si affrancano dalle virtù spettrali
corazze sgualcite nelle tasche oceano
montagne pettinate lacerate e fitti crepacci
il laccio dei fianchi in pendio serra il corsetto della valle
i clamori martellano le stive dell’essere
e sparsa di pietre preziose la lucertola sabbiosa trascina la sua traccia dal sentiero
dissoda il ghiaccio gremito di crostacei
percorsi dai falcetti cadono
dai getti di chiarore i bruschi colpi
nel tamburo dei giochi di massa

*

così s’ammucchia l’uomo mentre raccoglie le generazioni perdute
dai cesti di vendemmia
nella sacca della collina che da altri tormenti s’arrotoleranno davanti a loro
ciascuno la sua tormenta da un estremo all’altro stringendo le briglie dei cammini
spezzando le serre dove servono i nani
ciascuno la sua tormenta da un estremo all’altro canta
alle svolte pericolose
portando le madri e le piante in mano
che da altri tormenti s’arrotoleranno davanti a loro
sepolcri di vino che svoltano al suono dei rovesci la bufera
assordate le estati delle nostre coltri nel sangue
fino alla deflagrazione delle frontiere in solari brandelli di marea
le barche scricchiolano al richiamo sbracato dell’infido fondale
per il quale scivola fuggitivo un altro fondale che capitola di fondo in fondo
di trasparenza in trasparenza non ci sono che le sonde astrali che raccattano
dalle ore di vetro la celeste messe
ma l’uomo alle sue pene si affida
e nei granai della sua testa i sorci s’ingozzano d’infinito
uomo marcato da punteggiature funebri
spazzato all’interno dalle correnti di frenesia e d’aria
la civetta immobile sulla tua spalla
ti ficca nella testa la sua dura chiaroveggenza
la sterilità del castigo stabilito

*

magro pozzo mulino ruotato dall’asino funebre
il groviglio delle corone di lutti
le mani della scala mobile
riversano degli uomini che si appiattiscono e si precipitano in pile trasparenti
nello stretto senza fine e senza auspicio
l’uragano ha rimosso la sua lotteria dalla loro notte
ha rimosso le stelle dai loro occhi
e le campane della notte le ha rovesciate nel mare
e anche i mari le ha rovesciate
ecco quel che noi sappiamo dei mari rovesciati nel pozzo del cielo

*

nonostante l’alone cagliato della luce 
una tiara d’incenso sul capo del promontorio
si schiude dalle trecce saturnine
e ritto in piedi incandescente fiamma il tuo cuore nella mano
colto nelle urne traboccanti d’angosce
faro che ammicca del sole
il tuo occhio passato per tutti i buchi i cedimenti delle ore
profetizza la sorprendente chiarezza del cammino

*

che ci farà condurrà fuori dagli ingorghi delle cose e della carne
gli applausi del mare si schiantano contro di te
diga tragica e indolenzita sul primo gradino dell’anfiteatro
vecchia piega di pietra sulla fronte provata del mondo
i relitti e i rottami gettati nel mare
e quelli del mare nel mondo
crucciata ruga di terra congestionata
ormeggiata nella gola delle tenebre marine
aggrappata alla nerezza della poppa sfrontata dell’avvenire
mentre fa fronte alle grinfie mentre si schianta nelle onde ritta in piedi
solco immerso nell’inconcepibile imprecazione del tempo
fino al compimento dei secoli
fino allo sfinimento dei cicloni nei depositi elisei
povera piccola vita che perde terreno ogni giorno
inciampata caduta precipitata povera vita
povera vita incalzata dai presagi selvaggi calpestata
e nondimeno: mascella d’incrollabile eternità e insolenza
fortificata e merlata fino alla vetta di dio
che nessun occhio ha potuto scalare
nessuna guancia riscaldare d’umana tenerezza
ma per quale bene inerpicarsi in cima filtrarle nude
quando l’umana tenerezza non sa più riscaldare le mie allegrie
che importa l’amico il solo la notte la noia
io porto in me la mica di pane la morte l’amico
e il grado di freddo ogni giorno aumenta in me amico
diviene amico che importa l’abitudine
che importa l’amico il solo la notte la noia
un giorno un giorno un giorno metterò il manto dell’eterno calore su di me
seppellito dimenticato dagli altri a loro volta dimenticati dagli altri
se avessi potuto attendere il luminoso oblio


lunedì 10 settembre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, XII


"la poesia è una delle più grandi forze dell'umanità.
la poesia non si scrive, vive sul fondo del crogiuolo in cui ha origine ogni cristallizzazione umana, ogni condensazione sociale, per quanto semplice essa sia. è quella forza priva di metodo che assegna a ogni cosa il suo significato e che sgorga dalle profondità insondabili delle cause oscure e incontestabili. dalle sue possibilità è nata l'invenzione del mondo"

T. Tzara, Scoperta delle arti cosiddette primitive, 1929

S. Botticelli, Venere, particolare, 1485, Uffizi, Firenze

XII

il tempo lascia perdere i pollicini dietro di sé
falcia le fini molecole sulle praterie d’acqua
doma le sacche d’aria valica la loro giungla
mozza il verme dell’onda e da ogni metà s’irradia una farfalla
scantona nel vulcano lungo una nota di violino
accerchia il corso filante del vetro nelle fini ore di trasparenza
qui dove i nostri sonni spintonano l’alimento cantilenante di luce

*

il fiume che la montagna infilza all’oriente articolato di rischio e di perché
e carica di medaglie e d’olocausti lungo tutte le gardenie
s’è teso attorno al tuo polso strada abbottonata di limiti coi soli vicini ai campi
al di là delle rive l’arco distende il sorriso della vastità sino al ghigno del ghiacciaio
e la navetta del tessitore pizzicata da remi nell’ebrezza del millepiedi
valica i calvi ostacoli e gli occhi chiomati delle frecce che vedono
ma la saldatura in cima al lago si disfa
come ventate di nuvole si stagliano sull’acqua i sentimenti precisi dei corredini ricamati di biro
forse che io non sono frenesia l’elfo che s’affoga ingoiando delle grosse bocche d’aria per gioco
o il tremolo di fuoco che corre nello spazio che l’eco ha svuotato?
il vento fugge la girandola il vento sfoglia i paesaggi i passeggeri
e la volontà d’essere se stesso nidifica nel cavo dello sciabordio la sua lunga allocazione

*

le lampadine elettriche covano sotto la corazza di tartaruga i chicchi di sabbia e di bellezza
il crepuscolo toglie gli addii all’orizzonte lavato di freddo chiarore di stereoscopio
frustato dai bagliori navali fa il giro della prigione
e le sue cadute di luogo in luogo preparano l’elettrificazione degli occhi
adamo ed eva si nascondono nel bel mezzo del frutto spezzato
due torri fanno abbassare il cielo gemelle delle età sotterraneamente
al sapore dei metalli ingrossati le lenti delle stelle danno il seno all’imboccatura della grotta
alla roccia solidificata sull’attenti
cadendo nel lasciar andare dell’inverno che estrae le sue sciabole
nullità ed ebetismo mentre sgrana con mano robusta gli alberi nel precipizio
mentre proclama ai nuovi venti le partenze i tuffi rapaci del vuoto
nell’illusione delle bianchezze appesantite dal cloroformio
che la pelle del ghiaccio porta al mezzogiorno di sangue

*

adolescente attardato in una nuvola di angeli dissacrati
non temi tu la sorda rapidità del fiume
che trascinando le stazioni di ricche collane di gelide corone
e i giardini i ponti gli oggetti addormentati
porta il fango filiale in vetta ai destini
sbadigliando al tuo seno incatenato a pesanti leonesse –
tuttavia il ritmo dell’uomo consuma il segreto debito sull’unghia
sotto la sottana foglia morta che sbircia il debitore
l’uomo peregrina prigioniero nella doppiezza del suo animo
circondato da vapori d’angeli dissacrati
perché nel palmo del suo giorno di festa
hanno suonato l’ora invisibile dello spirito e le stigmate dell’infinito di voci
la serratura inganna i sensi
quando si risvegliano le cavallette di polvere che in ogni ferita mettono un cuore d’aracnide
e per le grinfie afferrano l’uomo alla ricerca di un grazie di terracotta o di sole

*

ma pesante delle migliaia d’ore alle quali gli anfratti della roccia fungono da incredibile oblio
ho alzato il mio silenzio fino alla dolcezza della morte
che la sua piena primaverile ci porti presto via
che il raccolto dei suoi sensi pervada i nidi di feltro
dove la canicola veglia intorpidita tra le ciglia di tabacco
che il suo soffio chiuda le porte alle civette
che una lama di notte bruchi il tacito pelo delle formiche
l’agnello si dissolve dal cielo germogliato dalle ortiche della grandine
e la rivolta raggiunge il culmine di splendori e di ali insanguinate
tra le debolezze dei naufraghi ancora a malapena in movimento
alcune vette smarrite sull’immensità dei fumi si disperdono
e mentre la rabbia urla al lutto della luna
e sparge le fetide oscurità nei vicoli vacillanti
che fuggono da ogni parte come i ruscelli di vino dal fusto della creazione
e che le case non si dispongono più in ranghi serrati di denti sentinelle
scontrandosi con le teste gli edifici che nessun diluvio poté dissolvere nell’acido
ora scricchiolano a pezzi sul lastrico con i resti di stampelle
e rodono la morte dalle pietre dure nella testa
gli scheletrici scricchiolii che aprono la tomba ai richiami striscianti
tagliando le arterie è il deragliamento delle tube che s’accumulano
e si radunano di fianco a noi

*

dio giustapposto a ogni allusione di gesto millimetrico
dio inserito tra le cellule non lasciatemi solo
come sono – piantato da solo al centro dell’incudine oraria
onde sono i tuoi richiami i dintorni che applaudono ma levigate
le tue mani nelle mie strette al volo delle crisi migratrici
e circolare vive la solitudine acquattata in fondo al crepaccio
rannicchiato in fondo a me stesso mi guardo assente e mi stupisco di potermi ancora agitare tanto
alla periferia della macchia sparsa sulla tovaglia terrestre
c’è ancora come me qualche goccia leggera d’animo rigettata dalla forza centrifuga
e qui dove lo stelo si drizza nel dente di pugnale
stagnano le anime appesantite che non vedono più

*

irta è la valle che ti ricongiunge dio di penombra
e supremi sono i pesi che gettasti tra noi
ma le tramontane che ci guidano e con le quali abbiamo limpidamente giocato d’astuzia
ci accompagnano più lontano
più lontano più lontano della portata del tuo sorriso confuso più lontano
più lontano del disprezzo in cui la tua carità si compiace a promettere il branco delle tenebre
più lontano delle lacrime qui dove le ricompense non sapranno distogliere il chiaro remo del nostro grido dalla corsa
e i sobbalzi d’errori e d’impurità che coltiviamo sulle fronti d’aurora
provocano con noi le fresche e vigorose penetrazioni
i tratti polari delle antenne
respingendo la carne putrida e terribilmente solcata di ignoto
si alzano fino alle lucidità ormai superate agli argini dei sogni
struggendosi di un’insonnia lesta di selvaggina e di brace
la trasfusione delle intruse dolcezze quelle dei confini delle vite e quelle in scompiglio frontiera dei morti

*

uomo dalle vele spiegate dal vento lanciato nell’imbarazzo degli agguati
l’occhio ferito delle rocce ti rimpiange amaramente di rimpiangere
bianca è l’inquietudine che la schiuma getta contro la pietra
ma l’autunno ha gemmato il sospiro delle lunge scie
e per sbuffi di scartoffie spoglia delle crisalidi le fluorescenti tettoie
non ci sono che le donne rastrellate di riviste che s’intestardiscono a rianimare i giochi della primavera
irrimediabile slancio gustato nella ghiaia di ogni fibra e di cui ogni fine è un’origine
per la via di quale invincibile folgore saprai tu un giorno perforare la dimora della conoscenza
e più lontano di dio piantare gli alberi delle bandiere e dei pugnali
condannato a sopravviverti doloroso accerchiamento d’universo
che straripa di forze isolate ma impotente spossato dalle urla delle lime
così poca cosa sei tu e limitato così poco per lo stridente desiderio
che le vergogne maturano nel tuo seno nelle vegetazioni senza numero
e tuttavia santa è l’insoddisfazione che ti cova indomabile andatura
germe dell’alluvione arrogante di tirannici numeri e voltafaccia