giovedì 5 luglio 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, VII

QUANDO. l'interrogativo che avvolge l'azione umana.
il tempo che passa e torna, ferma e scuote.

lampante giovinezza che moltiplica gli specchi
e culla delle eco le tardive prodezze
a ogni passo ritrovata e sempre più fuggitiva
e sempre ritrovata e sempre più cieca
simile a una pianta che ci divorerebbe senza saperlo
simile a un amore che ci divorerebbe senza saperlo
tra i ghiacci una gioia che zampillerebbe senza saperlo [...]
la corona dell’albero si vedrebbe nella foglia
e in ogni foglia ci sarebbe un’altra foglia
e in ogni foglia ci sarebbe il tronco dell’albero senza saperlo
in una lingua diversa da quella di cui siamo coperti

e alla fine che vivere rimane l'unica soluzione possibile

e tanto altro e tanto d’altri
che saprebbero leggerle e recitarle
che non hanno potuto morire né vivere

G. P. Gasparini, Twiggy


VII


quando l’erba rada gela a raso del bordo
e la notte si sgretola all’approdo delle coste
quando il faro si placa su dei capelli imbianchiti
mentre fa scuro nel pianto del bimbo che dimentica di piangere
che il nero devastato di sortilegi illividisce
quando incantatore di nero il poeta o il suo ridere
sull’ombra s’abbassò ridestando il ghiaccio
quando le credenze dai duri coloriti fanno precipitare le montagne
bruciate da terrori furie attraversano alla rinfusa contorsioni e cariatidi
e affondano nel’oltraggio delle moltitudini carnali – le loro carreggiate –
quando – gracile fanale sulla faccia tirannica dell’isola –
la sirena in fuga – bolgia senza spiaggia sostanza senza scrupolo –
estrae dai rintocchi a morto il fuoco perlaceo del piacere
e dal piacere l’insolente sofferenza – domatrice di perdoni –
quando il desiderio – fumosa disinvoltura – lecca i nastri del sole
scuote le serrature – strappa le assi dalla loro schiena –
fierezza cacciatrice – oscuro bavaglio –
fiuta le oscillazioni della disgrazia e l’aroma ardente delle loro selve –
quando barbara e impaurita - uscita da una notte esausta –
allarmando i miti che turano tutte le grida –
fastosa indolenza sul cammino delle ebrezze –
vieni a scaturire nella mano – stella delle zattere che cammina tra le sentinelle
che te stessa – spossata da visioni folte
ti rigiri in soccorso del tuo cuore in terra straniera
mentre visione su visione e ombra tagliata d’ombra
cancellando dalle prospettive il voto al quale il contraccolpo t’impegna
non arrivano più a seguire la spiaggia sotto i tuoi passi –
i pesanti battenti della tua giovinezza si aprono
un vento a perdita di giorni circola in te
le finestre aperte sul frontone delle cose
fanno correre gli antichi richiami attraverso di te
senza freno si sottomettono le affannate avidità
alle asprezze carnali delle insidie di licheni
le spalancate porte le finestre insanguinate e il tuo corpo
ai colpi alle burrasche venduto – su un vassoio di sole
offre alla più alta alla più crudele
il vibrante pudore dei giorni indecisi

*

furtivo invito ai pallori australi
sotto la tenda che tende in sordina
il verbo mortale che edificato da tante successive rinascite
si rode agli archi rampanti si deruba sotto i tuoi piedi la sorgente che canta l’allettante
ti domandi dove vai le pesanti eredità d’alberi le reliquie
e perché ti muovi sotto questa insegna
giardino invaso dai cattivi amori
i provocanti pallori che ci si ritrova fuori da se stesso
ciò che sei ciò che non sai
l’insetto che balbetta che cerca tra le linee
allora ti domandi allora tu te lo domandi
il fiore che balbetta che cerca di sapere
così gioca con me e bara un gran bambinone invisibile
e mi getta da un angolo all’altro nella cerchia dei miei giorni usati
che trascinano stracci di senso provvisorio
pallori solidi di sapere e di pozzi

*

l’oblio il sepolto l’introvabile credenza
sepolta nelle maree le lande i frutti
letto abbondante d’ermetici interrogativi
dove s’ingrossa taciturno la gemma di fulmine
il tremulo stendardo
quando l’occhio non sa più correre in soccorso
il passero matura davanti al percorso senza guida
sorto dai torrenti di demoni
quando la solitudine saturata d’occhi segreti
ne richiama alla vegetazione d’orgoglio
i battenti della tua giovinezza s’aprono
e l’amore volteggia attraverso il denso ritardo
invano le alabarde hanno scompigliato la calca delle brume
che la forza augusta vedeva – sibila sibila serpente –
gli arrivi massivi dardeggiavano su di te i loro messaggi di sole
dove così tanto affetto si mescolava che la luce
sembrava coronare l’incestuoso ricordo

*

orrore contraddittorio che agita la bilancia di montagne nella tua testa
riempi di disgusto l’immaginazione per la quale la certezza della sorte t’ha sottomesso –
giorno espugnato all’insicurezza – sfogliamento di visioni –
al culmine della tua vista ha posto la prigione stravolta
quella dove vanno a perdersi le profezie irrealizzabili
quella dove vanno a perdersi le menzogne di chiarore
quella dove lo spirito non sa più riconoscersi
tra i pesi e le misure i ragionamenti inesauribili
dove i pericoli si bisbigliano la strana solidarietà
indomabile che elude le tangenti dei crinali
catenaccio dei timori
insondabile vigilanza
gli arpioni segreti

*

perché mettermi in viaggio – il mio viaggio doloroso –
perché ruotare attorno a monte del vento beffardo
o vegliare le notti malate per il perdono dei letti di mare
e saccheggiare tutto l’oro delle feste – il setacciare al boccaporto del tuo cuore – mezzanotte di gas –
separare dalle ciglia marine i vecchi ciottoli un pianto che non saprebbe maturare
quando barcollanti su dei nuovi vigori di cielo ci sono delle parole volanti
che non hanno che un breve smarrimento e si spengono nella sottomissione
ci sono delle parole cadenti
che lasciano una traccia leggera traccia di maestà dietro al loro senso a malapena di senso
o mazzo di fasci che s’impigliano a ogni sguardo di faro
alla vetrata che s’accende ma che non perde né fuoco né furia
- e dalle stelle – ma abbiamo abbastanza vegliato pensando di sbirciarle
gironzolando attorno a delle briciole d’esilio le allodolole
che ne sappiamo noi – con questo duro bitume sulle onde mal stivate in testa
e le zoppe cadenze dei rimorsi che ci facciamo – che ne sappiamo noi –
dove quello finisce e per quella visionaria escursione conduciamo questo gioco ribelle
al limite delle nostre tenebre
fino alla selva oscura
fino al vaglio distante nascosto dietro l’esitazione
fino alle foglie secche che perdono le ragioni in viaggio
come un’offesa al termine della loro grazia
e le sagaci crudeltà i singhiozzi balbuzienti degli usignoli
e tanto altro e tanto d’altri
portati in groppa d’orizzonte
verso i sacrifici fulgidi di travaglio e di pascoli
la distensa s’indurisce sotto l’attenzione
e dal suo silenzio s’insinua l’intensa attesa
l’attesa a passi infeltriti che bruca nella nostra testa
senza respiro e senza scopo
afferra le schegge della liscia mantiglia delle dune
tra le più lunghe tra le dolorose
s’arrampica la sofferenza dei fantasmi artesiani
radiosi aliti sorti dai vocabolari lari
che il freddo visibili e nuovi

*

bambino ingiallito tra i fardelli di giovinezze
e giovinezze coperte di ragioni insabbiate
insaziabile bambino tra le reliquie
l’acqua fresca ha offuscato e i suoi occhi sono tutti morti
lampante giovinezza che moltiplica gli specchi
e culla delle eco le tardive prodezze
a ogni passo ritrovata e sempre più fuggitiva
e sempre ritrovata e sempre più cieca
simile a una pianta che ci divorerebbe senza saperlo
simile a un amore che ci divorerebbe senza saperlo
tra i ghiacci una gioia che zampillerebbe senza saperlo
simile al portamento di cui quella traccerebbe con una mano fine il contorno
la corona dell’albero si vedrebbe nella foglia
e in ogni foglia ci sarebbe un’altra foglia
e in ogni foglia ci sarebbe il tronco dell’albero senza saperlo
in una lingua diversa da quella di cui siamo coperti
vedi il pieno meriggio nel cuore del frutto morso
e simili agli steli vedi i rami tenersi e tendersi
attraverso le palpebre a malapena socchiuse
simili ai molteplici linguaggi
simili alle nervature ancorate nella foglia
e fino a dove non lo si può più vedere – simili –
fino alle sfumature delle infinite parentele
eco di forme parallele il sentiero delle voci si perde
con il tuo nel mare con i rumori che offusca la didascalia
all’occhio in attesa dei ribelli

*

l’albero vive in te e tu vivi alla sua ombra
dei cerchi concentrici sfuggono con il tempo
il cuore una pietra pesante che gli affogati si legano
ti tiene al fondo delle inesprimibili corrispondenze
a malapena muovendosi tra gli errori
i legami spessi – o lenti vogatori di fuliggine
entrate per la finestra – la notte vecchia di maschere
lascia tutte le notti entrare in me la sua lunga giovinezza
che non perderà più terreno su questo suolo nemico


*

ho preso il suo gusto un po’ salino
e ho perduto le sue vie segrete
l’amore spalancato come una tomba
tanti uomini pazienti lo portano in loro fino alla tomba
tante altre ombre
le piante tese e negli erbari tante altre vite troppo lunghe notti
fanno tintinnare le loro rime di delirio
e tanto altro e tanto d’altri
che saprebbero leggerle e recitarle
che non hanno potuto morire né vivere



lunedì 2 luglio 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, VI


Il canto del BIANCO: la forza, l'impetuosità della natura, l'autenticità, la libertà, il vuoto, la violenza.
fuori è bianco. come i denti che sbattono, come la biancheria lavata al fiume. 
fuori è bianco.
l'uomo ride davanti e dietro piange.
E poi il buio finale, che sembra spegnere tutto, tranne il ricordo.
Poiché in mezzo al buio noi non potevamo che sognare altro buio.
chi ci indicherà l'ora acre dove il timo sta morendo d'inganno
e fa fondere il suo colore nell'acqua tenere dei baci beffardi?
perso all'interno di se stesso qui dove nessuno si avventura salvo l'oblio.


Lisippo, Pugile a riposo


VI

anche sotto la scorza delle betulle la vita si perde in ipotesi sanguinanti
dove i picchi beccano degli astri e le volpi starnutiscono delle eco insulari
ma da quali profondità sorgono questi fiocchi d’anime dannate
che ubriacano gli stagni della loro calda pigrizia
forse che il cigno che gargarizza il suo bianco d’acqua
bianco è il riflesso di cui il vapore si prende gioco sul brivido dell’otaria
fuori è bianco
una spaccatura che canta di ali assorbe il mistral nella sua corolla di pavone
che l’arcobaleno schioda dalla croce del ricordo
sbattendo i denti del cielo battendo il bucato al fiume
turbinano i mulini bianchi
tra i fiocchi d’anima che gli oppiomani fumano all’ombra degli sparvieri

*

la bocca chiusa tra due notizie opposte si ghermisce
come il mondo imprevisto tra le sue mascelle
e il suono secco s’infrange contro il vetro
perché mai parola ha varcato la soglia dei corpi
morto è lo slancio che faceva bollire il maltempo
nei recipienti delle povere orribili teste nostre vicine
e nonostante il fango cittadino dei nostri sentimenti
fuori è bianco
che importa del disgusto poiché la nostra forza è più ininfiammabile che la morte
e il suo ardore non distruggerà né i nostri colori né i nostri amori
conchiglie e cocci stratificati in piani di proverbi
il senso è il solo fuoco invisibile che ci consuma
dall’origine della prima cifra
gli avicoltori parlano un linguaggio semplice
formato da un alfabeto di uccelli dal bianco di fuori
bianco è il dito che i pensatori hanno tanto sfregato contro le loro tempie
noi non siamo affatto dei pensatori
noi siamo fatti di specchi e di aria
e comunque insoddisfatti oscuri desolati impermeabili
i denti di sega che adornano la nostra fronte s’avvicinano alla morte
e balzano agli occhi da una cosa all’altra per tutta la lunghezza del dizionario
sbattendo i denti del cielo battendo il bucato al fiume
vomito dalle bianche creste la nebbia si coaugula tra noi
e forse che saremo presto imprigionati nella materia densa e melmosa?
forse che saremo presto assorbiti dallo spugnoso letargo del ferro
che supera della lunghezza di una dolorosa litania la birra e la menzogna
sorta da quale ghiacciaio pungente di cui il bianco di fuori gargarismo di nuvola
succhia dalle radici delle nostre iridi il miele dei secoli a venire?

*

appassita della sintesi l’indomita tonica
e fiorita nei ricci libera dalla pelle
alta in una corporatura di muro
frequenta la morte quotidiana la mia giornata è una fragile insonnia
ride davanti e dietro piange

*

le conchiglie e i cocci stratificati in piani di proverbi
si leggono dall’alto al basso attenzione fragile vetri
le risa rampicanti inseminano di tempesta le costellazioni di api
e le lumache annusano la maledetta zuffa degli acquazzoni
ride davanti e dietro piange
perché fuori è sempre bianco
e come la trota che si affanna contro la corrente che salta gli argini nel senso opposto delle cascate
tu risali la tua brizzolata giovinezza fin dove il sole ha deposto le sue uova
e se da ogni bagliore placido emerge un’agitata aureola di salvezze
non si sa quale alta marea di magie si lanci alla conquista di nuovi punti di ritorno
dunque forse che raccogli nelle reti d’ombra i rudi desideri che passano la loro vita a morire nel mezzo
e le morti permanenti che non arrivano a morire?
l’uomo munge l’eterna sottrazione di ogni pezzo in lui stesso
che gli resta a maturare del suo debito nero verso i duri soli
ride davanti e dietro piange

*

cavalcatrice di spasmi profondi è il cassetto d’antichità
che la pesca crepuscolare e la glaciale offerta hanno sorvegliato fino al riposo delle parole laggiù
edificio impasto urbano
sbattendo i denti del cielo battendo il bucato al fiume
un poco di latte un poco di zucchero un poco di
all’ombra dei fumanti spini sotto le arcate del tuo cuore
canta in vedetta un rosario d’occhi incerati
e senza gioia s’accende lo scarico libero nell’occhio del vulcano
dell’aereo l’annuvolata depressione d’aria libera
cavalcatrice di spasmi vento è il tuo pensiero fulmine la corsa
tempesta l’ossessione botanica il tuo letto
il mazzo di sentieri si alza e cammina in testa
e i lunghi pendii scivolano facili le processioni laggiù
è l’esodo delle foglie verso delle altre presso delle albe più grasse
così sfondo alla candela il tuo ricordo spaesato
la pioggia ha roso la malattia delle pietre gazze
cibo dei sorci le serpi si contendono la preda dei ripari
e la cenere dei cadaveri porta agli scricchiolii degli abissi incastrati l’uno nell’altro
all’ombra dei fumanti spini in vedetta la sua perfida inutilità

*

chi ci indicherà l’ora acre in cui il timo sta morendo di inganno
e fa fondere il suo colore nell’acqua tenera dei baci beffardi?
sull’albero i frutti terrazzano il loro balbettio visuale
fuori è bianco
bianco è anche il tuo sorriso insegna del tuo corpo più bianco che ogni esperienza
sbattendo i denti del cielo battendo il bucato al fiume
se mi fortifico alle sorgenti indicatrici delle libellule di ferro c’è che
e se mi smarrisco c’è che io
cavalcatrice di cascate il tempo ha corso i suoi rischi e i premi
fui più forte e il “c’era-una-volta” fu il mio compagno di marmo
i pugni degli alberi morti si alzano ancora
e contro l’autunno del firmamento s’abbandonano
è la mia speranza

*

ora immergo i tuoi occhi nel nero fitto della canzone di paglia
il vino sarà più vivo filtrato dai vespri delle tue pupille farfalla
ora sciolgo alla candela un ricordo spaesato
vagabondo con dei labirinti attaccati all’ombra dei miei passi
con dei pesanti pacchetti di labirinti sul dorso
perso all’interno di me stesso perso
qui dove nessuno s’avventura portato sulla lettiga delle ali d’oblio
e a dispetto dei razzi partiti all’interno del globo
gli armadi geologici sonnecchiano nelle fauci della montagna
di cui i corvi tormentano il silenzio indecifrabile
stringendo le loro larghe e dure spirali d’acciaio attorno al volo unico
perso all’interno di se stesso qui dove nessuno s’avventura salvo l’oblio