mercoledì 11 luglio 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, IX


il licantropo e il pastore immobile, che detta così sembra una favola dell'assurdo.
così la racconta Tristan Tzara: c'è l'uomo, un licantropo che nutre un lupo dentro di sé, e c'è un pastore, che non si muove e quasi non si vede eppure ha in mano il filo di ogni cosa.
il licantropo cerca il suo pastore e il pastore attende sul far della sera il licantropo, ma se questo incontro avverrà non è dato a saperlo, non a noi.
il pastore "si alza / emigra verso i celesti pascoli delle parole".


Caravaggio, Autoritratto


IX

il lupo impantanato nella barba della foresta
crespa e spezzata da scosse e fenditure
e tutto d’un colpo la libertà la sua gioia e la sua sofferenza
balza in lui un altro animale più docile accusa la sua violenza
si dibatte e sputa e si svincola
solitudine sola ricchezza che vi getta da un muro all’altro
nel tugurio d’ossa e di pelle che vi fu donato come corpo
nel grigio godimento delle facoltà animali fardelli di calore
libertà pesante torrente che tu possa elevare la mia carne il mio intralcio
la catena incarnita attorno alle mie piante vertiginose impetuose tensioni
avventure che vorrei gettare per pozze pacchi e pugni
contro la mia faccia infame timida di carne e di così poco sorriso
oh potenze che non ho intravisto che durante rare radure
e che conosco e presagisco nel tumultuoso scontro
freno di luce che va da un giorno all’altro lungo i meridiani
non mettere troppo spesso il tuo giogo attorno al mio collo
lascia zampillare la mia fuga dalla mia terrea e pallida creatura
lasciala trasalire al contatto dei terrori corporali
scappare dalle cavernose vene dai polmoni villosi
dai muscoli pressoché ammuffiti e dalle tenebre deliranti della memoria

*

su tutte le curve della terra ho pattinato con gratuita eleganza
premendo al mio petto il destino in monogramma
ho bevuto ho mangiato
i ricami del cielo si sgretolano piove a fasci di crisalidi sul convento
e le nuvole laggiù si coprono d’ali che covano
le uova mentre lanciano vagiti di mondi embionali –
quella brusca avversione scaccierà la neve in questa giornata
perché vedo che il piano mi testimonia chiarezza
le tue labbra mi sono rifugio sfolgorante quando il crepuscolo mette la sua firma
in basso al giorno la pagina che ha così tanto visto riso e sofferto

*

nella cassa di contrabbando porto la mia vita dal doppio fondo
verso il pericolo esplosivo di cui la previsione ferisce me
me mentre sgattaiolo tra i ranghi degli dèi e quelli della luce
colpendomi alle frontiere dei giorni inguantati di bianco

*

i treni si fermano sono il mare le pellicole del paesaggio si perdono nel mare
il natante semina nell’acqua il chicco del suo gesto
e il frutto del movimento già costeggia la latitudine e la lecca
scava l’onda riluttante
dalle sue estremità escono degli effluvi che spingono
la sua massa di carne che il sogno conduce
alla porta del sogno al filo della sua respirazione

*

sulla sponda i vestiti ammasso di sole in vacanza
solida schiuma tenuta dagli artigli di pietra
danzatori disarticolati che giocano alle vertebre incandescenti fiocchi di neve
occhi per le miniere profondi offuscati nel loro centro permeati
di sale paonazzo la ruggine incipria la pelliccia minerale del suo regno

*

e su conchiglie fragili i pescatori sfogliano i loro destini
in delle direzioni a ventaglio si sparpagliano i coriandoli migratori
colpiscono il mare con delle ali di farfalle gettate alla sorte
mentre degli uccelli affamati vanno alla deriva le raganelle allargano i loro compassi
se ne vanno così lontano dove ci si vede la rotondità della terra
la terrestre tristezza all’ombra delle montagne d’acqua e di cielo
la rete risale talvolta pesante di anelli e di razzi in movimento
e trascina delle famiglie di colori raccolti nell’insondabile capriola
ma nel lavoro tutto non è che pallido premio della fame della famiglia
le grida delle sirene mugghiano di vie lattee di vento nemico
degli uragani travolti nei cieli danzano ostinati
saltano e toccano il mare con le loro teste
svuotano le tasche del manto nuziale

*

teste di granito strappate sul biliardo il rollio e i giochi
relitti abbandonati alla dogana alle frontiere del destino sparso
bianche vele spiegate che implorano la pace al vuoto
vele bianche spiegate mani di vele riunite per la preghiera
la barca in ginocchio la testa abbassata geme si lamenta
ma se il cielo toglieva la maschera dai suoi occhi per vederle
degli spari di raggi di speranza rianimerebbero le febbrili prede
tanto teme l’uomo il volto del suo dio che sprovvisto d’orizzonti lui trema
tanto teme l’uomo il suo dio che al suo avvicinamento lui precipita s’annega
tanto teme l’uomo senza orizzonti la sua morte che sprovvisto di dio lui nasconde la sua tomba
tanto teme l’uomo

*

ma a che pro le larghe pozzanghere di lamenti paludosi
il sole non conosce che la sua grassa incandescenza
allegro di tutte le sue bocche d’oro di fiamme
si alza

*

e il lupo impantanato nelle vigne tortuose
ha trovato il suo pastore il pastore della divina costellazione
ha messo nelle sue mani fidate e callose
il suo vigore alla ricerca di inedite libertà
ha trovato il suo pastore l’immobile pastore
così grande che non ha bisogno di camminare colui che è dovunque
ha trovato il suo pastore il pastore che conduce tutte le greggi e tutti i pastori
nell’amore così grande che non ha bisogno di muoversi
tanto è dovunque per dove gli altri camminano senza ritrovare il bandolo della matassa
senza ritrovare il bandolo della matassa
il bandolo della matassa che presero in mano alla loro nascita
che lasciarono l’altro capo quando l’ora imperiosa
tagliò il bandolo della matassa delle mani tese e scarne
che degli altri ripresero ma che nessuno seppe custodire
fino al ritorno del principio per il quale sono venuti al mondo
il lupo ha deposto la sua fierezza e la sua sdegnosa furia inverminate negli anni
nelle mani fidate e solenni del pastore immobile
pastore delle onde che s’accavallano verso quel traguardo censore di drammi
pastore delle piogge che viaggiano di paese in paese
pastore delle tristezze irragionevoli che ci offuscano periodicamente
pastore che conduce i nostri destini in tanto imponente significato
che talvolta si rincontrano così spesso si strofinano
senza toccarsi e in delle curve folli e zigzag
si inseguono con degli insaziati magneti alle loro narici
parallelamente su alcuni sentieri pavimentati in spirali di differenti aperture
pastore delle nostre sfiducie nelle quali noi ci impantaniamo i cervelli lacerati
mani che sempre verso la morte dirigono l’ago della loro bussola
la scomoda esistenza che abbiamo preso in affitto
e nella quale tentiamo di adattarci
pastore di evocazioni guerriere in corsa le une verso le altre
pastore di umili esitazioni paesane
degli orizzonti torrenziali nelle timide abitazioni dei petti
pastore dei battelli degli uccelli degli ipocriti
e pastore anche di coloro che si amano che fanno lo scambio dei loro occhi
chiarori incommensurabili per sempre da dove nascono la vita e la deriva
ti vedo luminoso come la luce nel rumore delle capitali
nella foglia del roseto nel sapere del morente
nella mano che mi si tende nell’insetto gassoso
nell’acqua nel mio sogno fiorito di splendide futilità
ti vedo immobile e comunque in cammino attraverso tutte le cose
che strappi delle teste e che le rimpiazzi con delle altre teste di bestie
che dirigi la circolazione astronomica e quella dei venti e quella delle acque
e quella del sangue nelle sotterranee arterie e dei pesci
e l’incatenamento degli sguardi nonostante in ognuno di noi il nostro dilaniarci
le nostre miserie e le nostre fortune interiori si susseguano al gioco della borsa
di cui sorvegli le basse logiche e i misteri crudeli delle cadute

*

pastore dei lastricati che vanno in gregge in senso contrario
al passo della folla forbici in movimento costante
che taglia la distanza in misure di passi
immobile pastore nel nimbo di polvere aurifera
canta nei sipari piantato canta occhio gremito canta
pastore delle giornate che passano sfogliando il calendario dell’ombra decrescente
canta occhio gremito di mimosa alla finestra canta canta
il paese inarca le sopracciglia all’imboccatura delle frontiere montane
all’avvicinarsi del nemico di grandine di vermi di uragano di cavallette
pastore delle nevi perenni e più alto sul tuo divano di nuvola
ghiaccio che rompe una finestra sul cielo
canta inutile rimedio prendi il polso dei torrenti
febbre dell’anno canta medicina delle stagioni delle ragioni astrologiche
canta l’uomo spogliato dall’effervescente umiltà dell’uomo
i lanci di fiori zampillano dai laghi di luce
dalle nuvole di neve il sofà sull’orizzonte
prepara il riposo del dio che ruota inconsolabile intorno al suo asse
e le greggi dei nostri dolci sentimenti emigrano
verso i celesti pascoli della notte

*

il lupo impantanato nella barba della foresta
ha trovato il suo pastore l’immobile pastore
colui che conduce tutti gli occhi piantati alla vetta delle acropoli smosse dalla fede
il pastore degli incommensurabili chiarori da dove nascono la vita e la deriva
si alza
emigra verso i celesti pascoli delle parole


domenica 8 luglio 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, VIII


l'uomo è l'eterno ricordo di un bambino, che nasce, che non conosce, che si getta alla ricerca.
l'uomo ricorda e anzi non può dimenticare, perché quell'infanzia è un amore che non può conoscere fine.
l'uomo non scorda perché è destinato a ricordare, ricordare anche quando il fuoco si spegne e l'inverno gli offre la cecità. l'uomo ricorda, rannicchiato nella sua infanzia di luce. 

mi ricordo anche era una giornata più dolce di una donna
e come l’ora d’amore viene dal vento ritorna al vento
ogni crocicchio si ritrova in un’altra placida attesa
col vento che lo si canta lontano
sempre più lontana infanzia [...]
era una giornata più dolce di una donna che palpitava da un’estremità all’altra
ho visto il suo corpo e ho vissuto della sua luce
il suo corpo si dimenava in tutte le stanze
offrendo degli dèi inesauditi alle cieche adolescenze
dei mucchi di ragazzi mutati in cavallette su delle immense desolazioni di spiagge
le caviglie che stridono di una felicità selvaggia [...]
le potenti cadute degli uccelli di luce
sul mondo infiammato di giornate senza uscita
e poi non ho più visto nulla
qualcuno ha serrato rumorosamente la porta
- amica piangente in fondo alla stiva –
la notte s’è rannicchiata in me

G. Klimt, Le amiche, 1917, particolare, originale perduto nell'incendio del castello di Immendorf (1945)



VIII

mi ricordo di una disillusione sinuosa che estraeva dal passato la sua amara sostanza
che navigava senza chiarore non so dove
si vedeva talvolta aprirsi sulla fronte della canzone uno specchio come un’infanzia indolenzita
che sputava l’immagine per terra
e spezzava la fulgida giovinezza - delle tracce di sangue erano sparse da qualche parte
su dei lenzuoli insudiciati da dei crepuscoli attardati
dei versi febbrili sotto la brace
mi ricordo anche era una giornata più dolce di una donna
mi ricordo di te immagine di peccato
fragile solitudine volevi sconfiggere tutte le infanzie dei paesaggi
non c’eri che tu che mancavi all’appello stellato
mi ricordo di un orologio che tagliava delle teste per indicare le ore
quelle che attendono ai crocicchi i solitari
in ogni passante solitario si squarcia un giorno il crocicchio di un giorno
e come l’ora d’amore viene dal vento ritorna al vento
ogni crocicchio si ritrova in un’altra placida attesa
col vento che lo si canta lontano
sempre più lontana infanzia
dalla terra masticata con le ceneri nella serratura delle mandibole agricole
vorace porta al ridere adulto di ferro
mi ricordo della misteriosa furia che ti spingeva dopo il passaggio di una carovana
delle catene massicce si cullavano nere nelle teste
dei galli drizzavano un canto frugale in ogni paio di sguardi
e i venti asciugavano degli umidi musi i latrati ben freschi
andavano a divampare ben lontano dove non ce n’era più di memoria
divampavano con fracasso di fiamme senza baccano
mi ricordo di una serena giovinezza che radunava alla sua vetrina
i sospiri lucenti dello schianto sparsi
senza baccano ma imbottiti di fiamme
come li amo quando resuscitano metallici di lacrime
lo sai – nevosa adolescenza – ti ricordi tu
dei rischi piroettanti nello spruzzo nero di lacrime
tra le boe dei seni mozzati
volevamo bere tutto il sangue delle rocce purulenti di sole
che tentavano di afferrare le onde dalle fauci cocenti
il mare portava delle cicatrici ancora voluttuosamente calde
a ogni gemito vuotava il suo sacco di sonagli di tanto dolore
non sapendo più che fare ti ricordi tu del baccano che ci cingeva
del nostro abbraccio che faceva impallidire i nefasti auguri della fiamma?
e la chiusa del sole cedeva sotto il peso di tanto chiarore
un occhio d’uva che lo si schianta
era una giornata più dolce di una donna che palpitava da un’estremità all’altra
ho visto il suo corpo e ho vissuto della sua luce
il suo corpo si dimenava in tutte le stanze
offrendo degli dèi inesauditi alle cieche adolescenze
dei mucchi di ragazzi mutati in cavallette su delle immense desolazioni di spiagge
le caviglie che stridono di una felicità selvaggia
dei rami che ciarlano nei fragili ruscelli
ho visto il suo corpo steso da un’estremità all’altra
e mi sono immerso nella sua luce che penetrava da una stanza all’altra
l’albero dalle fruste che strisciava di magre scie d’oscurità
il corpo immensamente doloroso – era una giornata più dolce di una donna
ho visto sotto i letti
di pesanti masse d’ombre
pronte a rubare attorno a ladri addormentati
nel palmo morbido dei loro letti
ho visto appese alle orecchie le aureole
di pesanti masse custodi dai pugni neri
e che procedevano verso il centro scrittura senza tregua
la pioggia che infrangeva delle ali grigie e dei prismi
di brevi volontà fosforescenti perse tra gli scarabocchi del ridere
il loro trotto che risvegliava i campi chiusi dagli occhi
che senza rumore si stringeva sulla vite del bordo del pozzo
di rari ansimi d’erbe folli
e poi delle catacombe di uccelli gli uccelli
in fuga attraverso i tentacoli asserviti
i fratelli addomesticati nel ghiaccio
gli occhi di ceramica fissi ai recinti delle patrie
dove le si getta le terre in delle fosse di cadaveri e d’urina
più lontano ho visto le ciglia che si premono attorno a degli uccelli – corona polare
e le potenti cadute degli uccelli di luce
sul mondo infiammato di giornate senza uscita
e poi non ho più visto nulla
qualcuno ha serrato rumorosamente la porta
- amica piangente in fondo alla stiva –
la notte s’è rannicchiata in me

*

su delle veglie di ninfee a tastoni
nevica ormai dolcemente dai culmini della notte
colore di notte – custode di rune
che non c’erano che gli abissi percossi dall’impetuoso illividamento
l’occhio adorno di girandole sta discendendo dalla sua vetrina
con una lunga scia di sibili acuti
si credeva scivolare verso delle regioni severe di biancore
dove i ghiacci cosparsi di sospiri di uno stretto
verso altri mari rianimano l’inquieta crepa
che il mattino brusco apre nel cuore della stagione
il traino dei cani che si confeziona alla caccia
che macina dei cuori leggeri le capanne di neve
dagli occhi di perla nel fondo delle provette
d’aver troppo guaito nella pioggia dei naufragi
gioiosi attorno ai pendii
dove l’amore si dibatte in gabbia suda al focolare
e grida e geme come si consuma una tormenta nella camicia di forza
delle barche disarcionate su delle sabbie mute
una tosse senza eco che bussa alla porta
il vuoto dove sbadiglia il roco blu
soffiano le profondità gutturale d’onda –
lontano è tanto materno il rimprovero che cova il silenzio dentro il verme lucente –
immobile e luminoso da così immensa tensione
restare ritto tempesta a tribordo
la rabbia ha conquistato lo spazio turbolento
e il delirio flagella i fantasmi di latte
non ci sono più che fantocci che trascinano secondo gli obiettivi
la sanguinosa nenia delle agonie navali
le deludenti esperienze
spossate dissolute emanazioni di grida deformi di iene
mescolate alle frenesie dei miasmi di cervelli
alle speranze impazienti di liberarsi
era un mattino ruvido di scorza e di vuote corazze
nella crudeltà
se giovani erano le parole che il loro senso lasciava scivolare sulla pelle
e la ruvidezza tutto attorno non premeva il fogliame sonoro
del peso dei rimorsi
che il sangue incompreso rimuginava nell’immensa devastazione del mare

*

allora ho indietreggiato sotto i portici sprofondati nel silenzio
la luna s’è rannicchiata in me – e io ero la notte intera
dalle grinfie fastose di roccia pronte a dilaniare l’umano silenzio

*

le strade pesanti perdevano le loro ali
e l’uomo cresceva sotto l’ala del silenzio
uomo approssimativo come me come te e come gli altri silenzi