lunedì 2 luglio 2012

L. Aragon, "Tutto quello che non è io è incomprensibile"

Le avventure di Telemaco è una piccola opera giovanile di Louis Aragon apparsa nel 1922, un testo dunque giovanile, ma anche di giovinezza, in cui viene raccontato l'approdo di Telemaco, rinverdita copia di Ulisse, all'isola di Calipso alle tracce di un padre disperso e in cui viene celebrato l'intreccio di nuovi amori, Telemaco con la ninfa Eucharis e Mentore/Minerva con la stessa Calipso.

A. Canova, Ritorno di Telemaco a Itaca, 1791, Gallerie di Piazza della Scala, Milano
A una lettura più profonda si nota però come non sia solo una nuova narrazione del mito, poiché il linguaggio, che si mostra ancora impeccabilmente allineato la tradizione, si amalgama con una nuova anima, nuovi orizzonti. Sì, perché nel 1919 Tzara era sbarcato con tutta l'ondata distruttiva dadaista a Parigi e perché, anche se il gruppo surrealista non si era ancora formato, uno spirito inconsueto stava iniziando a circolare, a conquistare, a orientare il cuore artistico pulsante dell'Europa. 
In questo testo, in queste righe sta nascendo una nuova Letteratura, viva e viscerale, di cui possiamo scorgere dei piccoli straordinari abbagli, come questo:

Tout ce qui n'est pas moi est incompréhensible.
Que je l'aille chercher aux rivages du Pacifique ou que je le ramasse dans les contrées de mon existence, le coquillage que j'appliquerai à mon oreille retentira de la même voix que je prendrai pour celle de la mer et qui ne sera que le bruit de moi-même.
Tous les mots, si tout-à-coup je ne me contente plus de les garder dans ma main comme de jolis objets de nacre, tous les mots me permettront d'écouter l'océan, et dans leur miroir auditif je ne retrouverai que mon image.
Le langage quoiqu'il en paraisse se réduit au seul Je et si je répète un mot quelconque, celui-ci se dépouille de tout ce qui n'est pas moi jusqu'à devenir un bruit organique par lequel ma vie se manifeste.
Il n'y a que moi au monde et si j'ai de temps en temps la faiblesse de croire à l'existence d'une femme, il me suffit de me pencher sur son sein pour entendre le bruit de mon coeur et me reconnaître. Les sentiments ne sont que des langages pour faciliter l'exercice de quelques fonctions.
Je porte dans mon gousset gauche mon portrait très ressemblant : c'est une montre en acier bruni. Elle parle, elle marque le temps, et elle n'y comprend rien.
Tout ce qui est moi est incompréhensible.


Tutto quello che non è io è incomprensibile.
Sia che lo vada a cercare sulle rive del pacifico sia che lo raccolga nelle contrade della mia esistenza, la conchiglia che avvicinerò al mio orecchio risuonerà della stessa voce che prenderò per quella del mare e che non sarà se non il rumore di me stesso.
Tutte le parole, se a un tratto non mi accontento più di tenerle in mano come graziosi oggetti di madreperla, tutte le parole mi permetteranno di ascoltare l'oceano, e nel loro specchio uditivo non ritroverò se non la mia immagine.
Il linguaggio, qualunque cosa sembri, si riduce al solo Io e se ripeto una qualsiasi parola essa si spoglia di tutto quel che non è io fino a diventare un rumore organico attraverso cui si manifesta la mia vita.
Non ci sono che io al mondo e se ho ogni tanto la debolezza di credere all'esistenza di una donna mi basta chinarmi sul suo seno per udire il rumore del mio cuore e riconoscermi.
I sentimenti non sono che dei linguaggi per facilitare l'esercizio di alcune funzioni.
Porto nel taschino sinistro il mio ritratto molto somigliante: è un orologio d'acciaio brunito. Parla, segna il tempo e non ci capisce nulla.
Tutto quello che è io è incomprensibile.

(L. Aragon, Le avventure di Telemaco, cap. II, 1922 et Littérature, vol. XIII, 1920)

L'io e il mondo appaiono due specchi infranti di uno stesso mistero. Terribilmente sconfinato, incredibilmente intimo.




giovedì 28 giugno 2012

edvard munch, femme en pleures

un pesce asciutto
 un cielo vedovo di stelle
la morte di un padre
una statua senza volto
senza volto un oceano privo di onde
il ciliegio autunnale
un'aquila a terra
la birra analcolica
il faro buio dannazione buio
una parola spoglia di lettere nuda
di voce una melodia che nessuno canta
una donna sola.

E. Munch, Donna in lacrime, 1907, Munch museum



domenica 24 giugno 2012

foRoloGia


come giudici distratti distanti li additiamo
buchi nelle pareti
un sogno che qualcuno si è distratto dal fare
che poi crepa voragine spiffero rimaniamo
sulla calce d’un muro a prendere aria
magari materia mai c’incoronò a essere
materia ma sinceramente riconoscerete
che la comunicazione è l’estremo asilo
dei codardi e se il mondo fosse teatro d’idd-o
perché si bruciano i biondi arazzi in piazza
perché esistiamo in contromano? è certo che siamo
sulla terra ma dove sia questo no
ed è un’effimera fessura nell’elegia esiziale

mercoledì 20 giugno 2012

aneddoto minore

Un vecchio saggio viene interrogato sull’arco della propria esistenza fino ad oggi. Ed ecco come ne riassume le tre tappe:
< A vent’anni conoscevo solo una preghiera: 
"D-o, aiutami a cambiare questo mondo così insopportabile, così spietato". E per vent’anni mi sono battuto come una belva per constatare in fin dei conti che non era cambiato niente. 
A quarant’anni, conoscevo una sola preghiera: 
"D-o mio, aiutami a cambiare mia moglie, i miei parenti e i miei figli”! Per vent’anni ho lottato come una belva per constatare in fin dei conti che non era cambiato niente. 
Ora sono vecchio e conosco una sola preghiera: 
"D-o mio, aiutami a cambiare me stesso" ed ecco che il mondo cambia intorno a me! >.  


C. Singer, Del buon uso delle crisi, pp. 29-30



sabato 16 giugno 2012

z = q – h (cioè, precisamente, all’incirca, la produttività è ovviamente eguale alla quantità di merce prodotta meno le ore di lavoro svolte)


ti stringo come un'onda che mi travolge
e a tastoni per i tuoi fondali
una mandria di vacche nere nuotare
attraversa la prigionia marina la valica
e alla fine che ti amo te lo dico
neppure stavolta
troppo tardi, credimi,
così balleremo ebbri
in questo nostro buco di doccia
sconfinato quanto lo slancio d'un'altalena 
                                                        devastante e sciolto


marc chagall, les amoureux en gris, 1956-60, kunsthaus zurich
                                          

sabato 9 giugno 2012

quanto si può trovare scritto di un amore



ripropongo la poesia polifonica recitata nella serata del 21 ottobre 2011 presso la biblioteca F. Nietzsche di Lurate Caccivio (CO) da me, Valentina Rusconi ed Emanuele Parravicini. mi scuso per la bassa qualità audio e video, ma l'emozione di quella performance dal vivo è stata davvero irripetibile, cosicché spero che da qui se ne possa attingere anche solo qualche sprazzo, promettendo che che ne seguiranno di certo molte altre!


venerdì 1 giugno 2012

inappelLabile


certo che d-o esiste
irreperibile
tra gli spiragli della nostra polvere
c’è una stanza gialla luci colorate
intermittenza d’uditi qualcuno
gridò a gran voce è plausibile
tutto sfocia impertinentemente
impalpabile hai intenso l’irrequieta mistica del sipario?
la parola comunione è un cornicione impotente io
mi ascolto poco interessato così
saluto la gente che passa disinteressata
irreparabile
e d’equilibrio non mi si adagia l’assalto
al cielo come profetizza la perpetua
crisi motrice come tenta di sopprimermi
il paradosso di goebbels (che parla a parer mio
a sproposito d’un’arte amorale) vuote
senza te queste braccia s’agitano
dibattono dimenano sbattono
scrollano monche e dispercezioni di avere rassettato
il letto nel subbuglio della notte
e quest’io che è qui (è qui!) finalmente
godot s’accoccola labile sul pavimento infranto
nelle fogne della città terrestre certo che d-o
esista saldo e assiderato






domenica 27 maggio 2012

il senso della fine


pensieri durante la lettura in classe del XXXIV capitolo de “I promessi sposi”

gli occhi non davano lacrime, ma portavano segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo.
sono nato nostalgico, pensavo così. sono nato con distacco nei confronti della vita.
forse non volevo neppure nascere, forse semplicemente non ho mai scelto di vivere, io.
ciò che nasce muore, ciò che l’uomo insegue svanirà, pensavo ai miei quattro anni, dopo le preghiere della sera di mia madre, alla penombra della mia cameretta bianca e innocente. mio padre non era ancora tornato a casa e io aspettavo invano la sua carezza. la tua carezza, papà.
sono nato storto, agitato nell’indole dalla paura connaturata agli anziani, con la maledizione, o più ingenuamente la consapevolezza, che ogni mio castello sarebbe stato spazzato dalla prossima notte, dalla prossima marea. ogni mio castello sarà spazzato via.
la madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, la stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: addio, cecilia! riposa in pace! stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme.
allora mi sono fermato, mi sono sdraiato sulla spiaggia, mi sono sdraiato sulla sabbia e ho gustato la pioggia e ho guardato il cielo. piove ancora. il mare mi sgomenta, prigione di melanconia e decadenze. vanitas vanitatum. miro soltanto a essere me, a irradiare me, a ricordare di me. piove ancora e c’è ancora quel cielo che la marea non avrebbe potuto strapparmi. che la marea non potrà strapparmi via.
ma lei che canta è muta, infanzia, lei che canta resta muta.
voi, disse, passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.
e quanta gente vedevo attorno a correre per dettagli. quanta gente correre. quanti dettagli.
per questo non ho mai detestato la gente, lo confesso, con un velo di compassione, ma ho sempre odiato i dettagli, le inezie inutili che ingarbugliano, la cucina, i condimenti, le raffinatezze vestiarie, le leggere sfumature inavvertibili, le risate del circo, le pieghe delle lenzuola, i galatei ingessati, le complicazioni che rubano vita agli attimi. tutto finirà, lele, mi diceva con quella dolcezza disperata, finirà.
io capii chiaramente il senso della fine e non guardai più la gente che correva, non vidi più dettagli che fossero interessanti quanto fissare la bellezza del cielo in lacrime. il cielo in lacrime.
ma lei che canta è muta, infanzia, lei che canta resta muta.
eppure proprio la tragedia più infernale viene trapassata da uno spiraglio d’umanità, così mi pare di leggere nel cielo.
così detto, rientrò in casa e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto.
pensavo allora, ma ora so bene di essere come tutti voi.
ma lei che canta è muta, infanzia, lei che canta resta muta.
il senso della fine.







mercoledì 23 maggio 2012

ipnopedia









quel vestito blu
beige e due perle rosa
un rebus di due soluzioni opposte e ugualmente
necessarie salivo le scale d’un casolare in valtellina
non c’era corrimano non c’era vertigini
e salii poggiandomi seduto scalino
             dopo scalino                
                                       dopo scalino                
                                                                 dopo 
trovai una schiena in cui mi specchiai mi voltai
e vidi quel vestito blu
beige e due perle rosa
il tuo volto e questo tuo riso ero bimbo
e già forse cercavo la tua compagnia


mercoledì 16 maggio 2012

aPPunti di Poetica


(a quanti mi hanno chiesto, mi chiedono, mi chiederanno)

tizio amico fratello
padre,
mica io scrivo qualcosa di nuovo, neanche a pensarci, ma maiorum more (poiché da millenni non si fa altro che ripeticchiare a balbettii la lezione classica, è nitido) scrivo semplicemente me humani exempli gratia. spontaneamente e spensieratamente, proprio cioè senza pensieri e senza idee. j’écris parce que c’est naturel comme je pisse comme je suis malade
l’uomo non è un buon concetto, tuttavia arde e illumina meglio di qualunque astro nell’oscurità.

INTENSITA', che non è antitesi di delicatezza, affatto, poiché il contrario di intensità è debolezza, di delicatezza è superficialità. perciò ogni verso ESPLODE intenso e delicato. la grazia danza, sicuro!
la parola è una formula arcana del cosmo, incantesimo ancora sconosciuto come il furor ispirato d’orfeo.
trascurare la tensione razionalistica e pragmatica volta al crudo capire, poiché non è certo matematica la mia né esiste un'anima aritmetica. sennò, dico io, andate a farvi cruciverba col metronomo sulle tombe di wall street. 
la logica è una bugia, “la logica è una complicazione”.
abbandonare il vizioso e arrogante tentativo di afferrare ogni sfumatura come affannati cercatori di scheletri laccati d’oro. mi pare addirittura superfluo sciorinare poi come la grammatica sia a funzione dell’espressione e non viceversa.
percepire con ingenuità, gustando suono ritmo colore ricordo calore simpatia e qualsiasi fenomeno che faccia vibrare. l’amore per una donna non è certo solo un “ti amo” sbiascicato, vi pare?

CAOS, che è la prima divinità della religione classica. caos di cose di faccende di maschere di mitologie introspettive di modernità di spazi vuoti di nozioni di rumori di armonia, quasi a divenire riflesso della vorace contemporaneità senza nome e libertà di scelta attiva, spalancando porte a sconfinate interpretazioni, legittime quanto un matrimonio endogamo celebrato in piazza. tutte le strade portano a roma e da roma dunque partono strade per dovunquecreare il proprio sentiero che s'arrampica in questa foresta, senza nascondersi, divenendo a propria volta attore e demiurgo. 
i fantasmi colorati del sogno raccontano più verità di tutte le carte d’identità del mondo affastellate in falò fumanti. file intrafficate d'elefanti dorati in colonna per la carezza di un bambino nudo.
qui la poesia è come la si legge, ma a ogni cucchiaiata sbuca una figura nuova, a ogni sguardo un sapore differente. appuntarsi di disprezzare i floricidi.
un big bang in cui non è possibile non è plausibile e neppure garbato il raschiare via tutto, ma dove si anela all'ignoto che attende. ascendendo al di là di ogni mania di controllo, poiché la comprensione è evidentemente una forma di limitazione. the table is on the table.
il caos è indiscutibilmente ciò che genera mentre la razionalistica tendenza ordinatrice porta a una trasparente aridità del nulla. così mi figuro l'insaziabile felicità del paradiso certamente non come il placido tranquillo mortorio delle pie signorotte con rosario, quanto invece come una festa di quelle ebbre e squassanti, come ci ha illustrato senza dubbi L. Van Beethoven, Missa solemnis op. 123 et vitam venturi saeculi. INTENSITA’:

“la bellezza sarà convulsiva o non sarà”.
mi trovo assai antipatico e supponente, eppure mi va bene così, se mi permettete.