martedì 17 marzo 2020

Biondo come il Sole




per fortuna gli uomini possono sognare 
gli uomini possono sognare 
e l'uomo può ancora essere sognato. 
dalla biblioteca dei bimbi una banda 
a brandelli stona l'inno canadese esce 
travolge 
i non più verdi viali arteriosclerotizzati travolge 
e pure qualche audace viola si unì a cantare 
mentre il paese non più paese 
era ma mondo e i miei morti torneranno a salutarmi. 
pure i treni lunari pure sobri battelli pure 
voi e qualche sbandato sconosciuto 
a intonare la festa delle feste, quella 
senza nome illegittima sconclusionata quella 
allora vodka galleggerà nelle stelle 
e non dovrò chiamarti non dovrò rintracciare parole 
Amore non ci saranno pezze di voce: 
io penserò Te e Tu già avrai amato. 
il cemento si articola in scheletri fuggenti 
tra alberi amaranto poichè io seguo la banda 
strimpellante moderni ritornelli arcani, 
rovina del mondo, di questo, mentreppure 
creazioni di respiri prendono vita 
e il vento non ha smesso di soffiare non ha smesso
io non mi ubriaco non scappo non rubo: 
solamente dipingo prati in cui anch'io 
possa trovarmi e fiatare 
del vento che sono. 
e sarà. 

un uomo sognato da un uomo.

venerdì 6 marzo 2020

Ovuko


Ora che, dopo mesi e mesi, riascolto ancora la tua voce, pronuncio ancora senza risposta il tuo nome, che mi rimbomba nella testa, solo ora capisco che non potrò dire mai nulla di te, che non potrò mai raccontare abbastanza. Passano settimane, passano mesi e non riesco mai a trovare la parola, Ovuko.
Mai niente a nessuno.




Non basta scrivere che sei una bellissima bambina di 9 anni, dagli occhi sottili come un cerbiatto impaurito; non basterebbe neppure raccontare come ti ho conosciuto nella corsia dell’ospedale di Ariwara, distesa su un letto, quel letto subito a destra, vicino all'ingresso col materasso di gommapiuma blu, né di come ti circondavi di quella coperta della Turkey Airways che ti avevo lasciato, né come sei divenuta mia amica e sei restata mia sorella.
Mai niente a nessuno.


Quei piedi gonfi, quel petto sofferente, quel volto smagrito per un’insufficienza cardiaca che non potevamo accettare e che allo stesso modo non potemmo guarire.
Ovuko, ormai è da mesi che di te non parlo più a nessuno, non posso parlare più e mi limito a riascoltare il tuo canto alla sveglia, quel canto lugbara che ti insegnai per i lunghi pomeriggi di quelle sante settimane a te che lugbara non era e con cui comunicavamo a fatica, con un sorriso e due gesti di danza. Resto a ripetere quel canto, a rileggere quelle lettere che avevi abbozzato su un quaderno, a rimirare le tue espressioni. La cosa che ancora mi sorprende non è che un giorno senza alcun avviso te ne sia andata, quanto piuttosto come parte di me è tanto ancorata a te da non poterla mai più lasciare.
Eppure mai, niente, a nessuno.

Mi rimane la tua voce da riascoltare, ogni giorno, perché ho perso la mia, Ovuko, sorella mia.



IL CANTO DI OVUKO

una canzone muta sventola senza posa
sventola e tu la ascolti
mentre spolveri del fondotinta
mentre corri sulle chiacchiere dell’imbrunire
non stenderò nessuna nuova canzone: troppe melodie
hanno già danzato sino al declino
e io arrivo ormai a notte tarda
canuto i ballerini stanchi
canta tu, ragazza, per me
ma che le parole siano sangue
il cielo d’Ariwara incombe magnifico
e mosso i giardini di manghi non cadono mai spogli
e la sua sabbia non scivola più via dalla pelle
nulla muta sopra i monti
dove quella zebra cacciata
brancolava il bufalo ferito e
accasciato allontanato nei silenzi inerti
Ovuko accasciata che muore
bella come una ballerina in scena
bella nello stento del suo sorriso
su questo materasso lercio e sudicio
"adroni maa fera"
la tua voce splendeva gracile
"ayikosi" splendevi che parevi marte
avevi occhi sottili come marte rosso
ma ti gridava il cuore selvaggio
ti gonfiava ti batteva ti sbatteva
“insufficienza cardiaca” recitavamo nella nostra
preghiera sangue sulle mie mani
la sera senza pace la notte
tra le corsie di piscio e di sangue
e il tuo materasso rosso
così Beatrice conosceva il mio nome
come fosse un canto:
rideva
intrecciava dei passi di pavone blu
seguendo la mia marcia inquieta
non ho altro posto che il terreno
sopra cui inspiro respiro espiro
non vorrei altro posto che qui
dove Elindu Chrisostome
pallido ha fissato la morte
ormai vetro e io leggevo
la sua anima che respirava
poi spirava:
dissi amen. suo padre mi strinse
senza che nessuno di noi due
comprendesse bene.
non ho altra ricompensa che qui
accanto a te figlia
che figlia non sei
dal volto nero e il cuore gigante
"adroni maa fera"
era la nostra canzone
"adroni adhyeni fere si ku"
eri la tua poesia
dondolando il dito
e non avevi altro nome, Ovuko
se passava Obhede il nano
gli uomini ghignavano “Obhé,
piccolo!” con fare bestiale lui
passava il suo passo solenne e muto
“nano, te li rubano i bambini,
ti rubano gli abiti!” eppure
aveva centotrent’anni, tutti garantivano,
di più!, senza mai arrivare a casa:
passava, come volgo io verso una promessa
beibane vilewere “ci vediamo
dopo, Ovuko” e tossivo
senza che nessuno di noi due
comprendesse bene
le parole sono sangue
mama Cecilya intrecciava i tappeti nella tenebra
ma il cielo d’Ariwara incombe maestoso
ed ebbro i giardini di manghi non cadono mai brulli
e la sua sabbia non va più via dalla pelle. "ARIWARA
ERI MA ASI è il mio cuore
Ariwara". ci sono momenti in cui l’ombra
(lo noti un istante)
non è più. così
Osaru la pazza mi benedice gridando
“guarirai e diverrai noi” i seni
nudi come una verità d’uomo "kaso adri
were ati aferi ni ayikosi"
“anche se pare un grano sarà
gioia” cerco di decifrare
tra le cento voci chiassose del mercato
risuoneremo il colore di ogni cosmo
sosterrai la mia mano timida
e saprò fermarmi se ti affaticherai
anche il sole sa riposare tacendo
e cammineremo ancora assieme, figlia,
alla terra promessa di Lamila
io, te e le nostre lacrime nascoste
i nostri amici ci chiameranno
lo sai da lontano
con quel grido “brilla
una terra promessa qua”
sarà solo una corsa un abbraccio
e noi figlia ma madre sorella
alito di dio
che ora non canta più
ma sventola senza pace


"Adroni maa fera, Adroni adhieni pere si ku
kaso adri were ati aferi ni ayikosi"
dona al Signore, col Signore non essere egoista
anche se è poco ci sarà gioia

martedì 3 marzo 2020

Prometheus


è tornato il canto dei tordi
la gramigna riaffiora negli orti
ed è ancora viva
in questi giorni in queste notti
del febbraio spento

tempi di telemaco sul mare
dal colore benzina
e sangue tempi di una strofa gettata
quando la platea applaude di noia

non importa di ciò che resta
all’alba inizia e suona l’orchestra
a occhi socchiusi e incessantemente
a ritroso come le sabbie di una clessidra
ho riconosciuto questa belva affamata
ansimare s’aggira assiduamente

il pianto incessante dei salici
lunghi su un'isola di naufraghi
finiva la filastrocca
con l'errore sentimentale dell'esistere
è come dire che ho sempre disegnato case
senza tetto senza riparo

traffico intenso sulla tangenziale est
uscita segrate
senza più segreti
e marginale un bipede tecnomorfo
senza più ombra

non importa più di quel che resta
se qui resti a intendere l’orchestra.
il mio animo ancora batte, sbatte
e talvolta infiamma, senza più
piedi, edipo

in queste notti in questi giorni
è tornato il canto dei tordi
la gramigna riaffiora negli orti
ed è ancora vita
anche se sai
non più nostra

una stella come la mia pelle ancora si disseta
delle scogliere esitanti di Dieppe
non più scrivere non bisogna più scrivere
parole una gialla camicia a fiori
e una corona di carote

è tornato il canto dei tordi
la gramigna riaffiora negli orti
non importa più di quel che resta
la platea le promesse l’orchestra
ma un soffio ravviva i fuochi