sabato 7 dicembre 2019

profumo


e noi, che apprendiamo i colori attraverso l'intensità di un profumo, che riconosciamo la primavera da un canto serale e il crepuscolo autunnale da una foglia, come mai noi non afferriamo il volto di un'emozione con uno sguardo? perché non scorgiamo l'immensità di un'idea grazie a queste nostre mani?



mercoledì 20 novembre 2019

"come di neve in alpe sanza vento" (Dante, Inf. XIV, 30)

C. Monet, Effet de neige à Givergny, 1893

più passano gli inverni
e più siamo abbandonati
dalle nostre paure dalle nostre prigioni
torniamo leggeri
come la neve
e come il nostro passo 
un funambolo appassionato
sul sentiero smarrito

lunedì 4 novembre 2019

e riconobbi la mia ombra superarmi d'ombra

Mausoleo di Galla Placidia, dettaglio dei mosaici, Ravenna

aspettavo che i noci strepitassero.
ed entrai nel bosco.

gli antichi marinai si orientavano con le stelle ripeteva l'insegnante delle elementari mentre fissavamo le righe dei nostri quaderni sporchi di inchiostro. per queste macchie ho cominciato a detestare dentro quell'orientamento mancino.
così in principio era bello stendere i panni al vento lasciando che le sue lusinghe li sventolasse in cinquanta bandiere di cento nazioni dei nostri mille pianeti, poiché avevamo la presunzione di intuire che quella fosse la rotta. io poi non faccio testo perché darei la vita intera per riavere eternamente la mia infanzia. seguimmo dunque il sentiero e arrivammo, anzi no, allora continuammo e arrivammo, però non ancora, riprendemmo e arrivammo, ma non proprio alla meta. ancora un poco, sempre ancora quel poco che permette una sosta distratta, una breve ricreazione, ma senza poter parlar di pace e, fermandosi, di esclamare "ah, casa!".
l'interiezione, si dice, è una parte invariabile del discorso che non ha un significato in sé stessa ma esprime il sentimento, uno stato d'animo,"ah, casa!". e ci ritroviamo anziani, così ci chiamano i ragazzi, a dimenticare il giorno festoso del nostro fastoso matrimonio, ma ad amare quel bacio timido e nascosto che fu il nostro primo amore. "ah, ti amo!". l'errore sentimentale dell'esistere: tutto un romanzo racchiuso nell'interiezione.
una gialla camicia a fiori, una betulla davanti alla finestra, davanti al dolce davanzale di calcinaccio, finché un mattino mio zio mi dice "è arrivato il tempo che la tagliamo". così la betulla fu sfrondata, recisa, tranciata e per me, io che mica pensavo c'entrassi con quest'affare, fu inconcepibile vedere il prato lontano dal colore indistinguibile d'infinito. ora è tanto più inconcepibile che la segatura della betulla riaffiori ancora talvolta tra gli steli del prato. riaffiora tra i tanti fiori.
quando a volta capita di passeggiare nelle catacombe, passeggiando nell'oscurità, queste puzzano sempre un po' di pesce, poiché la legge è sempre stata solo una: i padri divorano i figli o i figli decapitano i padri, forse per seppellire il ventre di Crono o per placare le furie d'Oreste. 
ancora oggi, ora che le mie strade sono più lente e larghe, di notte sogno spesso, per compensare le giornate piane, e capita di incrociare per delle soleggiate spiagge sicule la maestra Lucia, nata sotto le ceneri dell'Etna, che mi consola ripetendo ancora una folle cantilena di tabelline, la santa della luce. quando ginnasiale ho accompagnato il mio professore per le strade deserte del medioevo non riconoscendomi mi ha chiesto chi fossi, prima di perdere ogni memoria, scivolandomi tra le dita sudate. i sogni sono al tempo stesso veri e oscuri, poiché nella loro umana oscurità risiede il vero, dunque non bisogna più scrivere segreti.
arrivai a otto anni pensando che il ciclista più forte dovesse essere sempre davanti e correre sempre più veloce, in ogni corsa, ad ogni tappa, sempre più forte e più veloce come una dittatura scientifica. non fu facile per mio padre, mentre sfilava per la provinciale il carosello delle maglie a tinte vivace, frenare il mio impeto inopportuno. analogamente conobbi tanti signori che preferivano soap opera e ne fui profondamente deluso: anche il cosiddetto benessere ha un peso insopportabile. così fu poi compito dei giorni mostrarmi gli eroi folli, gli eroi maledetti, gli eroi vinti nella polvere. Ettore, Villeneuve, Andrea Fortunato, Socrate, Adriano, ma mica l'imperatore, Lautréamont. è il segreto d'erba, che i ciechi riconoscono facilmente: piegarsi, senza muoversi, e poi rialzarsi al cielo. 
il fieno ingiallisce in un giorno estivo. una gialla camicia a fiori. io darei la vita intera per riavere eternamente la mia infanzia, che conteneva tutto, come un'interiezione, e il profumo di quella betulla. "c'è ancora guerra" dice il contabile, "che freddo stamattina" ripete quotidianamente il pendolare, ma perché di loro nessuno sa correre, correre in testa, senza spazio per le paure. c'è sempre guerra, qui e altrove, poiché dappertutto è primavera.

poche ore dopo, uscendo finalmente dal bosco, lontano come un sogno, lo strepito di noci, come un saluto attutito dall'intimità. riconobbi l'ombra che superava la mia ombra e riconobbi la mia ombra superarmi d'ombra.

Mausoleo di Galla Placidia, dettaglio dei mosaici, Ravenna

mercoledì 16 ottobre 2019

Nshuti Mababazi, Sikuta Tutambule


Nshuti Mababazi, Sikuta Tutambule, di Bobi Wine, in lingua luganda

"il mio cuore è spezzato / ma so che anche il tuo cuore è spezzato / ovunque sembra che le persone siano depresse / ciò che si aspettano è diverso da quello che vedono / e gli altri si stancano di loro / sono infastiditi che non si segnali nulla / e dove vorresti aver riferito / è anche difficile ottenere giustizia da lì / ti dico di non fermarti / quando cadi alzati subito e cammina / non c'è niente di facile al mondo / il viaggio è lungo / alziamoci e proseguiamo.
Alzati e andiamo avanti / la situazione è demoralizzante / ma non mollare, andiamo avanti / il viaggio è lungo / ma se persistiamo raggiungiamo la nostra destinazione / alziamoci e andiamo avanti / la situazione è demoralizzante / ma non mollare, andiamo avanti / non mollare, andiamo avanti / piangiamo mentre vai avanti"




domenica 13 ottobre 2019

Lautréamont, I Canti di Maldoror, II, 6


Un brano forse progettato a generare la reazione del lettore, a scuoterlo, per tornare a fargli sentire quel bambino indifeso, serrato in lui, e quell'immensa tensione al bene, sopita in lui. Così sin da ragazzino ho amato l'ingegno, la fantasia barocca, l'eleganza mai prevedibile del Comte de Lautréamont, Isidore Ducasse. Al giardino delle Tuileries.

Com'è carino quel bambino che se ne sta seduto su una panchina del giardino delle Tuileries! I suoi occhi arditi lanciano frecce a qualche oggetto invisibile, in lontananza, nello spazio. Non deve avere più di otto anni, eppure non si diverte come converrebbe. Dovrebbe almeno ridere e passeggiare con qualche compagno, invece di restare solo; ma non è nel suo carattere.

Com'è carino quel bambino che se ne sta seduto su una panchina del giardino delle Tuileries! Un uomo, mosso da un disegno segreto, si siede accanto a lui, sulla stessa panchina, con fare equivoco. Chi è? Non ho bisogno di dirvelo; lo riconoscerete dalla sua conversazione tortuosa. Ascoltiamoli, non disturbiamoli:
- A che pensavi, bambino?
- Pensavo al cielo.
- Non serve che tu pensi al cielo; è già abbastanza pensare alla terra. Sei dunque stanco di vivere, tu che sei appena nato?
- No, ma chiunque preferisce il cielo alla terra.
- Ebbene, non io. Poiché il cielo è stato fatto da Dio, come la terra, stai pur certo che vi incontrerai gli stessi mali di quaggiù. Dopo la morte non sarai ricompensato secondo i tuoi meriti; infatti, se su questa terra ti infliggono ingiustizie (come più tardi proverai, per esperienza), non c'è ragione perché nell'altra vita non te ne vengano inflitte ancora. Ciò che puoi fare di meglio è non pensare a Dio, e farti giustizia da te, dal momento che ti viene rifiutata. Se uno dei tuoi compagni ti offendesse, non saresti forse felice di ucciderlo?
- Ma è proibito!
- Non quanto credi. Si tratta soltanto di non farsi prendere. La giustizia stabilita dalle leggi non vale niente; conta soltanto la giurisprudenza dell'offeso. Se tu detestassi uno dei tuoi compagni, non ti renderebbe infelice l'idea di avere ad ogni istante il pensiero di lui davanti agli occhi?
- È vero.
- Ecco dunque un compagno che ti renderebbe infelice per tutta la vita; infatti, vedendo che il tuo odio è soltanto passivo, non la smetterebbe mai di provocarti e di farti impunemente del male. C'è dunque un solo mezzo per far cessare questa situazione; sbarazzarsi del proprio nemico. Ecco dove volevo arrivare, per farti capire su quali basi è fondata la società attuale. Ognuno deve farsi giustizia da sé, altrimenti è soltanto un imbecille. Colui che riporta la vittoria sui propri simili è il più astuto e il più forte. Non vorresti, un giorno, dominare i tuoi simili?
- Sì, sì.
- Allora devi essere il più forte e il più astuto. Sei ancora troppo giovane per essere il più forte; ma fin da oggi puoi usare l'astuzia, lo strumento più bello degli uomini di genio. Quando il pastore Davide colpì in fronte il gigante Golia con una pietra lanciata con la fionda, non è forse ammirevole notare che soltanto grazie all'astuzia Davide ha vinto il suo avversario, e che se, al contrario, si fossero affrontati in un corpo a corpo, il gigante l'avrebbe schiacciato come una mosca? Lo stesso vale per te. In una guerra aperta, mai potrai vincere gli uomini su cui sei ansioso di imporre la tua volontà; ma con l'astuzia potrai lottare da solo contro tutti. Desideri le ricchezze, i bei palazzi e la gloria? o mi hai ingannato quando mi hai dichiarato queste nobili pretese?
- No, no, non v'ingannavo. Ma è con altri mezzi che vorrei ottenere ciò che desidero.
- Allora non otterrai proprio niente. I mezzi, virtuosi e bonari non portano a nulla. Occorre impegnare leve più energiche e intrighi più sapienti. Prima che tu diventi celebre con la tua virtù e raggiunga il tuo scopo, altri cento avranno tutto il tempo di farti capriole sulla schiena e di terminare la carriera prima di te, e così non vi sarà più posto per le tue idee anguste. Occorre saper abbracciare con maggiore apertura l'orizzonte del tempo presente. Per esempio, hai mai sentito parlare della gloria immensa che procurano le vittorie? Eppure le vittorie non si compiono da sole. Occorre versare sangue, molto sangue, per generarle e deporle ai piedi dei conquistatori. Senza i cadaveri e le membra sparse che tu scorgi nella pianura dove saggiamente si è prodotta la carneficina, non ci sarebbero guerre, e senza guerre non vi sarebbero vittorie. Come vedi, quando si vuole diventare celebri, è necessario immergersi con grazia in fiumi di sangue alimentati dalla carne da cannone. Il fine giustifica i mezzi. La prima cosa, per diventare celebri, è avere denaro. Ora, poiché tu non ne hai, occorrerà assassinare per procurarsene; ma poiché non sei sufficientemente forte per maneggiare il pugnale, fatti ladro, nell'attesa che le tue membra si siano irrobustite. E affinché si irrobustiscano più in fretta, ti consiglio di fare ginnastica due volte al giorno, un'ora al mattino e un'ora la sera. In questo modo potrai tentare il delitto, con un certo successo, a partire dall'età di quindici anni, invece di aspettare fino a venti. L'amore della gloria giustifica tutto, e forse, più tardi, padrone dei tuoi simili, farai loro del bene quasi pari al male che avrai fatto loro all'inizio!
Maldoror si accorge che il sangue ribolle nella testa del suo giovane interlocutore; le sue narici sono dilatate, e le labbra emettono una leggera schiuma bianca. Gli tasta il polso; le pulsazioni sono velocissime. La febbre si è impadronita di quel corpo delicato. Teme le conseguenze delle proprie parole; si defila, lo sciagurato, contrariato per non essersi potuto intrattenere più a lungo con quel bambino. Se in età matura è tanto difficile dominare le passioni, in bilico tra il bene e il male, che cosa può mai accadere in una mente ancora piena d'inesperienza? e quanta energia relativa può occorrergli in più? Il bambino se la caverà con tre giorni di letto. Voglia il cielo che il contatto materno porti la pace in quel fiore sensibile, fragile involucro di un'anima bella!




venerdì 27 settembre 2019

Robert Desnos, "La libertà o l'amore!", stralcio

alla finestra di una casa sbatte una tenda dietro la quale due amanti si avvinghiano, su un letto banale, con braccia da annegati. due uomini si sono seduti sull'erba e bevono al collo una bottiglia di un vino rosso e generoso. tre mucche in un prato. il gallo della chiesa. un aereo. i papaveri.
ogni enigma ha venti soluzioni. le parole dicono indifferentemente il pro e il contro. non è lì che si può intravedere l'assoluto.
"così come nel 1789 fu rovesciata la monarchia assoluta, nel 1925 occorre abbattere la divinità assoluta. esiste qualcosa di più forte di Dio".
Giovanna d'Arcobaleno, sorella di Matilde, in marcia da anni, arriva davanti alla sfinge dei ghiacci con, sotto braccio, "Viaggio al centro della Terra".
la sfinge le chiede di risolvere l'enigma.
"cos'è che sale più in alto del sole e scende più in basso del fuoco, che è più liquido del vento e più duro del granito?".
senza riflettere, Giovanna d'Arcobaleno risponde:
- una bottiglia.
- e perché? domanda la sfinge.
- perché così voglio.
- va bene, puoi passare, Edipo idea di poi.
Giovanna d'Arcobaleno passa. un cacciatore di pelli le si fa vicino, carico di pelli di lontra. le domanda se conosce Matilde, ma lei non la conosce. il cacciatore le dà un piccione viaggiatore ed entrambi si avviano per cammini contraddittori.
perché l'amore rimase sempre un privilegio di pochi, disposti a correre ogni di tipo di avventura e a rischiare il poco di vita concessa ai comuni mortali nella speranza di incontrare alla fine l'avversario con cui poter camminare fianco a fianco, sempre sulla difensiva e, malgrado ciò, in totale abbandono.
silenzio! ella verrà con la sua sottoveste di sete, con il suo corpetto ciliegia, gli stivali fulvi e il trucco arancione, verrà così come io l'amo e partiremo liberamente all'avventura!
che sia benedetta questa prigione! come sarà lussuosa la catena che ci unirà! come sarà libera, questa prigione!

Alighiero Boetti, Niente da vedere, niente da nascondere, 1988

domenica 15 settembre 2019

bray



laggiù
uomini o sassi?
uomini:
si muovono

alla sera dei gabbiani
si posano
sull'acqua
il cielo chiude gli occhi
per un istante
ancora per un istante

i ciottoli cozzano
risa senza parole
la marea
muove le sue braccia
affaccendate

di tanto in tanto poi
quelle ombre
stese s'arrestano
un minuto lontano e quel minuto
si soffocano nelle grida

tutto tace

G. Braque, Port Miou, 1907, Milano, Museo del '900


venerdì 12 luglio 2019

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo


Oggi è uscito, inaspettato come un frutto e dopo molto lavoro come del buon vino, questo volume singolare, “L’Uomo Approssimativo” di Tristan Tzara, che ho avuto l’onore di attendere, di curare e tradurre. Incantevole come un fiore.
Ringrazio l’editore Massari per i rischi della proposta e Roberta De Francesco per il supporto, ma voglio dedicare questa fatica alla terra del Congo, sacra e sofferente, perché lì, grazie all’aiuto dei miei fratelli, lungo ore, notti, parole e silenzi, ho appreso e sviscerato il mistero di questi versi il cui suono sembrava assolutamente straniero.
Non è mera pubblicità, questa, non ho alcun profitto, ma è l’emozione di vedere per la prima volta in lingua italiana dopo quasi 80 anni uno dei testi più importanti del Surrealismo ortodosso e uno degli apici della Poesia del ‘900. Intimamente, per me, ancora molto di più.

“le strade pesanti perdevano le loro ali
e l’uomo cresceva sotto l’ala del silenzio
uomo approssimativo come me come te e come gli altri silenzi”

A presto, con altre novità!
Per chi fosse interessato, potete trovare il link nei commenti.

Je veux dédier ce livre et cet effort au pays du Congo, sacré et souffrant, car grâce à l'aide de mes frères j'ai appris et approfondi le mystère de ces vers dont le son semblait absolument étranger. Matondo, Bandeko, boye nalingi kobonza buku oyo na bino nzambi bino bolakisaki na ngai likundu o kati maloba oyo.

“les routes sourdes perdaient leurs ailes
et l’homme grandissait sous l’aile de silence
homme approximatif comme moi comme toi et comme les autres silences”


sabato 22 giugno 2019

la notte di Mamette


anche se essere definito "professore", pure con P maiuscola, mi fa sorridere a fiotti, ecco un incontro semplice, dai toni nuovi, ma di cuore, per un luogo che ci sta a cuore.

giovedì 13 giugno 2019

iside

e nessuno ti ascoltava
in attesa della sera
gracidava la rana tu raccoglievi
i capelli in un fiore
il silenzio delle acacie in lontananza
noi nudi nella nostra notte
"dammi del vino" dicevi ora
respira ancora il castano che accarezzavi
sfuggito agli inverni degli spiriti
tu m'ascoltavi? io
t'amavo e annegavo
noi nudi nella notte
curarsi del sacro curarsi
dell'umano le spiagge
le spiagge d'alabastro m'abbracciano
tra noi ancora un mare che nessuno
potrà solcare e un solo
interminabile naufragio
dove nessuno t'avrebbe udita
anima mia nuda
ascoltavi la solitudine di d-o




giovedì 30 maggio 2019

"Les cages sont toujours imaginaires" Max Ernst

l'arte è l'uomo che sogna se stesso e che, sognandosi, si crea, con un volto divino. 
è per questo che i sogni sono al tempo stesso veri e oscuri, poiché nella loro umana oscurità risiede il vero più sublime. 
è per questo che arte e sogno si pongono a fondamento del reale e il reale ne diviene solo pallida allegoria.

M. Ernst, "Les cages sont toujours imaginaires", Zurich Kunsthaus, 1925

mercoledì 22 maggio 2019

ieu sui Arnautz

io sono Arnaut che raccoglie il vento
e caccia la lepre col bue
e nuota contro marea

ieu sui Arnautz qu'amas l'aura
e chatz la lebre ab lo bou
e nadi contra suberna

Arnaut Daniel

M. Chagall, Promenade, 1917

lunedì 20 maggio 2019

la realtà è un sogno del sogno

mi chiedete che cosa faccio mentre dormo? e io ti chiedo che cosa fai quando sei sveglio. tu prendi l'io dei sogni, la totalità del tuo io passato e lo induci, con una contrazione progressiva, ad adattarsi al piccolo cerchio che tracci attorno alla tua azione presente. questo è ciò significa essere sveglio.

H. Bergson, L'énergie spirituelle, 1959

Antonello da Messina, San Girolamo nello studio, 1475 ca.

domenica 5 maggio 2019

Louis Aragon, Prefazione a una Mitologia Moderna



Sembra che ogni idea abbia passato oggi la propria fase critica. È comunemente accettato che un esame generale delle nozioni astratte dell’uomo abbia esaurito insensibilmente queste ultime, che la luce umana si sia sparsa ovunque e che nulla sia così sfuggito a questo processo universale, molto passibile di revisione. Vediamo dunque tutti i filosofi del mondo, prima di fronteggiare il minimo problema, ostinarsi all’esposizione e alla confutazione di tutto quello che hanno detto su questo i loro predecessori. E in tal modo non pensano nulla che non sia funzione di un errore precedente, che non si appoggi su questo, che non ne partecipi. Curioso metodo che cerca di negare in maniera singolare: sembra che abbia paura del genio, proprio là dove tuttavia nulla si richiederebbe se non il genio stesso, l’invenzione pura e la rivelazione. La carenza dei mezzi dialettici, la loro inefficacia nella strada di ogni certezza, in ogni istante sembra che questi che fecero del pensiero il loro dominio ne abbiano preso coscienza solo temporaneamente. Ma questa coscienza non li ha addestrati che a disputare riguardo ai mezzi dialettici e non sulla dialettica stessa, e ancor meno del suo oggetto, la verità. O se questa, per miracolo, li ha occupati, è perché questi la ritenevano come obiettivo e non in se stessa. L’obiettività della certezza, ecco di cosa si discuteva senza difficoltà: della realtà della certezza nessuno se n’era interessato.
I caratteri della certezza variano secondo i sistemi personali dei filosofi, dalla certezza comune allo scetticismo ideale di certi incerti. Ma se pure sia questa ridotta, per esempio alla coscienza dell’essere, la certezza si presenta a tutti i suoi osservatori con dei caratteri propri e definibili che permettono di distinguerla dall’errore. La certezza è realtà. Da questa credenza fondamentale passa il successo della famosa dottrina cartesiana dell’evidenza.
Non abbiamo ancora finito di scoprire le devastazioni di questa illusione. Sembra che nulla abbia mai costituito per il cammino dello spirito una pietra d’inciampo tanto difficile da evitare che questo sofisma dell’evidenza che lusingava una delle più comuni maniere di pensare degli uomini. La si ritrova alla base di ogni logica. In questa si risolve ogni prova che l’uomo si dà di una proposizione che enuncia. L’uomo finisce per appellarsi a quella. Appellandosi a quella, finisce. Ed è così che si è fatto una verità volubile, e sempre evidente, di cui si domanda inutilmente perché non arrivi mai ad accontentarsi.
Ora c’è un regno nero, e che gli occhi dell’uomo evitano, perché questo paesaggio non li lusinga affatto. Questa ombra, che sostiene di dover superare per descrivere la luce, è l’errore con i suoi caratteri sconosciuti, l’errore che, solo, potrebbe testimoniare, a colui che l’avrebbe considerato per se stesso, la realtà fuggevole. Ma chi non sente che il volto dell’errore e quello della verità non potrebbero avere dei tratti differenti? L’errore è accompagnato dalla certezza. L’errore si impone attraverso l’evidenza. E tutto quello che si dice della verità, lo si dica dell’errore: non si sbaglierà ulteriormente. Non ci sarebbero errori senza il sentimento stesso dell’evidenza. Senza di esso non ci si fermerebbe mai all’errore.

Io ero qui coi miei pensieri, quando, senza che nulla ne avesse rilevato l’avvicinamento, la primavera entrò improvvisamente nel mondo.
Era una sera, verso le 5, un sabato: di colpo, s’è fatto, ogni cosa si bagna in un’altra luce e tuttavia fa ancora molto freddo, non si potrebbe dire ciò che è appena successo. Resta sempre il fatto che il gomitolo dei pensieri non saprebbe restare lo stesso, ma seguono a precipizio una preoccupazione perentoria. Si è appena aperto il coperchio del vaso. Non sono più padrone di me stesso talmente sperimento la mia libertà. Non c’è bisogno di far nulla. Non farò più nulla al di là del suo inizio finché farà questo tempo da paradiso. Sono l’espansione dei miei sensi e del caso. Sono come un giocatore seduto alla roulette, non venite a dirgli di piazzare il suo denaro in prodotti petroliferi, vi riderebbe in faccia. Sono alla roulette del mio corpo e gioco sul rosso. Tutto mi distrae all’infinito, tranne la mia stessa distrazione. Un sentimento come di nobiltà mi spinge a preferire questo abbandono a tutto il resto e non saprei comprendere i rimproveri che mi fate. Al posto di occuparvi della condotta degli uomini, guardate piuttosto le donne che passano. Sono dei grandi frammenti di splendori, dei bagliori che non sono affatto ancora spogliati dalle loro pellicce, dai misteri brillanti e mobili. No io non vorrei morire senza averne avvicinata ciascuna, senza averla almeno toccata con la mano, averla sentita piegare, che rinunci sotto questa pressione a ogni resistenza, e poi vattene! Succede che si ritorna in sé tardi la notte, dopo aver incrociato non sono quante di queste scintille desiderabili, senza aver tentato di impossessarsi di una sola di queste vite incautamente lasciate alla mia portata. Allora spogliandomi mi domando con disprezzo cosa faccio al mondo. Questo è un modo di vivere, e non è necessario che io esca fuori per cercare la mia preda, per essere la preda di qualcuno nel fondo dell’ombra? I sensi hanno finalmente stabilito la loro egemonia sulla terra. Ormai che verrebbe a far qui la ragione? Ragione, ragione, o fantasma astratto della veglia, ti avevo già scacciato dai miei sogni, ma eccomi al punto dove questi stanno per confondersi con le realtà dell’apparenza. Non c’è più spazio qui che per me. Invano la ragione mi segnala la dittatura della sensualità. Invano mi mette in guardia contro l’errore, che ecco qui la Regina. Entrate, Signora, questo è il mio corpo, questo è il vostro trono. Lusingo il mio delirio come un bel cavallo. Falso dualismo dell’uomo, lasciami un poco sognare la tua menzogna.

F. Picabia, L'oeil cacodylate, 192

Così, per mille labirinti, mi sono abituato a pensare di non credere sicura oggi alcuna nozione che ho dell’universo senza averne fatto un esame astratto. Mi hanno trasmesso questo spirito d’analisi, questo spirito e questo bisogno. E come l’uomo che si leva dal sonno, ho bisogno di uno sforzo doloroso per sottrarmi da questa consuetudine mentale, per pensare in modo semplice, così come sembra naturale, secondo quel che vedo e quel che tocco. La conoscenza che viene dalla ragione può ciononostante per un istante opporsi alla conoscenza sensibile? Senza dubbio le persone rozze che non si rivolgono che a quest’ultima e disprezzano l’altra mi chiariscono il disprezzo dove è caduto poco a poco tutto quel che viene dai sensi. Ma quando i più sapienti degli uomini mi avranno insegnato che la luce è una vibrazione, che me ne avranno calcolato la lunghezza d’onda, qualunque sia il frutto dei loro lavori razionali, tuttavia non mi avranno reso conto di quel che mi importa della luce, di quel che i miei occhi m’insegnano un po’ di lei, di quel che mi rende differente dal cieco, e che è motivo di miracolo, niente affatto oggetto della ragione.
C’è più materialismo rozzo di quanto non si creda nello stolto razionalismo umano. Questa paura dell’errore, che nella fuga delle mie idee mi ricorda assolutamente, in ogni istante, questa mania di controllo, fa preferire all’uomo l’immaginazione della ragione all’immaginazione dei sensi. E tuttavia è sempre la sola immaginazione che agisce. Nulla può assicurarmi della realtà, nulla può assicurarmi che io la fondi su un delirio di interpretazione, né il rigore di una logica né l’intensità di una sensazione. Ma in questo ultimo caso l’uomo che è passato per diverse scuole secolari ha iniziato a dubitare di se stesso: per quale gioco di specchi fu al servizio dell’altro processo del pensiero, lo si immagini. Ed ecco l’uomo in preda alla matematica. È così che, per liberarsi dalla materia, è divenuto il prigioniero delle proprietà della materia.
In realtà comincio ad avvertire in me la consapevolezza che né i sensi né la ragione possano, se non per un trucco da prestigiatore, concepirsi separati gli uni dall’altra, che senza dubbio non esistono che funzionalmente. Il più grande trionfo, al di là delle scoperte, delle sorprese, delle improbabilità, la ragione lo trova nella conferma di un errore popolare. La sua più grande gloria è di dare un senso preciso a delle espressioni dell’istinto che i mezzi-sapienti disprezzerebbero. La luce non si comprende che attraverso l’ombra, e la verità presuppone l’errore. Sono questi opposti mescolati che popolano la nostra vita, che gli danno il sapore e l’ebrezza. Noi non esistiamo che in funzione di questo conflitto, nella zona dove si scontrano il bianco e il nero. E cosa m’importa del bianco o del nero? Loro sono del dominio della morte.

Non voglio più distogliermi dagli errori delle mie dita, dagli errori dei miei occhi. Ora so che questi non sono che delle trappole grossolane, ma di curiosi cammini verso un obiettivo che nulla può rivelarmi se non questi. A ogni errore dei sensi corrispondono dei misteriosi fiori della ragione. Ammirabili giardini delle convinzioni assurde, dei presentimenti, delle ossessioni e dei deliri. Qui prendono forma degli dèi sconosciuti e mutevoli. Contemplerei questi volti di piombo, queste cannabis dell’immaginazione. Quanto siete belle, colonne di fumo, nei vostri castelli di sabbia! Miti nuovi nascono sotto ciascuno dei nostri passi. Qui dove l’uomo ha vissuto comincia la leggenda, qui dove vive. Non voglio più occupare il mio pensiero che a queste metamorfosi disprezzate. Ogni giorno il sentimento moderno dell’esistenza muta. Una mitologia si intesse e si scioglie. È una scienza della vita che appartiene solamente che a quelli che non ne hanno affatto esperienza. È una scienza viva che si genera e si suicida. M’appartiene ancora, ho ormai ventisei anni, il partecipare a questo miracolo? Avrò a lungo il sentimento del meraviglioso quotidiano? Lo vedo che si perde in ogni uomo che procede nella propria vita come in un cammino sempre più lastricato, che prosegue nell’abitudine del mondo con una disinvoltura crescente, che si disfa progressivamente del gusto e della percezione dell’insolito. È questo che, disperatamente, non potrò mai sapere.


Tratto da Le paysan de Paris, Paris 1926


J. Kolar, Cappella Sistina, 1971





giovedì 25 aprile 2019

l'universo che si consuma

J.-L. David, La morte di Marat, Bruxelles, 1793 (particolare)

l'universo tronfio e illimitato di galassie la costellazione celata in cui sorge la vita un sole fulgido abbagliante sfolgorante la storia umana in un mondo disteso per terre oceani cieli una landa popolata da metropoli migliaia di miriadi di milioni di strade ognuna col suo romanzo privato una città di vie voci volti stranieri traffico d'asfalto un cortile infiorito di narcisi e noci
un grugno ingarbugliato
con un mozzico di sigaretta
che si consuma


J.-L. David, La morte di Marat, Bruxelles, 1793 (particolare)

giovedì 18 aprile 2019

era il buio

Giotto di Bondone, Compianto sul Cristo morto, Padova, Cappella degli Scrovegni, 1306 (particolare)

era il buio
a volte aspetto sotto un lampione
e fischietto mentre scordo
di aspettare e allora un riccio
un sorcio mi rotola sulla fronte
come una carezza che non conosce la mia clandestinità
"la lotta ha perso ogni sudore 
le parole hanno smarrito la loro lacrima e il dolore
il caro dolore finisce
quando scordiamo
la ferita"
io, dico, non sono mai morto
sino in fondo ad ora ed allora
ho ripreso a sterrare
decifro e definisco:
A. il vino ormai esausto in attesa sulla mensa E' grazia
B. lo scorcio avulso di un offeso NON E' grazia
IGITUR grazia è un'anima ferita di vento
una ferita che sfavilla di vino, sangue e vento
l'ho scoperto nascosto in un museo di storia naturale
che i mammiferi sono animali della notte
e nella notte l'uomo
ha almeno sette scelte che nella notte
s'oscurano
nella danza

Giotto di Bondone, Compianto sul Cristo morto, Padova, Cappella degli Scrovegni, 1306 (particolare)

venerdì 15 marzo 2019

ho portato un ombrello





ho portato l'ombrello
"non piove" mi dici
ma avevo paura
potesse piovere
poi
e ho portato l'ombrello
è scomodo pesante
ma sono stato dal parrucchiere
(vedi quel bel ciuffo barocco?)
non potevo
svincolarmi dal pensiero
della pioggia del parrucchiere
non posso essere libero
dalla paura
mi porto l'ombrello
pesante ingombrante
del poi (tu ridi)
e poi invece si spensero
le luci i fari i fanali
non pioveva mica
non pioverà neppure
e imparerò ad ammirare
le stelle (m'ami?)




domenica 24 febbraio 2019

la femme, citazione da A. Breton

la femme s'était levée comme se lève le sable fin sur les plages désertes
une femme qui sort d'un bain d'étoiles



la donna s'era alzata come si alza la sabbia fine sulle spiagge deserte
una donna che esce da un bagno di stelle

(A. Breton, Le poisson soluble)

venerdì 8 febbraio 2019

"non mi lamento" P. Sotirios


non mi lamento.
mi è andata bene
nella vita: sono riuscito
ad acquistare un attico.
finalmente posso piangere
con vista sul Partenone

Pastakas Sotirios

E. Hopper, Nottambuli, 1942 


domenica 6 gennaio 2019

un foglio


mi avete chiesto che ho visto in questi giorni a Bruxelles. confesso che non vi ho mai detto la verità.

sì, palazzi regali, vie festose, capolavori di Rubens o David da pelle d’oca, i sapori unici di Matonge, certo, veramente bello. poi sono passato anche a Tervuren, dove è allestito il più grande museo al mondo dedicato all’Africa Centrale, corridoi e corridoi di vetrine colme di maschere. qui sono conservate statue nkisi, feticci kongo che racchiudono poteri spirituali, e copricapi dei bwami, autorità sacre degli hutu, ho visto antichi katatora dei baluba, oggetti raffinati con funzione di oracolo, e l’elegante arte decorativa bwiin dei kuba;  ci sono anche manufatti di mukanda, una ricca iniziazione pedagogica che partiva dalla rappresentazione teatrale: insomma, tutte straordinarie pratiche sociali, culturali, religiose ormai abbandonate e lontane, perse.  



ecco però che poi ho visto questo foglio: è un contratto stipulato nel 1885, dove Kassabala dichiara di sottomettersi al capo della stazione di Mpala, gli offre un tributo e terreni in cambio della protezione di questo. è solo uno dei tanti trattati che fu fatto firmare a più di quattrocento capi villaggio nonostante non solo non sapessero scrivere ma non conoscessero nemmeno il concetto di alcuni termini usati come “sovranità” o “esclusività”. con quella semplice crocetta magari era stato promesso loro che avrebbero consolidato rapporti di amicizia con il re Leopoldo II, mentre in realtà rinunciavano alle loro terre, a tutte le loro terre e a ogni diritto su queste, consegnandoli a questi stranieri che venivano con il winchester in mano e che uccidevano colla forza del tuono. quel giorno sono iniziati a scomparire i mukanda, l’arte bwiin, i katatora dei baluba, le statue nkisi e anche le danze lugbara.

a Bruxelles ho visto questo foglio e non riesco a scordarlo poiché, vi confesso, istintivamente ho provato imbarazzo per la mia pelle, bianca e pallida. quelle centinaia di culture annientate per una civiltà che forse tanto più “civile” non era, mani moncate per i lavoratori di caucciù, milioni di morti. 
mi scuserete,  lo dice uno che danza canti lugbara e intanto fischietta Beethoven, che mangia chikwangue con pondu mentre con l’altra mano studia Dante, ma questa è la verità intima che non sono mai riuscito confessarvi: provo vergogna


non è neppure la prima volta. qualcuno giustamente penserà che il peso del passato non può schiacciare i figli, ma poi penso a Ovuko, a Odrele, a quei bambini cui davo la mano cantando e che non ci sono più, penso al viavai ininterrotto dei tir stracarichi dalle miniere, alle mamme distrutte al mercato per 10 centesimi. penso al Congo in cui è stata staccata ogni connessione da ormai una settimana perché il regime non accetta i risultati di queste maledette elezioni, ai molti amici là che ho perso in questo silenzio e penso a tante altre realtà che conoscete bene anche voi, realtà che non sono oltre al Mare Nostrum del Mediterraneo. penso a questi volti e provo vergogna. 

“è così che va il mondo”? no, così l’abbiamo fatto noi, questo mondo, e chissà se fra qualche secolo anche noi saremo giudicati come questo foglio, crudele e vigliacco. 

sabato 5 gennaio 2019

tristan tzara, un pas en avant



un passo avanti
le labbra di pioggia
un passo avanti questa è una ninnananna per bambini in pelle ermeticamente otturati
una via in meno

un passo indietro
il dolore del prossimo
un passo indietro
dire quel che passa per la testa a patto che non lo sia invano

dire non importa cosa
senza disserrare le labbra
ci sono già state le labbra di pioggia
e siamo restati qui
non sarà per sempre così lo vedrà bene chi vedrà la fine
a patto che nessuno senta

il vento li asciuga
prima dopo
non importa come 



un pas en avant
les lèvres de pluie
un pas en avant ceci est une berceuse pour les enfants de cuir hermétiquement bouchés
une rue de moins

un pas en arrière
la douleur du prochain
un pas- en arrière
dire ce qui se passe par la tête pourvu que ce ne soit en vain

dire n’importe quoi
sans desserrer les lèvres
il y a déjà eu les lèvres de pluie
et nous en sommes restés là
ce ne sera pas pour toujours le verra bien qui verra la fin
pourvu que personne n’entende

le vent les essuie
avant après
n’importe comment

Tristan Tzara, Un pas en avant, "Grains et issues", 1935