lunedì 28 agosto 2017

se dovessi raccontare una sola storia...




quando qualcuno ti chiede di raccontare è il momento più difficile.
è difficile non perché manchino le parole, tutt’altro, ma perché se ne avrebbero così in abbondanza che sarebbero tutte parimenti inefficaci, inutili. 
è difficile perché nell’esatto momento del racconto, si sente la grandezza di quanto manca, si sente il vuoto.
è ancora più arduo quando qualcuno ti chiede di raccontare una sola storia, un dettaglio solo, il più significativo tra migliaia di volti, di avventure, di emozioni: arduo come riassumere un poema omerico in un verso, un’intera vita in una foto.
nella vita tuttavia bisogna fare delle scelte e io voglio parlare di Anuarite, consapevole che mi sembrerà di trascurare le peripezie di Jean Claude, l’amicizia di Sylvie e Suza, la piccola Gloire, che se ne è andata dopo giorni stringendo tra le mani una caramella, i giorni di gioia con canti e danze, la saggezza di mama Pascaline, il nome e il volto di Odrele. nonostante mi sembrerà di trascurarli per un attimo li ho tutti fissi e ardenti in me, nei miei occhi.
non dimentico come, senza scrittori o libri, passeggiare tra i villaggi con Justin, lipasa na ngai ("gemello mio"), potesse raccogliere e tutta la poesia e la filosofia del mondo. tutta la poesia e la filosofia del mondo.
ma bisogna fare delle scelte e io ho voglio parlare di Anuarite, poiché Anuarite è la mia Bibbia.


Anuarite ha circa 4 anni, credo, ed è di Maratsà, un centro di una decina di capanne nel nulla, distante una ventina di km da Ariwara.
pelle scura come la notte, occhi leggermente affusolati, denti sottili, vestita sempre di un pany giallo e rosso, liso e sporco di fango e polvere. non parla se non il dialetto della sua tribù, non sa leggere e forse non imparerà mai.
una bambina come milioni di altre, senza nient’altro di apparentemente speciale da segnalare, e infatti non mi ricordo neanche quando l’ho vista la prima volta, in un giorno assolato di marzo, ma so che da quando l’ho incontrata è stata un dono ineguagliabile, per sempre.
occhi fissi.
sorriso incessante.
bontà sfrontata senza paura.
stava così per ore, per mattinate, per giornate intere a fissarmi e sorridere alla porta dell’amministrazione mentre io, indaffarato, correvo da una parte all’altra dell’ospedale, lavoravo al pc, discutevo con infermieri e dottori, parlavo con degenti, mi arrovellavo con alti funzionari. mi fissava, sorrideva: aspettava pazientemente il mio saluto e dopo il mio saluto sorrideva ancora, più luminosa.
appena mi liberavo, passavo da lei, cercavo col mio lugbarati di scambiare qualche chiacchiera, qualche risata e solo ora capisco che il mio non era il tentativo “alla rinfusa” di conquistare la sua amicizia, ma di ricambiarla per la gioia che mi dava, con quella inspiegabile abilità di farmi sentire unico, capace di bellezza.
stavamo a volte interi pomeriggi così, in compagnia di tanta altra gente, bambini e mamme, nei corridoi e nei cortili dell’ospedale, spesso alla capanna degli indigenti, finché alcune settimane dopo la madre, guarita, poté ritornare a casa.
sì, mi è mancata molto dopo la sua partenza, ma ero felice per la consapevolezza che lei ci fosse, al mondo, e che stesse bene.


un giorno decisi di andare a trovarla a casa: dopo una lunga camminata la cercai per un pomeriggio intero sotto il sole, mentre tutte le capanne di Maratsà sembravano uguali, e la ritrovai solamente guidato per mano da un suo fratellino.
occhi fissi.
sorriso incessante.
bontà sfrontata senza paura.
la salutai, col timore in cuore che non l’avrei più rivista, che la mia fosse stata un’inutile e avventurosa ricerca a senso unico, ma io sbaglio sempre, con i miei calcoli e i miei ragionamenti sotto un cielo pieno di stelle.



mancava una manciata di giorni prima di partire per l’Uganda, per l’Italia, per casa, avevo la testa ingarbugliata di mille futili pensieri e Jolie mi chiama dalla cassa: “c’è qualcuno che ti cerca”. era lei, lo capite benissimo, mentre io non lo capivo ancora e pensavo di ritrovarmi qualche impiegato o qualche lavoro scomodo. awadhifo, Emmanueli e io Mungu dri: “grazie, Emanuele” e io “siamo nelle mani di d-o”.
aveva ascoltato il mio folkroristico saluto alla radio, il giorno prima, ed era venuta a darmi il suo. non ho mai pianto a nessun saluto, neppure a quello profondo del mio migliore amico Justin, neppure a quello solenne del personale dell’ospedale, neppure a quello commosso di madre Claudine e neppure a questo, eppure questo è stato il saluto più grande ricevuto.
occhi fissi.
sorriso incessante.
bontà sfrontata senza paura.
non è la tenerezza facile dei bambini, non lo crediate, quanto la forza di mostrarsi nulla, povera, indifesa, ma di mostrarsi come si è, con totale fiducia. questo mi ha insegnato, lasciandomi senza difese.
Anuarite è la mia Bibbia. la verità, la povertà, la felicità, la bellezza, la semplicità, la forza autentica, il dialogo: tutto questo è per me Anuarite e Anuarite non è né un libro, non un eroe, neppure un’idea: Anuarite è una bambina di circa 4 anni, credo.







martedì 22 agosto 2017

andre iri yo - non ci sono due madri


il chiasso dei bicchieri il coro
di voci discordanti la luce
artificiale l’aria che appesantisce
come un reduce
ma ata lamilani ripeto
in me ma ruoni
lugbara: il lusso
è non possedere che due soli panni
e la casa non di mura ma di amici
dove l’ossessione di alcatraz pervade
ansia di vivere vivere d’ansia
mi distraggo qui ma un cielo ricorda
di odrele che la guerra non ha ancora termine
asfalto dopo kilometri di cammini illimitati
queste quattro pareti profumatamente serrate
eppure non respiro riposo solo sonnolenza 
mentre perdura 
la nostra guerra non ha termine 
in quel silenzio limpido
dove persiste il nome d’odrele
andre iri yo non ci sono
due madri