giovedì 18 ottobre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo


Questa traduzione certamente non è un lavoro senza difetti, al contrario si potrà ancora perfezionare col tempo, l'esperienza, la condivisione. 
Riconoscetele un solo merito: è la prima traduzione di questo testo di Tristan Tzara, un testo che resta di profonda poesia, di intenso surrealismo, di visionaria profezia.

Ringrazio chi vorrà leggere, chi vorrà comprendere, chi vorrà sentire, e ringrazio chi mi ha aiutato e supportato nella traduzione:
è stato così bello, così entusiasmante far tornare a parlare Tristan Tzara, tornare a riascoltare vivi e fulgidi i suoi versi, tornare a far sentire la sua voce attraverso le mie parole.

"io mi svuoto come una tasca capovolta"



TRISTAN  TZARA, L'HOMME APPROXIMATIF, PARIS 1931

incipit 
"le campane suonano senza ragione, e anche noi"

il canto dell'uomo approssimativo
"come me come te lettore e come tutti gli altri"

"io mi svuoto come una tasca capovolta"

il canto della radura

"di pagina in pagina"

il canto del bianco

il canto del quando

il canto dell'infanzia

il canto del licantropo

il canto della pietra, il canto della danza

"le ragioni del nostro tacere"

il canto del silenzio

il canto del nido, tra equilibrio e caos

il canto della consolazione

il canto della nascita

il canto della mano

il canto del cuore cacciavite

il canto dell'ultima luce

il canto dell'ultimo uomo

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, traduzione di E. Pini




lunedì 15 ottobre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, XIX

l'ultimo uomo
il finale è ciò che dà il senso all'inizio. e viceversa.
in tal modo tutto prese il via con quel "le campane suonano senza ragione e anche noi", tutto era cominciato con quel "A Greta", tutto iniziava con "penso al calore che intesse la parola / attorno al suo nocciolo il sogno che si chiama noi".
poi tutto termina con questa stoica attesa del deserto del tormento, del suo fuoco. 
forse l'aprirsi all'altro è questo deserto che ci dà struggimento e passione, forse l'aprirsi all'altro è questo fuoco che ci offre la vita e la passione, la speranza. 
non esiste una storia del tutto al singolare, non esiste un destino solamente individuale, perché gli uomini abitano questa minuscola terra come le stelle punteggiano d'oro la volta notturna.
cioé: non fu prima l'uovo né la gallina
ma c'è solo questa gallina infreddolita che chioccia 
questo uovo color paglia in bilico tra le mie dita
e io ci sono io
e tu ci sei tu
e noi che incrociamo le nostri voci
le nostre croci
di deserto e fuoco.
fragile e vinto, ma nel suo grido disperato riluce la sua forza indomabile: questo è l'Uomo Approssimativo, un uomo tanto moderno. 
agitato da fantasie celesti e visioni profetiche cui cerca di dar risposta, sballottato in un cosmo straniero, ma l'unico enigma che non può risolvere è il suo volto: questo è l'Uomo Approssimativo, alla perenne ricerca di se stesso come un eroe cantato da Omero e Sofocle.
un uomo approssimativo come me come te lettore e come gli altri

Tristan Tzara, foto


XIX

il beniamino delle montagne che arrostisce le scarpate delle gole
dai pestilenziali ronziii d’acquedotti autunnali
il dissodamento del cielo gratuito che fossa comune risucchiò tanti pascoli
i linguaggi dei nudi le breve apparizioni dei messageri
nei loro cespi annunciatori di supremi clamori e ossessioni
le inquiete fabbriche sotterranee di chimiche lente come delle canzoni la rapidità della pioggia il suo       formicolio telegrafico creduto di guscio che ruminano
le forature a carne aperta delle vette da cui affiorano gli increspati bucati
rotto per tutti i paesaggi e per gli inganni delle valli beffarde tentatrici di patrie
le passeggiate senza dio dei corsi d’acqua
le audacie delle loro imprese contro la bruna livrea d’argilla
gli oblii della benzina annegata nell’oblio dei numeri e delle vasche
nei fibrosi dimenticatoi agglomerati di spighe e di campane
dove filatrici di affanni svengono all’ombra tremula di menzogna
e aprono le palpebre dei ghiacci sessuali degli spettri
la crudezza dei muri di pietra dai noccioli inerpicati per mille dita
che s’intessono tra le trecce di tarassaco
e l’altalena delle temperature ravvivate dallo smodato sguardo
le vostre adulazioni redigono in me dei troppo dolci meandri d’oracolo agiato e di sonno
e pietroso nei miei vestiti di roccia ho votato la mia attesa
al tormento del deserto arruginito
e al robusto avvenimento del fuoco

*

urtata nel basaltico mutismo degli ibis
impigliata alle briglie dei torrenti sotterranei
abbandonata alle folli foreste di idre
dove i sermoni delle estati fitte gargarizzano di trasognate rivalità
la notte ci inghiotte e ci rigetta sino all’altro capo della tana
mentre smuove degli esseri che la grammatica degli occhi non ha ancora delimitato sullo spazio dell’indomani
di lenti accerchiamenti di corallo
sgozzano le alte forche  delle volontà rocciose
le insenature nel tuo cuore le fa un tempo pesante di ghiaia di affamato
e quante baracche al riparo della tua fronte hanno scritto l’ampio lutto di schiuma sul petto
cadendo in macerie d’ammassi d’avvenire
coperte di tare ingarbugliate mescolate alle imboscate delle liane
quando i banchi di torbidi pesci s’inflitrano di morte opaca e di chiome

*

andavamo in delle lande addolcite dall’attenzione
dolcemente attenti agli sbalzi monotoni dei fenomeni
che l’esercizio dell’infinito imprimeva ai blocchi di conoscenza
ma la squamosa struttura delle opinioni sparse
sull’umida infinità di diademi – i campi –
disdegna delle verità la polpa sensibile
di un pronto favore di uno strazio riattizzato

*

le asce colpivano in delle risate saure
e i dischi delle ore volavano all’attacco
scoppiavano nella testa delle truppe aeree
c’erano le nostre ragioni a maggese che arginavano la loro diafana turbolenza
e i tragitti nodosi questi che tracciavano temporali
s’incarnavano tentacolari nella costrizione dell’edera

*

là abbandonavamo il lusso e il dogma dello spettacolo
e immolavamo a degli altri impulsi il desiderio livido che i suoi frutti ci hanno illustrato
falciate le diamantine insistenze i vuoti paesaggi che preparano i miei sensi
ritta sorda allucinante diffidenza
sulla boscaglia del mio essere le strade ti si sono tutte aperte
porta ciò che l’ebrezza del rimprovero non ha ancora saputo riversare
e tutto ciò che non ho potuto comprendere e ciò a cui non credo più
il grumo di ciò che non ho potuto comprendere e che mi sale in gola
l’alga marina abbronzata dall’implacabile aratura delle profondità
e il fiore del triangolo inciso nella pupilla
la guerra che il mio fiato perde sulla ripida pagina bianca
e l’osmosi dei pensieri odiosi
i crucci crivellati di persistenti semine di seduzione
i crucci costruiti su trampoli al riparo dalle distrazioni
e la capanna vellutata di polvere
e quella di un’anima perduta
e tanto d’altro e tanti altri
ritrovati o malati
perché pietroso nei miei vestiti di roccia ho votato la mia attesa
al tormento del deserto arrugginito
al robusto avvenimento del fuoco

*

delle mani stranamente scostate dai grappoli di mani trasparenti
mescolano dei domino di stelle sulla savana ci sono delle pecore
e delle cortecce di nuvole annientate degli odori nautici trascinano
sulla tavola del cielo affollato d’eucaristici giochi
quali giochi quali gioie selvagge nutrono di smarrimento il tuo passo nel cielo d’acclimazione
dove bestie e pianeti ruotano avvinghiati con occhi d’oppio
disteso da un’estremità all’altra dell’acquario il tuo cuore così luminosamente squarciato di silenzio
dedicato  ai minuziosi artifici delle lame
incrostato di gocce ribelli di vino e di parole empie
s’imbeve del via vai delle estasi nella congestione verbale
di cui il tifone ha marchiato la tua fronte

*

intagliata è ormai la prua dei bastioni secondo la figura del nuoto
ma ora i tuoi occhi guidano il ciclone
altezzosa tenebrosa intenzione
e sul mare fino al limite delle veglie d’uccello
il vento tossisce fino al limite dove si scarica la morte
da prometeiche cataratte di eco tuonano nelle nostre coscienze intorpidite
si soffre quando la terra si ricorda di voi e vi scuote
cane randagio percosso e povero tu vaghi
ritorni senza sosta al punto di partenza inconsolabile con una parola
un fiore all’angolo della bocca un fiore tisico molestato dall’aspra necropoli
delle tonnellate di vento si sono riversate nella sorda cittadella della febbre
una chiglia in balia dell’impeto frastornato che sono io
un punto di partenza sconsolato al quale ritorno fumando una parola all’angolo della bocca
un fiore percosso dalla ruvida febbre del vento
e pietroso nei miei vestiti di roccia ho votato la mia attesa
al tormento del deserto arrugginito
al robusto avvenimento del fuoco

*

quando le ramificazioni del caso per la forza delle loro risa agganciano gli ormeggi
quando si chiama il tuo cuore – là dove di solidi morsi s’affondano –
polverosa e frustrata falena – opaca intimità – che ne so io – cantiere della notte
quando il barattolo dai sibili di sciame di rettili colpito
dove si ostinano le sollicitazioni delle maschie intemperie
minaccia lungamente geme
un lento incendio d’invincibile costanza – l’uomo –
un lento incendio sorge dalle fondamenta della tua lenta gravità
un lento incendio sorge dalla valle dei princìpi glaciali
un lento incendio d’indicibili leghe
un lento incendio che vince i focolai delle emozioni lucide
un incendio dilagante sorge dalle tossi schiave delle fortezze
un lento fuoco s’anima per la paura spalancata della tua forza – l’uomo –
un fuoco s’inebria delle altezze dove i cabotaggi dei nembi hanno rintanato il gusto del baratro
un fuoco che si issa supplicando sulla scala fino al contagio delle gesta illimitate
un fuoco che latra dei getti di rimpianti al di là delle ipocriti suggestioni del possibile
un fuoco che evade dai mari muscolari dove s’attardano le fughe dell’uomo
un uomo che vibra alle presunzioni indefinibili dei dedali di fuoco
un fuoco che ordisce la burrascosa insurrezione in massa dei caratteri – si china
armonia – che questa parola sia bandita dal mondo febbrile che visito
dalle feroci affinità minate di nulla coperte di assassinii
che urlano di non sfondare la paralisi singhiozzante di brandelli di fenicotteri
perché il fuoco di collera varia il movimento delle sottili macerie
secondo le balbuzienti modulazioni d’inferno
che il tuo cuore s’affatica a riconoscere tra le raffiche vertiginose di stelle
e pietroso nei miei vestiti di roccia
ho votato la mia attesa al deserto arrugginito del tormento
al robusto avvenimento del fuoco



martedì 9 ottobre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, XVIII

l'ultima luce

la luce s’esprime perde i suoi petali
e non ce n'è mai abbastanza di questa pace
si può non credere in un ordine, in una fede, in una salvezza, si può anche perdere la speranza, la voce di una promessa, ci si può persino dimenticare di camminare, di respirare, di esistere, ma l'uomo, questo uomo un po’ animale un po’ fiore un po’ metallo un po’ uomo, non può non credere nell'amore, come se fosse impresso in noi, l'amore e l'ignoto. 
voglio la lotta voglio sentire l’ustione della sorte di cui un dio di sagra paesana impresse il mio cuore
il rumore che tanti altri hanno ruminato prima di me
l’ignoto
e noi, un canto tenero e salato in lotta e  in attesa.
e i nostri amori bruciano nella fiamma delle vele
qualsiasi cosa se ne dica la morte non è che una favola per bambini
e la morte non è che una favola per bambini
attendo la morte che mi dirà che la sua vita è terminata
e fino alla prossima morte di morte in morte la roulette fa uscire il suo rosso e il suo nero
il suo blu cielo il suo rosa dalla coda di serpente con rima e sonagli
e fornito di ogni comodità dell’amore triste meccanica
sento in me contro il muro gettarsi la disperazione di tutta la città
attendo io attendo la pazienza del mio destino raggiunge la fine della candela
attendo che la divina avventatezza faccia rotolare il suo dado d’amore


Rembrandt, Autoritratto

XVIII

le impronte dei tuoi passi invisibili sul mare
sollevano delle pagode temporanee d’acqua
gesù d’aria fermento di splendide aurore e seminatore di pennuti
catena che risale fino all’elica delle nuvole
s’arrampica impalpabile sospiro diavolo a nuoto
fino al collo della bottiglia del circo
le tue parole munite di vele raggiungono tutti i porti della memoria
il traghetto rilega le nostre due mani che nel fieno del sogno si cercano 
mano – aperto diadema del cuore aperto alle corolle di frutti
dolce parola che poggia nella mia mano magica freschezza
nel cormorano la seppellisce nel suo seno mentre vola in faccia a una costellazione astrale
la luce s’esprime perde i suoi petali

*

truppa di città e villaggi che pasce all’ombra di un dio erbivoro
un dio non più grande di una foglia di quercia
non più pesante di uno frinito di grillo
non più ricco di un’asola di fossato
non più grande di una cuccia di diamante
e non più che delle sofferenze inutili su questo fiore d’arcipelaghi e d’isolotti
caduto con qualche goccia d’acqua nell’azzurro senza chiasso
il mondo i continenti gli oceani le prigioni

*

e relazioni così ingarbugliate si annodano tra le apparenze e architravi
uomo un po’ animale un po’ fiore un po’ metallo un po’ uomo
le relazioni che hanno una loro vita indipendente al di fuori di quella delle voci e delle spiagge
le relazioni che s’accrescono si sfilacciano planetarie
si gonfiano di tumori vegetano o lentamente periscono
di cui siamo accerchiati lanterne di lacci di fili spinati
corazza troppo pesante per partire in guerra contro questo falso se stesso
l’irrequieto l’inappagato di morte
l’ignoto nel fondo di se stesso che scaccia i miei giorni ciechi di speranza

*

un po’ d’oro sparso tra le foreste e i laghi
i cattivi istinti che sonnecchiano nel fondo indolente delle giare
mai abbastanza di questa pace
voglio la lotta voglio sentire l’ustione della sorte di cui un dio di sagra paesana impresse il mio cuore
sentire il caldo alito corpo a corpo l’ingiustizia la battaglia
e sconfiggere la pesante ossessione – appesantito di tanti lacci oscuri
faccia a faccia e aprirmi un cammino attraverso i diabolici abbozzi delle muffe
e furtive tentazioni che condiscono il rumore che tanti altri hanno ruminato prima di me
l’ignoto

*

i tronchi d’alberi portano dei mappamondi senza foglie sulla loro cima
i pali del telegrafo hanno delle ali di mercurio alle caviglie
di bianchi uccelli fungono da confini chilometrici
le distanze se ne volano al rovescio
e nei barattoli dei vulcani i sottomarini sfilano in lunghe collane di pesci migratori
e tuttavia nel treno sento sulle mie spalle così lungamente straziate dal deserto
il peso del bestiame mitologico condotto nei mattatoi del tempo sereno
i mulini a vento i mulini a tormenti
che macinano le regioni iperboree dove seccano gli amori primi
le lingue del cielo che falciano i comignoli delle fabbriche smilze
i fiumi si chinano al tuo orecchio e raccontano la segreta storia
tutti i mestieri si sono riuniti attorno all’appello profetico
attorno al dito sulle labbra del segnale meteorologico
il muso fiorito dell’albero fiuta la bufera che viene con passo di lupo
e tuttavia il treno continua a vangare su un apparecchio morse attraverso paesi attraverso voci
folla soffice che rimpiazza delle parole in carne e ossa
quando la parola è tanto cara per quelli che ne hanno bisogno
parola che attendo parola in pepite nell’anfratto del porto
attorno all’arnia delle tue dolcezze possibili
siamo delle api così numerose api di cui le tue promesse hanno imprigionato il volo
e nella brezza siamo canto tenero e salato di coloro che si sono impiccati al cielo
di cui i corpi lacerano il vento e i ventagli degli stracci rasentano le banchise
il fumo della macchina abbaia ora e afferra il fuoco ventilatore
la ruota della morte in nave questi sono i circuiti dei cervelli
che ruotano su loro stessi l’elica degli umani dolori
e tanto d’altri e tanti altri

*

ma la caduta di sibilo si fa minacciosa
getta il diluvio fuori bordo
ai naufragi il segreto invito si raddoppia di avatar di sirena
e i nostri amori bruciano nella fiamma delle vele
sono lontani i grassi torrenti dalle canzoni frondose che fiancheggiano la giostra
e tutte le giostre che salivano alle gole nelle vene dei barometri
le pene d’amore i secoli d’amore le lettere
le lettere che si volevano scrivere con la linfa delle viscere
ma che l’età prese al volo vuote alla ricerca di incanti
i cimiteri che gonfiano di ricordi gli otri le morti
e tutta l’amarezza che non poté uscire dai polmoni troppo morbidi
sono lontane le notizie tanto attese nei giornali
che sovrappongono le loro vite alla nostra nonostante il paese gettato lontano dal discobolo oscuro
le impazienze cadute in fondo al sacco nella fossa
le segherie d’uomini quelle rapide che portano delle teste contorte e stordite
ecco dove conducono il treno e il pensiero
qualsiasi cosa se ne dica la morte non è che una favola per bambini
e la morte non è che una favola per bambini
attendo la morte che mi dirà che la sua vita è terminata
e fino alla prossima morte di morte in morte la roulette fa uscire il suo rosso e il suo nero
il suo blu cielo il suo rosa dalla coda di serpente con rima e sonagli
e fornito di ogni comodità dell’amore triste meccanica
roulette del meridiano quale sarà la tua prossima fermata di morte
roulette messa in musica e in movimento dal fumo di una sigaretta
che nello spazio vergine aggira nevosi continenti
e tanto d’altro e tanti altri

*

ma dietro ai tuoi passi allo sbaraglio i drammi si dibattono in silenzio
ci sono gli spiriti degli respiri le vendette le imprecazioni
affinché le tue dita possano continuare la loro corsa attraverso le piste musicali
ho così tanto braccato la tua ombra verità nel florilegio di colori
che infine attorno al collo lo scialle dell’arcobaleno s’arrotola
e stringe pienezza adombrata la frusta gettata dal polo
sento in me contro il muro gettarsi la disperazione di tutta la città
lacrime che cadono in incendio dall'alto fughe terrori porcherie
sento in me contro il muro gettarsi la disperazione di tutta la città
crudeltà loquaci offese malattie maledizioni
sento in me contro il muro gettarsi la disperazione di tutta la città
orrori ipocriti inferni asfissie di fuliggine sudori
smorfie d’uragani cataclismi contagiosi valanghe sepolcri

*

attendo io attendo la pazienza del mio destino raggiunge la fine della candela
le ultime palpitazioni di falena ciò che mi resta
che l’ombra conficcò dapprima in me e che quella uscì poco a poco
e poco a poco polverizzò la pietra e poco alla volta strangolò la mia confessione
attendo infagottato nella mia umiltà subordinata
il soccorso come un’ebrezza che sovrasta l’occhio scialbo
che affiora dal mazzo di raggi sordi
attendo che la divina avventatezza faccia rotolare il suo dado d’amore
sulla mia testa di cui le radici le vanno già incontro
la virtù affilata del numero che quella innesca e che quella mi mostra
attendo che l’apocalittico mezzo di trasporto
venga a prendermi nel suo turbine d’infinito e d’oro
che infine la profezia dell’ordine si cristallizzi nella morte
e tanto d’altro e tanti altri

mercoledì 3 ottobre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo XVII

il cuore cacciavite

le mie mostruose brame di cielo corrosivo
i miei lebbrosari di nuvole
i cuori di struzzo nascondono la testa del paesaggio nella sabbia
e il pennello del dolore scivola sempre su tutte le carni
a ogni passo il problema della nostra realtà sfiora il furore delle ragioni d’azzurro e di follia
poiché questo nostro cuore cacciavite batte e gira, batte, gira e si rigira alla ricerca di quel marchingegno che spalancherà la porta davanti a noi, quel congegno diabolico della verità
non chiudere ancora gli occhi
né quelli degli altri

maschera funeraria copta; IV-VII secolo d.C.; Egitto; legno dipinto


XVII

imperfetti ritorni dalle lunghe meditazioni magiche
dalle meditazioni che indagano ossessioni e schianti
dai punti estremi dalle luminose longitudini
dagli alti sguardi dalla fatica delle nevi
imperfetti ritorni dalle lunghe meditazioni magiche
alle stagioni di quaggiù
inzuppate in queste alghe brulicanti di trasparenze
dei drappeggi d’eterocliti eternità trascinate nel fango di quaggiù
occhio sempre nuovo al ritorno delle cose
instancabile ritorno dall’alto dei sogni migratori
abito la musica nel forno dove le ombre cuociono
una lacrima – fredda traccia di lucertola – ci basta – negligenza smagliante
per spegnere in ogni luce il silenzio che ci seppellisce in delle orecchie di aurora
e portando la stella al guinzaglio l’affluente del giro del mondo tenta l’infinito con sfrigolanti imitazioni
non rinchiudere la stella non ancora nella teca degli occhi
stacca dalle banchine la chiaroveggenza dei fantasmi di cui le mani tese da catene
raccolgono il decollo leggero dalle fluorescenti profezie di suicidi
e le speculazioni inesauribili di alti studi d’atmosfere
lebbrosari di nuvole

*

sotto la cupola delle ali parlanti che sa enumerare gli aculei della grotta
la leva della notte tiene nella sua mano di ferro tutta la pesante chioma chiusa a chiave
così nel tuo cuore di folli ammiccamenti il bimbo sta in l’equilibrio
al centro del suo cuore di spugna
all’ombra della forza burrascosa e barbara
e malgrado l’esitazione lunare delle prospettive assise
nei campi di stelle alpine dove crescono gli stemmi selvaggi
gli arbusti impigliati alle capre svitano i bagliori che la foschia travolge
che il volto d’anemone lecca la macchia di luna improvvisa
e che le sopracciglia d’amara lana al di sopra del tempio di sale
s’attardano ai tentativi di schiudersi dalle prue notturne –
i cuori di struzzo nascondono la testa del paesaggio nella sabbia
e il pennello del dolore scivola sempre su tutte le carni
che siano di perle o di coltri
e su tanti altri

*

ai nucleari confini dove la nuvola palpeggia di pioggia
spreme la cima squamata contro la guancia succosa
da dove precipitano le segrete impazienze
i piaceri inesplorati di questi abissi di solfeggi
nel fondo sempre più lontano dell’affetto
si riversano sulla pianura quando mezzanotte mietitrice di tutti gli errori
rimbrotta l’infinito colore che muore della notte di piombo
del giorno di piombo

*

l’uomo celeste brocca da dove il sogno succhia la sua luce di corridoio
raccoglie il polline di pietra all’incrocio dei viali
le cineree gobbe – non ne abbiamo il tempo
l’uomo a sonagli si dipana dal sentimento quando dal mulino s’avvicinano i covoni
e il pesce orecchio stropicciato scorrazza attorno al contagocce del risveglio
ecco l’archetto tende il reticolo articolato del riso – l’aurora
e i guanti tiran fuori le effimere miniere di verità dalle tasche scoscese di vivi prestiti

*

sepolte sono le immagini nei voli alla ricerca degli albatros
e il cuore cacciavite va loro incontro
perché ti ho abbandonato bell’orlatura di sole
alla tenda della finestra vuota appuntata con dei giardini d’arcobaleno
e sebbene l’orizzonte della mia chiara voluttà sia restato a scaldarti
del calore vigile dei tulipani accanto a te
addolorato dai calabroni di nuvole la brace delle canzoni
serpeggia verso l’ineffabile disperazione di granito
la liquefazione dei giorni – i ruscelli si trasformano
e il cuore cacciavite va loro incontro

*

e quando come il sale la tua età sale alla superficie dell’acqua
filtrato attraverso tante lunghe capigliature di femmine e fumi di treni e battelli
le rimesse delle annate di scorie si svuotano nella vallata
e contro i biliardi sdentati sbattono le case degli straccioni
e i cervelli d’asfalto
ci sono anche le occasioni che offre la natura allo sbaraglio
degli olfatti senza filo di assurdi eccessi d’asfodeli
degli spaventapasseri d’anima che non si lasciano avvicinare da alcuna consolazione dei gabbiani di latte
dei vecchi giardini che volteggiano in lacrime nei fronzoli dei fremiti
le medaglie di schiuma piantate contro le macerie di nicchie
che indicano agli stigi dei nostri diluviani saperi la strada da seguire lungo gli asterischi dell’autunno
e quando il fieno fermenta lungo i fischi
che senza ragione si riversano nei profondi scoppi di risa
mentre mostrano dei denti di stalattiti dalle rugiade di cenere
e dagli sbadigli terrorizzati dei crostacei
la tremula fiamma dei pugnali sale su delle scalinate d’araucarie
sulle alte gradinate popolate di nembi
d’aeree precauzioni di vocali gracili
di cuscini che cantano degli ascessi di chiarezza che scoppiano e di venti
dove a ogni passo il problema della nostra realtà sfiora il furore delle ragioni d’azzurro e di follia
e di tanto altro e di tanto d’altri

*

non chiudere ancora gli occhi
nelle custodie di siepe sotto i passamontagna dei pascoli ogni tenda si mantiene segreta
e per la bocca assediata dagli insulti di trombe e di petardi
abbandona il sudore delle mani di resina

*

i pori della terra si aprono con quelli della pelle
e le mani scostate le ferite ancora soffici delle granate
nella terra aggrappate di paura che questa non se ne vola via come biancheria
serrano il suo rigore di sudario sporco
non chiudere ancora gli occhi
le mortifere cavalcate della solitudine
e questo slancio che si ripercuote in me annerito
si spezza in me contro le pareti si spezza
impetuoso come un getto di pesante sole che schizza
che affonda il pestello nella gola sorda del pozzo –
che questo slancio senza nome la bocca contorta dal non conoscersi
dal non poter strappare la notte profondamente piantata nel cranio
possa congiungere attraverso tumuli e polipai sul familiare vassoio
le due eclissi a manovella di maggiorana i popoli disfatti
la caccia all’onda nera che stende la folgorale conoscenza
il cielo che ristagna di falso
e l’amore svezzato d’amarezza sotto la cupola
e il sorridere di smalto innestato nella vena
la chitarra museruola delle diffidenze vistose
il facile arnese nella mano del deserto di rafia
la sorgente corretta nell’anima laboriosa
che cede alla droga di una giovinezza futura
quale crimine insospettato e quale sobrio dolore vegetale
sapranno in un giorno di zaffiro placare le mie mostruose brame
le mie mostruose brame di cielo corrosivo
d’uomo braccato dai morsi seppie degli idoli violenti
mentre la sua vita si sbriciola sotto la pioggia continua delle tentazioni
cieca alle congiure di fascini questi pani d’illusione quotidiana
sul sagrato del sonno dalle lattee incertezze di larve
dove lentamente scorrono le linfe delle nostre dottrine di morte e d’ispirazione

*

allora quella vecchiaia ci esilia dai fondi furfanti degli inferi
ci sbircia pure all’angolo del sole per dove la nostra strada è passata o passerà un giorno
ronzante d’ambizioni ancora sconosciute munita di purulenti pazienze
e sulla cancrena dei pascoli che dissolve la bocca del colore al tramonto
si prepara l’avvento dello spirito dai segni morti dell’antracite
e il cuore cacciavite gli va incontro

*

e che questo siano i nomi dei fiori le rive delle espressioni mescolate all’oro delle isole
i costumi delle strade le punte dei sensi gravi
dove tutto è vero e il giardino delle esperidi non è più lontano che una stretta di mani
dove i linguaggi fanno spumeggiare a fior di pelle la loro feccia
e tutti i supremi disinganni e le loro condotte di fuoco
sigillano il pasto pagano dai silenzi della pietra
che questa sia l’usura prodigiosa degli schiamazzi
che questo siano le vacillanti aspirazioni che circolano nelle erboristerie del sogno
e i bambù che orbitano attorno all’acrobatico cerimoniale dei remi
tanto lenta è la navigazione dello spirito che si affida ai pegni solenni della malinconia
ed è eloquente la lanterna che prelude tante emozioni a fianco della notte
ai pegni solenni della malinconia
che importa – la piroga dei prodigi traccia dei nuovi sentieri
su questa terra di cuori – il suo impero
non chiudere gli occhi
da dove escono i labirinti e gli agili agguati della carne sazia di demenza
e se apri gli zefiri ai fianchi solenni della malinconia
non sobbalzare – il circo inghirlandato di sonagli di pagode si consegna alla peonia
e le commozioni hanno consumato la sella delle cascate orchestrali
così tante notti hanno acceso la loro pipa dalle scintillanti staffe i venti mistici
che alla base della tua parola hanno preso respiro
non chiudere ancora gli occhi
alla cuccia del sole s’è ritirata tutta la musica
le radici l’hanno germogliata fino alle torture delle sfere sporadice
e costeggiandone i fianchi e le frane di metafore
gli occhi delle cifre si sono riempiti del tempo suonato al gioco delle arti

*

e l’amore umano plasmato sotto la crosta del disgusto
che coagula nel suo ventre di ferro l’inconsolabile pallore delle prigioni
e la paura che aumenta su dei pioli di verità
s’inventa e si perde nell’occhio del cinghiale
e i pianti chimerici si regolano su dei trampoli
l’odio che nidifica nella memoria del vino
si scrosta e si ritrova alle ore di selce irrigidita
e la pena – calice di rughe – che l’agreste figura del giorno immemore augura
e beve – prolifica stagione d’esequie le tempie schiodate –
e che questo sia il dolore del vento portato in fronte al nichel
che riempe l’olifante di fosca argilla delle passioni liriche dei clan scossi
le cifre si sono spianate tanto prosegue l’immensità degli istinti
verso questo divino concime – le carogne
e che questo sia il cuore che va al suo incontro d’amore o il disprezzo
ce ne saranno sempre tanti altri e tanti altri
non chiudere ancora gli occhi
né quelli degli altri