domenica 5 maggio 2019

Louis Aragon, Prefazione a una Mitologia Moderna



Sembra che ogni idea abbia passato oggi la propria fase critica. È comunemente accettato che un esame generale delle nozioni astratte dell’uomo abbia esaurito insensibilmente queste ultime, che la luce umana si sia sparsa ovunque e che nulla sia così sfuggito a questo processo universale, molto passibile di revisione. Vediamo dunque tutti i filosofi del mondo, prima di fronteggiare il minimo problema, ostinarsi all’esposizione e alla confutazione di tutto quello che hanno detto su questo i loro predecessori. E in tal modo non pensano nulla che non sia funzione di un errore precedente, che non si appoggi su questo, che non ne partecipi. Curioso metodo che cerca di negare in maniera singolare: sembra che abbia paura del genio, proprio là dove tuttavia nulla si richiederebbe se non il genio stesso, l’invenzione pura e la rivelazione. La carenza dei mezzi dialettici, la loro inefficacia nella strada di ogni certezza, in ogni istante sembra che questi che fecero del pensiero il loro dominio ne abbiano preso coscienza solo temporaneamente. Ma questa coscienza non li ha addestrati che a disputare riguardo ai mezzi dialettici e non sulla dialettica stessa, e ancor meno del suo oggetto, la verità. O se questa, per miracolo, li ha occupati, è perché questi la ritenevano come obiettivo e non in se stessa. L’obiettività della certezza, ecco di cosa si discuteva senza difficoltà: della realtà della certezza nessuno se n’era interessato.
I caratteri della certezza variano secondo i sistemi personali dei filosofi, dalla certezza comune allo scetticismo ideale di certi incerti. Ma se pure sia questa ridotta, per esempio alla coscienza dell’essere, la certezza si presenta a tutti i suoi osservatori con dei caratteri propri e definibili che permettono di distinguerla dall’errore. La certezza è realtà. Da questa credenza fondamentale passa il successo della famosa dottrina cartesiana dell’evidenza.
Non abbiamo ancora finito di scoprire le devastazioni di questa illusione. Sembra che nulla abbia mai costituito per il cammino dello spirito una pietra d’inciampo tanto difficile da evitare che questo sofisma dell’evidenza che lusingava una delle più comuni maniere di pensare degli uomini. La si ritrova alla base di ogni logica. In questa si risolve ogni prova che l’uomo si dà di una proposizione che enuncia. L’uomo finisce per appellarsi a quella. Appellandosi a quella, finisce. Ed è così che si è fatto una verità volubile, e sempre evidente, di cui si domanda inutilmente perché non arrivi mai ad accontentarsi.
Ora c’è un regno nero, e che gli occhi dell’uomo evitano, perché questo paesaggio non li lusinga affatto. Questa ombra, che sostiene di dover superare per descrivere la luce, è l’errore con i suoi caratteri sconosciuti, l’errore che, solo, potrebbe testimoniare, a colui che l’avrebbe considerato per se stesso, la realtà fuggevole. Ma chi non sente che il volto dell’errore e quello della verità non potrebbero avere dei tratti differenti? L’errore è accompagnato dalla certezza. L’errore si impone attraverso l’evidenza. E tutto quello che si dice della verità, lo si dica dell’errore: non si sbaglierà ulteriormente. Non ci sarebbero errori senza il sentimento stesso dell’evidenza. Senza di esso non ci si fermerebbe mai all’errore.

Io ero qui coi miei pensieri, quando, senza che nulla ne avesse rilevato l’avvicinamento, la primavera entrò improvvisamente nel mondo.
Era una sera, verso le 5, un sabato: di colpo, s’è fatto, ogni cosa si bagna in un’altra luce e tuttavia fa ancora molto freddo, non si potrebbe dire ciò che è appena successo. Resta sempre il fatto che il gomitolo dei pensieri non saprebbe restare lo stesso, ma seguono a precipizio una preoccupazione perentoria. Si è appena aperto il coperchio del vaso. Non sono più padrone di me stesso talmente sperimento la mia libertà. Non c’è bisogno di far nulla. Non farò più nulla al di là del suo inizio finché farà questo tempo da paradiso. Sono l’espansione dei miei sensi e del caso. Sono come un giocatore seduto alla roulette, non venite a dirgli di piazzare il suo denaro in prodotti petroliferi, vi riderebbe in faccia. Sono alla roulette del mio corpo e gioco sul rosso. Tutto mi distrae all’infinito, tranne la mia stessa distrazione. Un sentimento come di nobiltà mi spinge a preferire questo abbandono a tutto il resto e non saprei comprendere i rimproveri che mi fate. Al posto di occuparvi della condotta degli uomini, guardate piuttosto le donne che passano. Sono dei grandi frammenti di splendori, dei bagliori che non sono affatto ancora spogliati dalle loro pellicce, dai misteri brillanti e mobili. No io non vorrei morire senza averne avvicinata ciascuna, senza averla almeno toccata con la mano, averla sentita piegare, che rinunci sotto questa pressione a ogni resistenza, e poi vattene! Succede che si ritorna in sé tardi la notte, dopo aver incrociato non sono quante di queste scintille desiderabili, senza aver tentato di impossessarsi di una sola di queste vite incautamente lasciate alla mia portata. Allora spogliandomi mi domando con disprezzo cosa faccio al mondo. Questo è un modo di vivere, e non è necessario che io esca fuori per cercare la mia preda, per essere la preda di qualcuno nel fondo dell’ombra? I sensi hanno finalmente stabilito la loro egemonia sulla terra. Ormai che verrebbe a far qui la ragione? Ragione, ragione, o fantasma astratto della veglia, ti avevo già scacciato dai miei sogni, ma eccomi al punto dove questi stanno per confondersi con le realtà dell’apparenza. Non c’è più spazio qui che per me. Invano la ragione mi segnala la dittatura della sensualità. Invano mi mette in guardia contro l’errore, che ecco qui la Regina. Entrate, Signora, questo è il mio corpo, questo è il vostro trono. Lusingo il mio delirio come un bel cavallo. Falso dualismo dell’uomo, lasciami un poco sognare la tua menzogna.

F. Picabia, L'oeil cacodylate, 192

Così, per mille labirinti, mi sono abituato a pensare di non credere sicura oggi alcuna nozione che ho dell’universo senza averne fatto un esame astratto. Mi hanno trasmesso questo spirito d’analisi, questo spirito e questo bisogno. E come l’uomo che si leva dal sonno, ho bisogno di uno sforzo doloroso per sottrarmi da questa consuetudine mentale, per pensare in modo semplice, così come sembra naturale, secondo quel che vedo e quel che tocco. La conoscenza che viene dalla ragione può ciononostante per un istante opporsi alla conoscenza sensibile? Senza dubbio le persone rozze che non si rivolgono che a quest’ultima e disprezzano l’altra mi chiariscono il disprezzo dove è caduto poco a poco tutto quel che viene dai sensi. Ma quando i più sapienti degli uomini mi avranno insegnato che la luce è una vibrazione, che me ne avranno calcolato la lunghezza d’onda, qualunque sia il frutto dei loro lavori razionali, tuttavia non mi avranno reso conto di quel che mi importa della luce, di quel che i miei occhi m’insegnano un po’ di lei, di quel che mi rende differente dal cieco, e che è motivo di miracolo, niente affatto oggetto della ragione.
C’è più materialismo rozzo di quanto non si creda nello stolto razionalismo umano. Questa paura dell’errore, che nella fuga delle mie idee mi ricorda assolutamente, in ogni istante, questa mania di controllo, fa preferire all’uomo l’immaginazione della ragione all’immaginazione dei sensi. E tuttavia è sempre la sola immaginazione che agisce. Nulla può assicurarmi della realtà, nulla può assicurarmi che io la fondi su un delirio di interpretazione, né il rigore di una logica né l’intensità di una sensazione. Ma in questo ultimo caso l’uomo che è passato per diverse scuole secolari ha iniziato a dubitare di se stesso: per quale gioco di specchi fu al servizio dell’altro processo del pensiero, lo si immagini. Ed ecco l’uomo in preda alla matematica. È così che, per liberarsi dalla materia, è divenuto il prigioniero delle proprietà della materia.
In realtà comincio ad avvertire in me la consapevolezza che né i sensi né la ragione possano, se non per un trucco da prestigiatore, concepirsi separati gli uni dall’altra, che senza dubbio non esistono che funzionalmente. Il più grande trionfo, al di là delle scoperte, delle sorprese, delle improbabilità, la ragione lo trova nella conferma di un errore popolare. La sua più grande gloria è di dare un senso preciso a delle espressioni dell’istinto che i mezzi-sapienti disprezzerebbero. La luce non si comprende che attraverso l’ombra, e la verità presuppone l’errore. Sono questi opposti mescolati che popolano la nostra vita, che gli danno il sapore e l’ebrezza. Noi non esistiamo che in funzione di questo conflitto, nella zona dove si scontrano il bianco e il nero. E cosa m’importa del bianco o del nero? Loro sono del dominio della morte.

Non voglio più distogliermi dagli errori delle mie dita, dagli errori dei miei occhi. Ora so che questi non sono che delle trappole grossolane, ma di curiosi cammini verso un obiettivo che nulla può rivelarmi se non questi. A ogni errore dei sensi corrispondono dei misteriosi fiori della ragione. Ammirabili giardini delle convinzioni assurde, dei presentimenti, delle ossessioni e dei deliri. Qui prendono forma degli dèi sconosciuti e mutevoli. Contemplerei questi volti di piombo, queste cannabis dell’immaginazione. Quanto siete belle, colonne di fumo, nei vostri castelli di sabbia! Miti nuovi nascono sotto ciascuno dei nostri passi. Qui dove l’uomo ha vissuto comincia la leggenda, qui dove vive. Non voglio più occupare il mio pensiero che a queste metamorfosi disprezzate. Ogni giorno il sentimento moderno dell’esistenza muta. Una mitologia si intesse e si scioglie. È una scienza della vita che appartiene solamente che a quelli che non ne hanno affatto esperienza. È una scienza viva che si genera e si suicida. M’appartiene ancora, ho ormai ventisei anni, il partecipare a questo miracolo? Avrò a lungo il sentimento del meraviglioso quotidiano? Lo vedo che si perde in ogni uomo che procede nella propria vita come in un cammino sempre più lastricato, che prosegue nell’abitudine del mondo con una disinvoltura crescente, che si disfa progressivamente del gusto e della percezione dell’insolito. È questo che, disperatamente, non potrò mai sapere.


Tratto da Le paysan de Paris, Paris 1926


J. Kolar, Cappella Sistina, 1971





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