martedì 9 ottobre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, XVIII

l'ultima luce

la luce s’esprime perde i suoi petali
e non ce n'è mai abbastanza di questa pace
si può non credere in un ordine, in una fede, in una salvezza, si può anche perdere la speranza, la voce di una promessa, ci si può persino dimenticare di camminare, di respirare, di esistere, ma l'uomo, questo uomo un po’ animale un po’ fiore un po’ metallo un po’ uomo, non può non credere nell'amore, come se fosse impresso in noi, l'amore e l'ignoto. 
voglio la lotta voglio sentire l’ustione della sorte di cui un dio di sagra paesana impresse il mio cuore
il rumore che tanti altri hanno ruminato prima di me
l’ignoto
e noi, un canto tenero e salato in lotta e  in attesa.
e i nostri amori bruciano nella fiamma delle vele
qualsiasi cosa se ne dica la morte non è che una favola per bambini
e la morte non è che una favola per bambini
attendo la morte che mi dirà che la sua vita è terminata
e fino alla prossima morte di morte in morte la roulette fa uscire il suo rosso e il suo nero
il suo blu cielo il suo rosa dalla coda di serpente con rima e sonagli
e fornito di ogni comodità dell’amore triste meccanica
sento in me contro il muro gettarsi la disperazione di tutta la città
attendo io attendo la pazienza del mio destino raggiunge la fine della candela
attendo che la divina avventatezza faccia rotolare il suo dado d’amore


Rembrandt, Autoritratto

XVIII

le impronte dei tuoi passi invisibili sul mare
sollevano delle pagode temporanee d’acqua
gesù d’aria fermento di splendide aurore e seminatore di pennuti
catena che risale fino all’elica delle nuvole
s’arrampica impalpabile sospiro diavolo a nuoto
fino al collo della bottiglia del circo
le tue parole munite di vele raggiungono tutti i porti della memoria
il traghetto rilega le nostre due mani che nel fieno del sogno si cercano 
mano – aperto diadema del cuore aperto alle corolle di frutti
dolce parola che poggia nella mia mano magica freschezza
nel cormorano la seppellisce nel suo seno mentre vola in faccia a una costellazione astrale
la luce s’esprime perde i suoi petali

*

truppa di città e villaggi che pasce all’ombra di un dio erbivoro
un dio non più grande di una foglia di quercia
non più pesante di uno frinito di grillo
non più ricco di un’asola di fossato
non più grande di una cuccia di diamante
e non più che delle sofferenze inutili su questo fiore d’arcipelaghi e d’isolotti
caduto con qualche goccia d’acqua nell’azzurro senza chiasso
il mondo i continenti gli oceani le prigioni

*

e relazioni così ingarbugliate si annodano tra le apparenze e architravi
uomo un po’ animale un po’ fiore un po’ metallo un po’ uomo
le relazioni che hanno una loro vita indipendente al di fuori di quella delle voci e delle spiagge
le relazioni che s’accrescono si sfilacciano planetarie
si gonfiano di tumori vegetano o lentamente periscono
di cui siamo accerchiati lanterne di lacci di fili spinati
corazza troppo pesante per partire in guerra contro questo falso se stesso
l’irrequieto l’inappagato di morte
l’ignoto nel fondo di se stesso che scaccia i miei giorni ciechi di speranza

*

un po’ d’oro sparso tra le foreste e i laghi
i cattivi istinti che sonnecchiano nel fondo indolente delle giare
mai abbastanza di questa pace
voglio la lotta voglio sentire l’ustione della sorte di cui un dio di sagra paesana impresse il mio cuore
sentire il caldo alito corpo a corpo l’ingiustizia la battaglia
e sconfiggere la pesante ossessione – appesantito di tanti lacci oscuri
faccia a faccia e aprirmi un cammino attraverso i diabolici abbozzi delle muffe
e furtive tentazioni che condiscono il rumore che tanti altri hanno ruminato prima di me
l’ignoto

*

i tronchi d’alberi portano dei mappamondi senza foglie sulla loro cima
i pali del telegrafo hanno delle ali di mercurio alle caviglie
di bianchi uccelli fungono da confini chilometrici
le distanze se ne volano al rovescio
e nei barattoli dei vulcani i sottomarini sfilano in lunghe collane di pesci migratori
e tuttavia nel treno sento sulle mie spalle così lungamente straziate dal deserto
il peso del bestiame mitologico condotto nei mattatoi del tempo sereno
i mulini a vento i mulini a tormenti
che macinano le regioni iperboree dove seccano gli amori primi
le lingue del cielo che falciano i comignoli delle fabbriche smilze
i fiumi si chinano al tuo orecchio e raccontano la segreta storia
tutti i mestieri si sono riuniti attorno all’appello profetico
attorno al dito sulle labbra del segnale meteorologico
il muso fiorito dell’albero fiuta la bufera che viene con passo di lupo
e tuttavia il treno continua a vangare su un apparecchio morse attraverso paesi attraverso voci
folla soffice che rimpiazza delle parole in carne e ossa
quando la parola è tanto cara per quelli che ne hanno bisogno
parola che attendo parola in pepite nell’anfratto del porto
attorno all’arnia delle tue dolcezze possibili
siamo delle api così numerose api di cui le tue promesse hanno imprigionato il volo
e nella brezza siamo canto tenero e salato di coloro che si sono impiccati al cielo
di cui i corpi lacerano il vento e i ventagli degli stracci rasentano le banchise
il fumo della macchina abbaia ora e afferra il fuoco ventilatore
la ruota della morte in nave questi sono i circuiti dei cervelli
che ruotano su loro stessi l’elica degli umani dolori
e tanto d’altri e tanti altri

*

ma la caduta di sibilo si fa minacciosa
getta il diluvio fuori bordo
ai naufragi il segreto invito si raddoppia di avatar di sirena
e i nostri amori bruciano nella fiamma delle vele
sono lontani i grassi torrenti dalle canzoni frondose che fiancheggiano la giostra
e tutte le giostre che salivano alle gole nelle vene dei barometri
le pene d’amore i secoli d’amore le lettere
le lettere che si volevano scrivere con la linfa delle viscere
ma che l’età prese al volo vuote alla ricerca di incanti
i cimiteri che gonfiano di ricordi gli otri le morti
e tutta l’amarezza che non poté uscire dai polmoni troppo morbidi
sono lontane le notizie tanto attese nei giornali
che sovrappongono le loro vite alla nostra nonostante il paese gettato lontano dal discobolo oscuro
le impazienze cadute in fondo al sacco nella fossa
le segherie d’uomini quelle rapide che portano delle teste contorte e stordite
ecco dove conducono il treno e il pensiero
qualsiasi cosa se ne dica la morte non è che una favola per bambini
e la morte non è che una favola per bambini
attendo la morte che mi dirà che la sua vita è terminata
e fino alla prossima morte di morte in morte la roulette fa uscire il suo rosso e il suo nero
il suo blu cielo il suo rosa dalla coda di serpente con rima e sonagli
e fornito di ogni comodità dell’amore triste meccanica
roulette del meridiano quale sarà la tua prossima fermata di morte
roulette messa in musica e in movimento dal fumo di una sigaretta
che nello spazio vergine aggira nevosi continenti
e tanto d’altro e tanti altri

*

ma dietro ai tuoi passi allo sbaraglio i drammi si dibattono in silenzio
ci sono gli spiriti degli respiri le vendette le imprecazioni
affinché le tue dita possano continuare la loro corsa attraverso le piste musicali
ho così tanto braccato la tua ombra verità nel florilegio di colori
che infine attorno al collo lo scialle dell’arcobaleno s’arrotola
e stringe pienezza adombrata la frusta gettata dal polo
sento in me contro il muro gettarsi la disperazione di tutta la città
lacrime che cadono in incendio dall'alto fughe terrori porcherie
sento in me contro il muro gettarsi la disperazione di tutta la città
crudeltà loquaci offese malattie maledizioni
sento in me contro il muro gettarsi la disperazione di tutta la città
orrori ipocriti inferni asfissie di fuliggine sudori
smorfie d’uragani cataclismi contagiosi valanghe sepolcri

*

attendo io attendo la pazienza del mio destino raggiunge la fine della candela
le ultime palpitazioni di falena ciò che mi resta
che l’ombra conficcò dapprima in me e che quella uscì poco a poco
e poco a poco polverizzò la pietra e poco alla volta strangolò la mia confessione
attendo infagottato nella mia umiltà subordinata
il soccorso come un’ebrezza che sovrasta l’occhio scialbo
che affiora dal mazzo di raggi sordi
attendo che la divina avventatezza faccia rotolare il suo dado d’amore
sulla mia testa di cui le radici le vanno già incontro
la virtù affilata del numero che quella innesca e che quella mi mostra
attendo che l’apocalittico mezzo di trasporto
venga a prendermi nel suo turbine d’infinito e d’oro
che infine la profezia dell’ordine si cristallizzi nella morte
e tanto d’altro e tanti altri

mercoledì 3 ottobre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo XVII

il cuore cacciavite

le mie mostruose brame di cielo corrosivo
i miei lebbrosari di nuvole
i cuori di struzzo nascondono la testa del paesaggio nella sabbia
e il pennello del dolore scivola sempre su tutte le carni
a ogni passo il problema della nostra realtà sfiora il furore delle ragioni d’azzurro e di follia
poiché questo nostro cuore cacciavite batte e gira, batte, gira e si rigira alla ricerca di quel marchingegno che spalancherà la porta davanti a noi, quel congegno diabolico della verità
non chiudere ancora gli occhi
né quelli degli altri

maschera funeraria copta; IV-VII secolo d.C.; Egitto; legno dipinto


XVII

imperfetti ritorni dalle lunghe meditazioni magiche
dalle meditazioni che indagano ossessioni e schianti
dai punti estremi dalle luminose longitudini
dagli alti sguardi dalla fatica delle nevi
imperfetti ritorni dalle lunghe meditazioni magiche
alle stagioni di quaggiù
inzuppate in queste alghe brulicanti di trasparenze
dei drappeggi d’eterocliti eternità trascinate nel fango di quaggiù
occhio sempre nuovo al ritorno delle cose
instancabile ritorno dall’alto dei sogni migratori
abito la musica nel forno dove le ombre cuociono
una lacrima – fredda traccia di lucertola – ci basta – negligenza smagliante
per spegnere in ogni luce il silenzio che ci seppellisce in delle orecchie di aurora
e portando la stella al guinzaglio l’affluente del giro del mondo tenta l’infinito con sfrigolanti imitazioni
non rinchiudere la stella non ancora nella teca degli occhi
stacca dalle banchine la chiaroveggenza dei fantasmi di cui le mani tese da catene
raccolgono il decollo leggero dalle fluorescenti profezie di suicidi
e le speculazioni inesauribili di alti studi d’atmosfere
lebbrosari di nuvole

*

sotto la cupola delle ali parlanti che sa enumerare gli aculei della grotta
la leva della notte tiene nella sua mano di ferro tutta la pesante chioma chiusa a chiave
così nel tuo cuore di folli ammiccamenti il bimbo sta in l’equilibrio
al centro del suo cuore di spugna
all’ombra della forza burrascosa e barbara
e malgrado l’esitazione lunare delle prospettive assise
nei campi di stelle alpine dove crescono gli stemmi selvaggi
gli arbusti impigliati alle capre svitano i bagliori che la foschia travolge
che il volto d’anemone lecca la macchia di luna improvvisa
e che le sopracciglia d’amara lana al di sopra del tempio di sale
s’attardano ai tentativi di schiudersi dalle prue notturne –
i cuori di struzzo nascondono la testa del paesaggio nella sabbia
e il pennello del dolore scivola sempre su tutte le carni
che siano di perle o di coltri
e su tanti altri

*

ai nucleari confini dove la nuvola palpeggia di pioggia
spreme la cima squamata contro la guancia succosa
da dove precipitano le segrete impazienze
i piaceri inesplorati di questi abissi di solfeggi
nel fondo sempre più lontano dell’affetto
si riversano sulla pianura quando mezzanotte mietitrice di tutti gli errori
rimbrotta l’infinito colore che muore della notte di piombo
del giorno di piombo

*

l’uomo celeste brocca da dove il sogno succhia la sua luce di corridoio
raccoglie il polline di pietra all’incrocio dei viali
le cineree gobbe – non ne abbiamo il tempo
l’uomo a sonagli si dipana dal sentimento quando dal mulino s’avvicinano i covoni
e il pesce orecchio stropicciato scorrazza attorno al contagocce del risveglio
ecco l’archetto tende il reticolo articolato del riso – l’aurora
e i guanti tiran fuori le effimere miniere di verità dalle tasche scoscese di vivi prestiti

*

sepolte sono le immagini nei voli alla ricerca degli albatros
e il cuore cacciavite va loro incontro
perché ti ho abbandonato bell’orlatura di sole
alla tenda della finestra vuota appuntata con dei giardini d’arcobaleno
e sebbene l’orizzonte della mia chiara voluttà sia restato a scaldarti
del calore vigile dei tulipani accanto a te
addolorato dai calabroni di nuvole la brace delle canzoni
serpeggia verso l’ineffabile disperazione di granito
la liquefazione dei giorni – i ruscelli si trasformano
e il cuore cacciavite va loro incontro

*

e quando come il sale la tua età sale alla superficie dell’acqua
filtrato attraverso tante lunghe capigliature di femmine e fumi di treni e battelli
le rimesse delle annate di scorie si svuotano nella vallata
e contro i biliardi sdentati sbattono le case degli straccioni
e i cervelli d’asfalto
ci sono anche le occasioni che offre la natura allo sbaraglio
degli olfatti senza filo di assurdi eccessi d’asfodeli
degli spaventapasseri d’anima che non si lasciano avvicinare da alcuna consolazione dei gabbiani di latte
dei vecchi giardini che volteggiano in lacrime nei fronzoli dei fremiti
le medaglie di schiuma piantate contro le macerie di nicchie
che indicano agli stigi dei nostri diluviani saperi la strada da seguire lungo gli asterischi dell’autunno
e quando il fieno fermenta lungo i fischi
che senza ragione si riversano nei profondi scoppi di risa
mentre mostrano dei denti di stalattiti dalle rugiade di cenere
e dagli sbadigli terrorizzati dei crostacei
la tremula fiamma dei pugnali sale su delle scalinate d’araucarie
sulle alte gradinate popolate di nembi
d’aeree precauzioni di vocali gracili
di cuscini che cantano degli ascessi di chiarezza che scoppiano e di venti
dove a ogni passo il problema della nostra realtà sfiora il furore delle ragioni d’azzurro e di follia
e di tanto altro e di tanto d’altri

*

non chiudere ancora gli occhi
nelle custodie di siepe sotto i passamontagna dei pascoli ogni tenda si mantiene segreta
e per la bocca assediata dagli insulti di trombe e di petardi
abbandona il sudore delle mani di resina

*

i pori della terra si aprono con quelli della pelle
e le mani scostate le ferite ancora soffici delle granate
nella terra aggrappate di paura che questa non se ne vola via come biancheria
serrano il suo rigore di sudario sporco
non chiudere ancora gli occhi
le mortifere cavalcate della solitudine
e questo slancio che si ripercuote in me annerito
si spezza in me contro le pareti si spezza
impetuoso come un getto di pesante sole che schizza
che affonda il pestello nella gola sorda del pozzo –
che questo slancio senza nome la bocca contorta dal non conoscersi
dal non poter strappare la notte profondamente piantata nel cranio
possa congiungere attraverso tumuli e polipai sul familiare vassoio
le due eclissi a manovella di maggiorana i popoli disfatti
la caccia all’onda nera che stende la folgorale conoscenza
il cielo che ristagna di falso
e l’amore svezzato d’amarezza sotto la cupola
e il sorridere di smalto innestato nella vena
la chitarra museruola delle diffidenze vistose
il facile arnese nella mano del deserto di rafia
la sorgente corretta nell’anima laboriosa
che cede alla droga di una giovinezza futura
quale crimine insospettato e quale sobrio dolore vegetale
sapranno in un giorno di zaffiro placare le mie mostruose brame
le mie mostruose brame di cielo corrosivo
d’uomo braccato dai morsi seppie degli idoli violenti
mentre la sua vita si sbriciola sotto la pioggia continua delle tentazioni
cieca alle congiure di fascini questi pani d’illusione quotidiana
sul sagrato del sonno dalle lattee incertezze di larve
dove lentamente scorrono le linfe delle nostre dottrine di morte e d’ispirazione

*

allora quella vecchiaia ci esilia dai fondi furfanti degli inferi
ci sbircia pure all’angolo del sole per dove la nostra strada è passata o passerà un giorno
ronzante d’ambizioni ancora sconosciute munita di purulenti pazienze
e sulla cancrena dei pascoli che dissolve la bocca del colore al tramonto
si prepara l’avvento dello spirito dai segni morti dell’antracite
e il cuore cacciavite gli va incontro

*

e che questo siano i nomi dei fiori le rive delle espressioni mescolate all’oro delle isole
i costumi delle strade le punte dei sensi gravi
dove tutto è vero e il giardino delle esperidi non è più lontano che una stretta di mani
dove i linguaggi fanno spumeggiare a fior di pelle la loro feccia
e tutti i supremi disinganni e le loro condotte di fuoco
sigillano il pasto pagano dai silenzi della pietra
che questa sia l’usura prodigiosa degli schiamazzi
che questo siano le vacillanti aspirazioni che circolano nelle erboristerie del sogno
e i bambù che orbitano attorno all’acrobatico cerimoniale dei remi
tanto lenta è la navigazione dello spirito che si affida ai pegni solenni della malinconia
ed è eloquente la lanterna che prelude tante emozioni a fianco della notte
ai pegni solenni della malinconia
che importa – la piroga dei prodigi traccia dei nuovi sentieri
su questa terra di cuori – il suo impero
non chiudere gli occhi
da dove escono i labirinti e gli agili agguati della carne sazia di demenza
e se apri gli zefiri ai fianchi solenni della malinconia
non sobbalzare – il circo inghirlandato di sonagli di pagode si consegna alla peonia
e le commozioni hanno consumato la sella delle cascate orchestrali
così tante notti hanno acceso la loro pipa dalle scintillanti staffe i venti mistici
che alla base della tua parola hanno preso respiro
non chiudere ancora gli occhi
alla cuccia del sole s’è ritirata tutta la musica
le radici l’hanno germogliata fino alle torture delle sfere sporadice
e costeggiandone i fianchi e le frane di metafore
gli occhi delle cifre si sono riempiti del tempo suonato al gioco delle arti

*

e l’amore umano plasmato sotto la crosta del disgusto
che coagula nel suo ventre di ferro l’inconsolabile pallore delle prigioni
e la paura che aumenta su dei pioli di verità
s’inventa e si perde nell’occhio del cinghiale
e i pianti chimerici si regolano su dei trampoli
l’odio che nidifica nella memoria del vino
si scrosta e si ritrova alle ore di selce irrigidita
e la pena – calice di rughe – che l’agreste figura del giorno immemore augura
e beve – prolifica stagione d’esequie le tempie schiodate –
e che questo sia il dolore del vento portato in fronte al nichel
che riempe l’olifante di fosca argilla delle passioni liriche dei clan scossi
le cifre si sono spianate tanto prosegue l’immensità degli istinti
verso questo divino concime – le carogne
e che questo sia il cuore che va al suo incontro d’amore o il disprezzo
ce ne saranno sempre tanti altri e tanti altri
non chiudere ancora gli occhi
né quelli degli altri

giovedì 27 settembre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, XVI

la mano di un uomo 
la mano dell'uomo è il campo dei suoi sogni e l'estensione del suo sguardo. 
la mano, ascoltate, è solo un seme e i suoi frutti sono alberi secolari di cui non conosceremo l'ombra.

dove siete voi popoli piegati sotto al peso degli dèi dell’assurdo?
dove siete voi dèi stretti attorno all’argilla della parola?
l’amore sono valanghe delle occasioni inesistite
nel calice fiero della tua età
berrai si dice ancora tante livide annate
e la tua ebrezza consumerà ogni luce
e i tuoi occhi esauriranno la luce
ma il mio orizzonte non supera più il quadrante d’un orologio
l’arena dove la corsa dei tori ribolle nel mio cuore incalzato dalle accese estati
ci sono dei fiori che s’inginocchiano
mani mozzate
ci sono anche mani che scrivono
pace agli uni gratuità disincantata agli altri a seconda del caso dei pozzi in cui cadiamo
mani incendiarie
le sole che splendono
come agglomerato di epidermidi e di geroglifici

A. Warhol, Portrait of L. Van Beethoven 390, 1987


XVI

le eclissi mostruose fitte d’alberi
tritate nei mortai delle lune senza scontri
i cenci vegetali della dimora rampante
che la nuvola trascina al conflitto degli occhi
hanno conquistato la tua ombra – xilofono di scaglie – montagna
di cui i fulvi letti di sole crepitano frigidi di volts e d’abbandoni
e nelle gole aperte a colpi di incubo
la crudeltà del vento cauterizza il fulmine e la sete della bacca

*

la speranza dai molteplici flussi clima a livello del paradiso
ha logorato il vagone e in ogni viaggiatore trovo uno scomodo domicilio e m'annoio
conosco le onte tumulate nel dolciore dei luoghi cicatrizzati
sulla scala le contingenze che ribattono alla fame di ciascuno
alla sua ribellione alla sua umiltà dove siete voi aspre avidità?
valanghe accumulate ai crocevia delle latitudini
dove siete voi popoli piegati sotto al peso degli dèi dell’assurdo?
rinchiusi nelle stalle assopite d’anfibi
nelle lagune cesellati d’intemperie e traffici
e sotto le prospettive delle arcate nelle penisole maestose d’umanità
sottomessi ad occulte turbolenze alle tirannie verbali e funebri
valanghe delle stanchezze incavate
dove siete voi dèi stretti attorno all’argilla della parola?
le braccia incrociate sulla pancia della caverna la notte magnetica cospira
già con il lento brulichio batteriologico
che da piante ci rende uomini
dalle mascelle ferine per l’impotenza di rigettare l’odio creatore
e pure l’amore valanghe delle occasioni inesistite
tra i suoi denti s’infrange l’intrepido impeto delle dinamo
nel calice fiero della tua età
berrai si dice ancora tante livide annate
e la tua ebrezza consumerà ogni luce
e i tuoi occhi esauriranno la luce
per regali troppo frequenti di libertà
c’è la luce che lava le stoviglie interiori
dei nostri miseri affari con ogni presenza
e la prostituzione alla quale ci abbandoniamo presso le stazioni
dove a ogni ora gli altri noi stessi arrivano carichi d’ingombranti bagagli di vita

*

il mio orizzonte non supera più il quadrante d’un orologio
l’arena dove la corsa dei tori ribolle nel mio cuore incalzato dalle accese estati
e sotto i passaggi imbarazzati di patetiche confessioni ci sono dei fiori che s’inginocchiano
espiando il loro smarrimento sui mercati delle pulci delle creazioni spontanee
accatastati nei caleidoscopici guardaroba le generazioni silenziose
appese ai grappoli di bolle di sapone i polpi
salgono alla putrescente escrescenza del cielo di fasce
e la voce di pappagallo grasso incastrato in una porta
tinge i getti d’acqua illuminati a giorno dove di sonnolenti decorazioni di addobbi si ostentano
un’altra città come un altro dolore
il tempo si beffa di noi

*

vicolo sotto il via-vai delle ruote impastato
mantice che solleva ritmicamente la scorza terrestre
il grembo delle parole tanto amate nutrici madri
che palpano la bramosa carne delle sere
mani che rimuovono dalla fronte dura la fitta coltre di pensieri erosi
alle labbra portano il bicchiere dove si moltiplicano i mondi
fanno la carità e sviliscono il pulito portamento dell’uomo
mani tese sul rottame che trasporterà il corpo abietto
ma il rottame è d’aria e fugge
mani che pregano davanti al rottame d’aria – senza poterlo afferrare
che dicono ad altre mani l’inarticolabile possibilità
ciò in cui l’orecchio s’avventura nelle vibrazioni irrealizzabili e fini
che sole sentono l’oscillazione del disprezzo
mani fresche e musicanti delle serene scoperte
mani capaci nei soccorsi o distruttrici
che coprono di lacrime che mettono in ordine gli erbari degli appunti e dei fatti
mani che catturano e domano le belve sorte in corpi d’uomo
forgiati alla tensione dei parti celesti
e mani che assassinano pure
vendicano l’uomo caduto nell’ossessione animale
mani mozzate
ci sono anche mani che scrivono
pace agli uni gratuità disincantata agli altri a seconda del caso dei pozzi in cui cadiamo
mani incendiarie
le sole che splendono

*

così si meraviglia della cantilenante illustrazione il viale
di cui il focolare è numero lume cuore di barbarie
e sollevando la regione sebbene l’acqua sia vigile
noi noi siamo la vivisezione botanica
che canta per i viali
e gonfia d’atlante l’estinzione opaca degli oboi

*

i bar si aprono alle confidenze e all’interno delle conchiglie
danzano le diaboliche vibrazioni attraverso cui si filtra il passato
tra i denti solidificati sul morso d’aria
ascolto ancora la sega di nuvole
che tagliò l’orizzonte della maturità dalle tracce ondeggianti
e nel tuo cuore il tormentoso contorno e al di là
il burrone s’abbuia e serrato è il brulichio di natanti nella pentola
c’è nell’uomo un paese incolto e arido che questo calpestio si ripete
con battibecchi e crudeltà o terremoti
incudine su di te le scintille degli occhi si spezzano prestigiatore
uomo approssimativo come me come te
perché non sai sparpagliare la tua anima in carte da gioco?
in carte geografiche che i tuoi solidi piedi pesteranno
comparando così la forza delle scogliere con quella delle città e dei nervi
sbucciando negli scali generazionali i frutti delle nuove età oh siccità
sotterfugi sputi d’angeli che incollano grasso di medusa
escremento del mare vendicatore

*

e il melmoso mollusco si risveglia agglomerato di epidermidi e di geroglifici
la città stretta nella boa delle sue periferie circondata a fatica dalla misera moda
e tutto fluisce nella fangosa mediocrità da dove s’è schiuso un canto vagabondo
ognuno se ne va dietro al carro funebre della propria densa esistenza
che il baccano nella sua chiassosa fossa comune fagocita e soffoca lentamente
e mentre crepa il timpano del tamburo da dove schizzano le nuove versioni l’elettrico diluvio
sfiora l’improvvisa esalazione e il filo che risale all’origine dell’angelo
alle crisalidi degli astri miagolanti che galleggiano sullo stagno del tempo
illumina sul suo tragitto lo schieramento nuziale i mancamenti di piovre lattee