martedì 18 settembre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, XIV

i versi della consolazione

“alza i tuoi occhi”: è questo l’invito del poeta, “alza gli occhi più in alto”.
cosa c’è sopra i nostri occhi, cosa c’è sopra di noi?
chiudi gli occhi e alza gli occhi
“al lento inferno del tuo abbraccio caldo
una voce si riversa e si spegne
una voce ha lasciato l’impronta delle sue cinque dita di cristallo sul soffitto”
tu senti questa voce, fratello? tu senti la tua voce, uomo?
“e una foresta vorrebbe bruciare tanto tremolante è il suo calore
un uomo vorrebbe bruciare una foresta di uomini
un uomo vorrebbe piangere un uomo
un uomo vorrebbe gettare la sua testa nel fiume fresco la sua testa
una donna vorrebbe piangere sull’uomo
un uomo è così poca cosa che un fine alito di vento lo travolge
l’uomo
ed è infinita la santa varietà della tua specie

uomo approssimativo come me come te lettore e come gli altri”

qualcuno mi chiede parafrasi, ma che posso aggiungere io a questa Bellezza?

A. Wildt, Vedova, 1894, GNAM, Roma



XIV

alza i tuoi occhi più in alto che le alluvioni delle pesanti nevi
alza i tuoi occhi là dove le mascelle sbattono di tanta severa chiarezza
verso i mulini a banderuole degli astri è così veloce il turbine nella sua rotazione
che i suoi raggi non macinano più il tributo di fondotinta al cielo la polvere
i chicchi di caffé bruciato a valle della notte
la farina come sono bianche le camicie dei dirupi
quale calamo scrive la bizzarra lettera circolare dell’orizzonte querulo
che i tuoi occhi dal centro scaccia verso il più confuso e lontano dei sensi
si alzano verso l’eterna incandescenza
che assorda l’apparenza delle cose e la loro parvenza d’eroismo

*

abbiamo spostato le nozioni e confuso i loro vestiti con i loro nomi
cieche sono le parole che non sanno ritrovare che il loro posto fin dalla loro nascita
il loro rango grammaticale nell’universale certezza
è davvero gramo il fuoco che credemmo di vedere covare in loro nei nostri polmoni
ed è spento il barlume predestinato di quello che dicono

*

ma quando il ricordo viene a minacciare la sua maschera di grido di delitto
che vuole strappare le lettere delle parole
la paglia esce dal materasso del mio corpo che resiste tanto quanto il mio dio mi opprime
e così duro oh cielo febbrile e
e m’infrango lungo la struttura di ferro
e calpestato come un frutto sotto il piede distratto
piango del fiele succulente liberazione
se avessi potuto ammazzare il ricordo preda in fuga
che la parola al suo arrivo diviene sudicia che non la strozzi mica tu
prima che non straripi dal secchio dell’atmosfera
che non resti impigliata alla mostruosa bava delle stalactiti
all’orlo del sorridere le grotte animali
che il ricordo si annienti folgorata sia la sua gloria e il miraggio
la velocità contagiosa con la quale si propaga
raggiunge le più recondite contrade in altezza e in orrore

*

e tuttavia gli oggetti son qui consolazione che sfiora le sensazioni
non ci sono che i loro nomi che siano marci putrefatti guasti
la luce ci è un dolce fardello un mantello caldo
e benchè invisibile ella ci è tenera amante
consolazione
canto l’uomo vissuto alla potenza voluttuosa del granello di tuono
che si avvolge anche della sontuosità siderale della polvere e brilla
consolazione
e quando uno dopo l’altro saremo passati per il passaggio supremo
instancabile girasole giostra di sole
e che la tristezza del nostro soggiorno sarà stata spazzata via da questo mondo
dalla cima della cupola di raggi scenderanno delle lacrime chiare
e l’amore sarà abbastanza forte per camminare a fianco della lenta coscienza delle piante
consolazione
nelle culle volanti dove cresce la lenta coscienza delle piante e delle cose

*

il nero tunnel attraversa la testa cotta in un forno
contorno e dimenato contro i muri gettato spazzato in mucchi come immondizia
esco tremante e bendato di larghi solchi di crepuscolo
una parola
convalescenza
una parola
secca e cupa
imbacuccata in delle ferite d’inverno
una voce sganciata dai sipari
consolazione
cellule crude stratificate
al lento inferno del tuo abbraccio caldo
una voce si riversa e si spegne
una voce ha lasciato l’impronta delle sue cinque dita di cristallo sul soffitto
dispiega il suo chicco di fuoco concentrico
sotto il messaggio del fachiro luminoso
sgrana dei miti e dei denti dagli occhi

*

ora l’albero è divampato dalla terra
e l’esplosione ha ancora paralizzato lo scoppio sparso
ma nel mio cuore non è permesso alle radici degli istinti variabili
di uscire col benefico baccano delle liberazioni e delle colombe
c’è forse ancora bisogno a lungo per la rigidità delle corde
che io riempia il bicchiere già traboccante di così minuscoli lamenti
oh mio dio mio violino non è ancora il varco tanto atteso
che al fracasso dei pesi morti delle vulcaniche sorsate
mentre attraversava gli argini e i filtri potrebbe un giorno riversarsi
nel cavo della tua mano impassibile alla base di tutto
che forse una seconda sostiene ancora
impasto degli astri

*

un tronco d’albero posto sul bordo
fuma ancora di dense nuvole
e una foresta vorrebbe bruciare tanto tremolante è il suo calore
un uomo vorrebbe bruciare una foresta di uomini
al suono delle truppe fosforescenti nella notte delle mie consolazioni
un uomo vorrebbe piangere un uomo
un uomo vorrebbe gettare la sua testa nel fiume fresco la sua testa
una donna vorrebbe piangere sull’uomo
un uomo è così poca cosa che una fine rete di vento lo travolge
l’uomo

*

ma che importa l’uomo al crocicchio di spade
che sulla pista del cielo mette alle prese saetta e stella
nelle cantine del cervello cuociono la muffa o l’aurora
fermenta il pasticcio che marcisce nel fondo delle antiche acque
e il suo sapore di vino crepita nella gola
è secca la mia lingua e avido il petto di nuovi inferni
mentre pasce sulla prateria schiantata da fienili e da travi
mentre sbatte al vento orifiamma e palato
la lingua dello stendardo selvaggio batte contro la membrana del cielo
e la gola del cielo così secca scricchiola come i vecchi solai
rossa è la sua chioma che cade sulle spalle dello zenith
amara la scarlatta moneta con la quale ci rimborsa
la pazienza che abbiamo messo nell’aspettare
e irritata dalle beccate della folgore latra la tempestosa stretta da cui siamo assediati
fino al fosso del giorno dove gravitano i suoi germogli attorno alla lanosa acidità del vagone di terza classe

*

è il cimitero di campagna saccheggiato
mal rasato mal scarabocchiato di lievito e gessi
che al fondo fertile del nostro fervore moltiplica il divino reticolo di rizomi sovrumani
e nonostante l’ombra vana scorra per il delta di fumo
e l’usura degli arredi ci dica l’antica miseria
delle sovrapposizioni di generazioni e di famiglie o di processi
piove dal sole sulla brace di sole
e delle barche di sole si annegano nella germogliazione del niente
nuovamente sulla lingua s’incastona il petalo di sole dal gusto della partenza
la mia respirazione non s’arresta che alla frontiera della penitenza
piove dal sole grosse lacrime trillano sulla fronte del ghiacciaio
piange dal sole e la zucca del mondo ne è piena
un occhio di vetro il mondo galleggia nel vetro dell’universo
verde è il suo sangue verdi le impetuose correnti di brandelli e di vento
o di latte che nutrono i neonati nei luoghi astrali
ed embrionale il turbine così lontano
che lo spavento sarà già morto da molto tempo
quando la sua immagine avrà raggiunto lo spazio che ci separa da esso
questo è il canto di colui che vede brucare il sole
e sulla tempia del mondo appoggia le labbra di rivoltella
le cifre sono allora degli angeli distillati nei sussulti delle vene accelerate
e benché l’ardente ortica abbia toccato la mia fronte al posto del sole
canto più veloce che sul cuore il rullio della grandine
e affannata freme la palpebra del mattino
ventosa aggrappata alla carne frenetica dell’anno

*

continuate timori angolari a far risuonare al di sopra delle nostre teste
lo scalpitio degli arnesi chirurgici
indefiniti presagi sondate la profondità lampante dei pozzi
dove ammassiamo alla rinfusa conoscenze e lirismi
ma dai nostri pugni serrati e cementati di provvidenze
mai non potrete mai strappare quello che la prova dell’irrisorio briciolo
coglie all’incertezza di un giorno consolatore
all'indietro lebbrosi pensieri di morte di vermi
consolazione
lasciate ai contadini di colori e di cieli la promessa succulenta
dell’uomo che porta nel suo frutto il bruciante e propizio schiudersi di un mattino
consolazione
la speranza si cicatrizza sulla tristezza delle coscienze disboscate
una malattia come un’altra un’abitudine da prendere
consolazione
perché è vasta la distesa della pianura che sorvegliano gelosamente i doganieri del varco
ed è infinita la santa varietà della tua specie
uomo approssimativo come me come te lettore e come gli altri


giovedì 13 settembre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, XIII

Quest'estate le rose sono blu; il bosco è di vetro. La terra drappeggiata nel suo verde mi fa tanto poco effetto quanto un fantasma. Vivere e cessare di vivere sono delle soluzioni immaginarie. L'esistenza è altrove.

A. Breton, finale del I Manifesto del Surrealismo, 1924

R. Magritte, Georgette Magritte, 1937


XIII

c’è davvero un paese bello nella sua testa
lì dove la promessa del cielo lo tocca con la sua mano
nuda è la pelle del cielo e scorticata dai grappoli di pietre
i ripidi itinerari dei convogli di rovi
hanno limitato di aria i febbrili profili
e nella cisterna della sua memoria lo sciame dei popoli
maturati nei perfidi livellamenti
disgrega la schiuma senza fiato la ragione senza via d’uscita
il suo dannato capovolgimento si paralizza qui dove finisce la tua voluttà accresce il vuoto
si spacca lo sperone delle steppe squallide contro il percorso dei dolmen
ventilatore che raschia nel feretro di risonanza dell’abisso
abisso ebbro di profondità mugolanti
imbottito di fini scritture di vertigini disdegnose e d’alghe
i nostri sguardi che scivolano da perpendicolare a perpendicolare si dissolvono
disegnano degli occhi di petrolio sulla loro pozza
così ti fisso ai piedi della montagna
assisa come la notte è pronta a dilagare
e sui passi vuoti che affondano le tue andature
serpeggia la morte alito di riappacificazione

*

ma sulla passerella che tiene nel suo equilibrio
il piano della spiaggia e il ponte della nave
tu barcolli flusso del giorno
portando i piccoli miracoli di tutti i giorni
sul fiotto delle tue braccia e dietro te la notte piagnucola
con delle fiaccole e della selvaggina ella viene sparsa
sbottonata e gettando nei fossati e nelle miniere
dei grossi brandelli di grasso levante
e il vento si alza scansando la notte soffocante
come gridano soccorso gli occhi sbarrati
e braccia all’aria che battono i cenci dell’aria
e dilaniata dagli degli assalti di sciacallo nelle montagne
la notte si lascia cascare strato dopo strato densa
cataratta in gradinate d’asma che scende nelle arene
percossa sconfitta muta fino all’apertura dei cancelli dell’indomani

*

una curva gettata lontano trema nello sguardo
il volo temprato d’acciaio di un uccello obliquo
d’inverno è il suo gorgo di diamante il becco
mentre spara il suo stridore aspro sul vetro smerigliato
che sul vergine abisso ti serve un impenetrabile
pasto di lutto che giace in un fiocco scialbo di bruma

*

non senti tu il lungo graffio sul tuo petto teso
estensione del violino il passeggero umore
cucito nel precipizio il filo del torrente
capello perduto una lacrima una lama di coltello
ha fuggito il lamento ozioso del crinale di creta
che affiorando dai fondotinta scarta i petali
e sulle pianure pregne di paesane speranze
accumula dei biancori successivi di letto

*

le grotte si scavano nell’ammasso della tua età
da dove discendono da robuste stalactiti
e il freddo spegne l’aria brizzolata
simili alla follia i morsi calcarei che i sogni hanno ghiacciato
lungo le palpebre della terra aperta con le unghie
hanno tracciato nella tua vita le sanguinanti oscurità
di cui i sentieri viventi sono soli la mia luce
e lontano nella tempesta dell’essere s’accoccola l’infanzia delle passioni
carezzata in macerie di grida ardenti di terrori
alla radice del mondo nelle culle dei germogli
l’uomo nidifica i suoi significati e i suoi proverbi

*

intrecciati di ciglia i pozzi disarticolati sulle scogliere
ospitano il mattino spoglio di dubbio e di preghiera
solleva il coperchio della prigione delle voci
che anche alla deriva queste possano fiutare l’eloquenza degli scontri
e sbrogliare le convulsioni le capriole dei segni
s’impigliano ai promontori malvagie sopracciglia del mondo
che queste possano rivoltare la traiettoria dell’ordine
o abbeverare il cammino dei sorrisi lungo delle carovane
il sole che dimenticato sul quadrante delle vigne
fermenta il sale delle nostre strette rimette sulla via
l’affannata carne esitazione latente

*

vedi lo schieramento di cadaveri in me?
è il ponte dei dolori in ranghi coagulati di età
la morente oscillazione dei sentimenti che non s’illuminano più
allo sfregamento degli occhi contro la dura luce vedi?
nonostante l’argomentazione per gettare delle lettere di pioggia nella pattumiera
le piante rampicanti delle tue vene
lottano contro il peso della luce scoscesa
spasmodiche le loro dita cingono la mia testa e la notte
scioglie le leggi della giostra di spine
cervello di cui i canali all’alba approdano
al nodo del giorno e della notte quando si stringono le mani
alla fonte delle strade costeggiate da peli e da denti
il tempo corre per le vie lungo degli addii
mentre sullo schermo le giocolerie del demonio risalito
crepitano in fuggitive scintille intessute d’acqua
e nei cuori gli squilli delle fanfare robuste
portano gli anni alla conquista dei rancori
ora la cupola del silenzio affonda il suo berretto sulla città
un angelo non ha paura di restare sospeso in aria
dopo aver gettato la chiave dalla finestra
qual è questo sorriso perpetuo che ci osserva
e che le notti d’estate chiamiamo mistero
il segreto al tuo orecchio fa gemmare dei fiori dei frutti negli orecchini
l’alfabeto della tua collana di denti
sei così bella da non saperlo
al chiarore delle antiche colonnate chiavistello di rime
porta al cielo la sua lettera d’amore
senza trovarlo senza trovarlo
il treno lacera il paese

*

i panni avvolgono le piantagioni
i piani dispiegano le loro piume di pavone
sulla fronte delle aureole ma al riparo
il grande sarto taglia le praterie della terra
stese i rumori delle oasi seccano da un polo all’altro lobo auricolare
diffidando delle vette apoplettiche
il passero si stritola si precipita di crisi in crisi
verso gli schiumosi torrenti di criniere e di disagi
lassù i ghiacci spezzati sulla testa del paese
scampanellano dal cielo i gloriosi riflessi
montagne lisce e muscolose sulle quali le voci si impennano
montagne drappeggiate con fiori d’infinito
riccioli incastonati nelle glabre carni
perché le meteore si affrancano dalle virtù spettrali
corazze sgualcite nelle tasche oceano
montagne pettinate lacerate e fitti crepacci
il laccio dei fianchi in pendio serra il corsetto della valle
i clamori martellano le stive dell’essere
e sparsa di pietre preziose la lucertola sabbiosa trascina la sua traccia dal sentiero
dissoda il ghiaccio gremito di crostacei
percorsi dai falcetti cadono
dai getti di chiarore i bruschi colpi
nel tamburo dei giochi di massa

*

così s’ammucchia l’uomo mentre raccoglie le generazioni perdute
dai cesti di vendemmia
nella sacca della collina che da altri tormenti s’arrotoleranno davanti a loro
ciascuno la sua tormenta da un estremo all’altro stringendo le briglie dei cammini
spezzando le serre dove servono i nani
ciascuno la sua tormenta da un estremo all’altro canta
alle svolte pericolose
portando le madri e le piante in mano
che da altri tormenti s’arrotoleranno davanti a loro
sepolcri di vino che svoltano al suono dei rovesci la bufera
assordate le estati delle nostre coltri nel sangue
fino alla deflagrazione delle frontiere in solari brandelli di marea
le barche scricchiolano al richiamo sbracato dell’infido fondale
per il quale scivola fuggitivo un altro fondale che capitola di fondo in fondo
di trasparenza in trasparenza non ci sono che le sonde astrali che raccattano
dalle ore di vetro la celeste messe
ma l’uomo alle sue pene si affida
e nei granai della sua testa i sorci s’ingozzano d’infinito
uomo marcato da punteggiature funebri
spazzato all’interno dalle correnti di frenesia e d’aria
la civetta immobile sulla tua spalla
ti ficca nella testa la sua dura chiaroveggenza
la sterilità del castigo stabilito

*

magro pozzo mulino ruotato dall’asino funebre
il groviglio delle corone di lutti
le mani della scala mobile
riversano degli uomini che si appiattiscono e si precipitano in pile trasparenti
nello stretto senza fine e senza auspicio
l’uragano ha rimosso la sua lotteria dalla loro notte
ha rimosso le stelle dai loro occhi
e le campane della notte le ha rovesciate nel mare
e anche i mari le ha rovesciate
ecco quel che noi sappiamo dei mari rovesciati nel pozzo del cielo

*

nonostante l’alone cagliato della luce 
una tiara d’incenso sul capo del promontorio
si schiude dalle trecce saturnine
e ritto in piedi incandescente fiamma il tuo cuore nella mano
colto nelle urne traboccanti d’angosce
faro che ammicca del sole
il tuo occhio passato per tutti i buchi i cedimenti delle ore
profetizza la sorprendente chiarezza del cammino

*

che ci farà condurrà fuori dagli ingorghi delle cose e della carne
gli applausi del mare si schiantano contro di te
diga tragica e indolenzita sul primo gradino dell’anfiteatro
vecchia piega di pietra sulla fronte provata del mondo
i relitti e i rottami gettati nel mare
e quelli del mare nel mondo
crucciata ruga di terra congestionata
ormeggiata nella gola delle tenebre marine
aggrappata alla nerezza della poppa sfrontata dell’avvenire
mentre fa fronte alle grinfie mentre si schianta nelle onde ritta in piedi
solco immerso nell’inconcepibile imprecazione del tempo
fino al compimento dei secoli
fino allo sfinimento dei cicloni nei depositi elisei
povera piccola vita che perde terreno ogni giorno
inciampata caduta precipitata povera vita
povera vita incalzata dai presagi selvaggi calpestata
e nondimeno: mascella d’incrollabile eternità e insolenza
fortificata e merlata fino alla vetta di dio
che nessun occhio ha potuto scalare
nessuna guancia riscaldare d’umana tenerezza
ma per quale bene inerpicarsi in cima filtrarle nude
quando l’umana tenerezza non sa più riscaldare le mie allegrie
che importa l’amico il solo la notte la noia
io porto in me la mica di pane la morte l’amico
e il grado di freddo ogni giorno aumenta in me amico
diviene amico che importa l’abitudine
che importa l’amico il solo la notte la noia
un giorno un giorno un giorno metterò il manto dell’eterno calore su di me
seppellito dimenticato dagli altri a loro volta dimenticati dagli altri
se avessi potuto attendere il luminoso oblio