sabato 1 ottobre 2022

Bombo road


Alle prime luci dell’alba il piazzale dei bus a Bombo Road iniziò a pullulare di persone, volti assorti nei propri viaggi e nei propri impegni. Kampala si ridestava lentamente dopo l’ebrezza notturna, nell’esatto momento in cui il baccano delle strade si riaffollava febbrile.

Avvolto in una felpa, nascosto in un cappuccio, rimanevo seduto su una sedia azzurra a rimirare il risveglio di questo cosmo straniero. A un tratto uno stormo di uccelli passò denso sopra i palazzacci arancioni del quartiere, una flotta fitta di uccelli dalle ampie ali, rapidi, potenti, che mi fece alzare lo sguardo, facendomi considerare come lo straniero, qui, ero io.

Da questo parcheggio mi aspettava un lungo viaggio dalla capitale dell’Uganda ad Arua, 800 km dall’altra parte dello stato, in un pullman strabordante di voci, di suoni, di colori, quella che potreste definire un’avventura.

Quando si aprirono le porte del bus “Nile Star” esitai alcuni minuti, scrutai quel che facevano gli altri, la ragazza dalla gonna chiara e le treccine ben accomodate, il giovane che si lavava i denti di fianco alle latrine, i drivers che gettavano con occhi di brace le valigie nelle stive, e alla fine cheto cheto salii a prendere il mio posto, nascondendomi in disparte.

Schiacciato in una seduta interna, appoggiai la testa sullo zaino, ormai abituato allo sguardo giocoso di bambini, donne, adulte attorno a me; non era la prima volta che diventavo l’oggetto di questi esami e neppure che prendevo parte a questa cerimonia della partenza, tanto da conoscere a memoria il prezzo del biglietto: 50000 sterline ugandesi, poco più di 12 euro, per quello che è ritenuto il modo più confortevole per arrivare al nord ovest dell’Uganda, alla terra dei Lugbara.

È a questo punto che una ragazzina velata sui dodici anni prese posto alla mia destra, vicino al finestrino iridato di polvere, aggiungendosi alla celebrazione, e anche il resto della vettura si riempì in pochi minuti finché, quando ormai alle 8 di mattino la vita cittadina si era riaccesa nella sua euforia frenetica, il viaggio finalmente incominciò.

Era iniziata la nostra danza tra i sedili plastificati del veicolo, ritmata dalle buche e i dossi della strada, accompagnata dai colori assurdamente sgargianti dei vestiti.

In questa tipologia di viaggi, che possono diventare estenuanti per lunghezza e intensità, sono solito praticare una tecnica di straniamento per raggiungere un’apatia semidefinitiva, se non alla totale incoscienza, ma non potevo non rimanere affascinato da quella sorta di horror vacui che si manifestava con irruenza in questo rito collettivo.

Al chiasso del motore si aggiungevano infatti le chiacchiere accalorate e le risate dei viaggiatori, a cui si mescolavano lo sfolgorio e il caldo aderente del sole, che poi si sommavano ancora alle canzoni decise e colorate dei video musicali a pieno volume trasmesse sulla tv del bus, per non parlare delle richieste dei venditori ambulanti che assediano il nostro “Nile Star” a ogni fermata: in questo universo sovraffollato non è concesso alcuno spazio inerte e tantomeno un microbo di silenzio.

Così, mentre il percorso proseguiva continuo, a 60 km/h lungo questa strada dritta e dritta e dritta, fuori per ore si srotolò un canto di paesaggi selvaggi e meravigliosi, un continuo papiro di bananeti, mercati, distese verdi a 60 km/h. A 60 km/h leggevo ammutolito quest’abbondanza impudica, finché non mi accorsi che, ogni volta che volgevo lo sguardo verso il finestrino, anche l’adolescente musulmana piegava prontamente il suo volto all’esterno. Un gesto meccanico, spedito e assoluto: anche quando, attraversando il Nilo, sul ponte mi girai a mirare la spuma generata dalle cascatelle del fiume, la ragazza si voltò simultaneamente, come in un passo ardito di una coreografia, un gesto studiato con cura indefessa. 

Capii, con un colpevole ritardo: un uomo aveva infatti guardato verso di lei e le era imposto non solo di non incrociare questi occhi, ma di non mostrare il suo volto, come un mistero che debba soggiacere arcano ed eterno.

In effetti, come negarlo, tra noi c’era una distanza abissale, fatta di storie e studi e famiglie e tradizioni differenti, forse anche divergenti, quindi non mi stupii troppo e accettai presto questa situazione, mentre la nostra stella del Nilo proseguiva lungo questa strada dritta e dritta e dritta. 60 km/h.

Fuori il mondo non si intimidiva, fuori stavamo passando per le ricchezze di Parkwatch, fuori alle fermate uno stuolo di inservienti ci offriva ancora ananas, bibite, manioca fritta, arrosticini impolverati a poche migliaia di scellini ugandesi.

Il percorso, dopo più di otto ore, aveva iniziato ad affaticarci e, per distrarre i passeggeri, iniziarono a proiettare anche dei film: il conducente iniziò a proporci cortesemente una produzione nigeriana incentrata su una macchietta dai baffetti alla Charlie Chaplin, tale Ukwa, con le sue peripezie, più idiote che comiche, per poi passare a un film sui combattimenti dell’eroe russo Voica, infine terminare con un classico di fine anni ’80, “Lyonheart”. Il bus intero, come un’unica platea, un unico spettatore, fu rapito dall’evocazione così esotica di questo film, questo ragazzo bianco piccolo ma così potente nella lotta, la potente ragazza bionda che si innamora di lui, e rimase ancora alcune ore sospeso alle mosse cruente di un giovane Jean-Claude Van Damme. 

Anche io mi lasciai incantare dalla dolcezza di questa storia dal lieto fine, all’inseguimento di un oblio che durasse qualche altra ora e mi portasse docile sino ad Arua, ma, nei dintorni di Nebbi, 150 km al traguardo, sentii muoversi qualcosa alla mia destra: una testa poggiava leggera sulla mia spalla. Provai un breve sbigottimento ma controllai con la coda degli occhi ed era proprio così: una testa poggiava leggera sulla mia spalla. Provata dai chilometri e dal caldo, la ragazza velata si era addormentata e ora poggiava leggera, quasi schiva, alla mia destra, come se quella diffidenza tanto distante di prima fosse stata erosa dalla stanchezza.

In quelle ultime ore avrei voluto scrivere di Gloria, ma non mi riuscii a spostarmi, a incrinare un equilibrio fragile come uno sguardo mancato. Avrei voluto ricordare di come un giorno una motocicletta l’avesse travolta e di come ancora oggi questa bambina di 5 anni mettesse continuamente un cappello di lana rosso e bianco per nascondere le larghe cicatrici sulla nuca, un cappello che avrebbe messo per tutta la vita. Avrei voluto pensare ancora a Winnie, di come dai suoi quattro anni, da quando suo padre l’abbandonò e sua mamma rimase paralizzata per un incidente, studiò e lavorò per sostenere la propria famiglia e il proprio fratellino. Ora era maestra, moglie di Godfried, maestra alla scuola, ma soprattutto racchiudeva ogni raggio di speranza. Avrei dovuto trovare le parole impossibili per esprimere l’abbraccio di Anuarite, quando mi vide da lontano a Maratsà e mi corse incontro, un abbraccio che non avevo mai ricevuto prima, forte e impulsivo come può stringere solo l’amore di un dio.  

Tuttavia non potevo muovermi, mi trattenevo anche quasi dal respirare, mentre la ragazza velata si era assopita sulla mia spalla, dato che sentivo come mi fosse restituito un pezzo di fraternità, forse un’altra piccola parte di me. Di questi minuti, silenziosi, non so aggiungere molto altro, ma è come se le nostre distanze si annullassero e, nelle nostre differenze, ci riconoscessimo a fianco, lungo questa strada dritta e dritta e dritta, a 60 km/h.

Quando arrivammo alle strade di Arua e la danza delle buche si tornò a farsi più scatenata, lei si scosse, rialzò il capo con un timido turbamento, si stirò il velo con la mano destra.

Qui l’autista, dopo dozzine di manovre nel traffico per crearsi un parcheggio, gridò a tutti di scendere e di ritornare nella polvere rossa della ressa stradale, con la stessa enfasi di un presentatore che annuncia al pubblico il termine dell’ultimo spettacolo serale.

Era il segnale inequivocabile che questo viaggio finiva, nonostante per noi viandanti se ne aprissero ancora altri. Noi due, arrivati come stranieri e goffamente bardati dalle nostre storie, ci salutammo impacciati, in lingue differenti, poi tornammo alle nostre strade distanti, distinte. Forse per un’ultima sfida tentai di fissare le sue pupille scure, che ancora scapparono nell’indefinito, ora però non avremmo più potuto negare di aver condiviso questo breve lungo viaggio, in modo chiassoso e in modo velato al tempo stesso: ci siamo incontrati per la prima volta nel parcheggio affollato di Bombo Road, Kampala. 

Quando scesi dal bus, il piazzale stanco di Arua era ancora ricolmo di bagagli e tenebre, di viaggiatori e fari elettrici.


venerdì 30 settembre 2022

Le Città Visibili



Cosa è una città, in breve? Un nodo di fili, di strade, di case: il nodo delle nostre storie e dei nostri legami.

Visibili e invisibili.

domenica 18 luglio 2021

Le stelle di Dante

 

"Poco parer potea lì del di fori;

ma, per quel poco, vedea io le stelle

di lor solere e più chiare e maggiori.

Sì ruminando e sì mirando in quelle,

mi prese il sonno; il sonno che sovente,

anzi che ’l fatto sia, sa le novelle"

(Purgatorio XXVII, 88-93)

Notti magiche, di con-siderazioni e di de-sideri.

Perché "davvero, per coprirsi di un'alba, il cielo dovrà essere puro come la notte" (P. Eluard).








giovedì 4 febbraio 2021

c'era una volta un re

rimane sempre in una tasca risvoltata

o in fondo all’ultima fessura di un cassetto 

serrato quel dente perso che la fata 

non si prese e quella piuma che non fu pavone

lui finge spesso di sostenere il peso

di queste gambe e questo timore 

che non si asciuga ripetendo 

a occhi chiusi la favola

della buonanotte e della strega

che non tornò, non lo liberò nel paese degli orchi

qui vive e ogni tanto salta ancora

tentando un volo rapace: 

c’era una volta un re, lui lo sa

 


lunedì 5 ottobre 2020

Una Rosa e il Cielo


 

lo ammetto, mi capita spesso di tornare sul luogo del crimine, soprattutto quando il delitto è voluttuoso:

𝗺𝗲𝗿𝗰𝗼𝗹𝗲𝗱𝗶̀ 𝟭𝟰/𝟭𝟬 𝗮𝗹𝗹𝗲 𝗵 𝟮𝟬.𝟰𝟱 nella nostra amata 𝗕𝗶𝗯𝗹𝗶𝗼𝘁𝗲𝗰𝗮 𝗱𝗶 𝗟𝘂𝗿𝗮𝘁𝗲 𝗖𝗮𝗰𝗰𝗶𝘃𝗶𝗼

un'ora assieme, qualche verso e una chiacchierata:

𝙫𝙞 𝙚̀ 𝙢𝙖𝙞 𝙘𝙖𝙥𝙞𝙩𝙖𝙩𝙤 𝙙𝙞 𝙞𝙣𝙘𝙤𝙣𝙩𝙧𝙖𝙧𝙚 𝙪𝙣 𝙨𝙤𝙜𝙣𝙤 𝙣𝙚𝙜𝙡𝙞 𝙤𝙘𝙘𝙝𝙞 𝙙𝙞 𝙪𝙣𝙖 𝙙𝙤𝙣𝙣𝙖?

"𝘓𝘢 𝘮𝘪𝘢 𝘥𝘰𝘯𝘯𝘢 𝘥𝘢𝘨𝘭𝘪 𝘰𝘤𝘤𝘩𝘪 𝘱𝘪𝘦𝘯𝘪 𝘥𝘪 𝘭𝘢𝘤𝘳𝘪𝘮𝘦

𝘓𝘢 𝘮𝘪𝘢 𝘥𝘰𝘯𝘯𝘢 𝘥𝘢𝘨𝘭𝘪 𝘰𝘤𝘤𝘩𝘪 𝘥𝘪 𝘴𝘢𝘷𝘢𝘯𝘢

𝘓𝘢 𝘮𝘪𝘢 𝘥𝘰𝘯𝘯𝘢 𝘥𝘢𝘨𝘭𝘪 𝘰𝘤𝘤𝘩𝘪 𝘥𝘢𝘤𝘲𝘶𝘢 𝘥𝘢 𝘣𝘦𝘳𝘦 𝘪𝘯 𝘱𝘳𝘪𝘨𝘪𝘰𝘯𝘦

𝘓𝘢 𝘮𝘪𝘢 𝘥𝘰𝘯𝘯𝘢 𝘥𝘢𝘨𝘭𝘪 𝘰𝘤𝘤𝘩𝘪 𝘥𝘪 𝘭𝘦𝘨𝘯𝘰 𝘴𝘦𝘮𝘱𝘳𝘦 𝘴𝘰𝘵𝘵𝘰 𝘭𝘢 𝘴𝘤𝘶𝘳𝘦"

(A. Breton)

𝗶𝗻 𝗽𝗿𝗲𝘀𝗲𝗻𝘇𝗮 (𝗰𝗼𝗻 𝗽𝗿𝗲𝗻𝗼𝘁𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲) 𝗲 𝗶𝗻 𝘀𝘁𝗿𝗲𝗮𝗺𝗶𝗻𝗴 𝘀𝘂 𝗬𝗼𝘂𝘁𝘂𝗯𝗲


mercoledì 22 luglio 2020

152 proverbi surrealisti, Eluard - Péret

mio zio Gianni è senza dubbio uno dei miei venti zii preferiti: un uomo sincero, rude e al tempo stesso tenero, alle volte anche un po’ somaro.

ecco, mio zio Gianni mi ha chiesto a più riprese il senso della serie di post che, quasi per sfida, sto pubblicando giorno dopo giorno; forse anche qualcuno di voi si sta domandando se io sia impazzito del tutto: non più del solito.

< 𝐜𝐞̀ 𝐜𝐡𝐞 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐢 𝐩𝐫𝐨𝐯𝐞𝐫𝐛𝐢 𝐬𝐨𝐧𝐨 𝐩𝐫𝐨𝐩𝐫𝐢𝐨 𝐚𝐬𝐬𝐮𝐫𝐝𝐢 > edulcorando quanto dice mio zio Gianni < e, malgrado i miei sforzi, mi sembrano solo idiozie>.

già: in effetti, nonostante siano stati composti quasi un secolo fa da grandi scrittori come Paul Eluard e Benjamin Péret, sono assolutamente insensati. eppure, risponderebbero loro due, 𝐪𝐮𝐚𝐧𝐭𝐨 𝐯𝐢𝐞𝐧𝐞 𝐩𝐫𝐨𝐜𝐥𝐚𝐦𝐚𝐭𝐨 𝐪𝐮𝐨𝐭𝐢𝐝𝐢𝐚𝐧𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐟𝐢𝐧𝐞 𝐧𝐨𝐧 𝐬𝐢 𝐦𝐨𝐬𝐭𝐫𝐚 𝐦𝐨𝐥𝐭𝐨 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐫𝐚𝐠𝐢𝐨𝐧𝐞𝐯𝐨𝐥𝐞, neppure le nostre piccole verità intime. loro lo sostenevano alla fine della prima carneficina mondiale, ma forse vale ancor più oggi, da quando si è trasformato il pensiero in chiacchiera e dappertutto 𝐬𝐢 𝐩𝐨𝐧𝐭𝐢𝐟𝐢𝐜𝐚 𝐬𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐬𝐨𝐬𝐭𝐚, 𝐬𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐬𝐢𝐥𝐞𝐧𝐳𝐢𝐨.

< ne abbiamo fin troppi di queste fregnacce elaborate > si scalda uno dei miei venti zii preferiti < meglio parlare in modo chiaro e propositivo! >.

diavolo! è proprio così! confesserebbero i miei due amici: queste immagini nascono semplicemente dalla nostra interiorità più intima e sacra, infatti Surrealismo è innanzitutto liberazione del nostro spirito, della nostra immaginazione. 𝐮𝐧𝐚 𝐟𝐚𝐧𝐭𝐚𝐬𝐢𝐚 𝐜𝐡𝐞 𝐡𝐚 𝐥𝐚 𝐩𝐨𝐭𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐝𝐢 𝐜𝐨𝐧𝐜𝐫𝐞𝐭𝐢𝐳𝐳𝐚𝐫𝐬𝐢 𝐢𝐧 𝐥𝐮𝐩𝐢 𝐬𝐞𝐥𝐯𝐚𝐠𝐠𝐢, 𝐝𝐢𝐥𝐮𝐯𝐢 𝐜𝐨𝐥𝐨𝐫𝐚𝐭𝐞, 𝐥𝐮𝐧𝐞 𝐞 𝐬𝐨𝐥𝐢 𝐝𝐢 𝐚𝐥𝐭𝐫𝐢 𝐬𝐢𝐬𝐭𝐞𝐦𝐢 𝐬𝐨𝐥𝐚𝐫𝐢, 𝐥𝐚𝐝𝐫𝐢 𝐝𝐢 𝐟𝐢𝐨𝐫𝐢 𝐞 𝐝𝐚𝐧𝐳𝐞 𝐝𝐢 𝐚𝐥𝐛𝐞𝐫𝐢, 𝐨𝐯𝐯𝐞𝐫𝐨 𝐢𝐧 𝐜𝐢𝐨̀ 𝐜𝐡𝐞 𝐬𝐢𝐚𝐦𝐨 𝐧𝐨𝐢.

152 proverbi, più dei 150 salmi, più di ogni preghiera umana.

sai cosa ci mostra in modo chiaro questa immaginazione, Gianni? 𝐥𝐢𝐧𝐟𝐢𝐧𝐢𝐭𝐚 𝐩𝐨𝐬𝐬𝐢𝐛𝐢𝐥𝐢𝐭𝐚̀ 𝐝𝐞𝐥 𝐫𝐞𝐚𝐥𝐞, la ricchezza di questo mondo, al di là di ogni abitudine, la bontà di questa orchestra smisurata (smisurata!) che è il cosmo.

c’è una sapienza innata anche in questi proverbi, respira una sapienza arcana e autenticamente umana.

ed è per questo, caro zio, cari amici, che continuo giorno per giorno in questo gioco tanto insensato quanto essenziale che è l’arte di questi proverbi.

𝑎𝑣𝑎𝑛𝑡 𝑙𝑒 𝑑𝑒́𝑙𝑢𝑔𝑒, 𝑑𝑒́𝑠𝑎𝑟𝑚𝑒𝑧 𝑙𝑒𝑠 𝑐𝑒𝑟𝑣𝑒𝑎𝑢𝑥”, prima che diluvi, disarmate i cervelli, ripeteva appunto il primo proverbio.

mentre finisco, scende il fresco serale e intravedo mio zio Alberto, che sornionamente ascolta e se la ride.

ps: per evitare fraintendimenti, il Gianni è sempre in formissima!

𝑚𝑜𝑛 𝑜𝑛𝑐𝑙𝑒 𝐺𝑖𝑎𝑛𝑛𝑖 𝑒𝑠𝑡 𝑠𝑎𝑛𝑠 𝑎𝑢𝑐𝑢𝑛 𝑑𝑜𝑢𝑡𝑒 𝑢𝑛 𝑑𝑒 𝑚𝑒𝑠 𝑣𝑖𝑛𝑔𝑡 𝑜𝑛𝑐𝑙𝑒𝑠 𝑝𝑟𝑒́𝑓𝑒́𝑟𝑒́𝑠: 𝑢𝑛 ℎ𝑜𝑚𝑚𝑒 𝑠𝑖𝑛𝑐𝑒̀𝑟𝑒, 𝑟𝑢𝑑𝑒 𝑒𝑡 𝑒𝑛 𝑚𝑒̂𝑚𝑒 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑠 𝑡𝑒𝑛𝑑𝑟𝑒, 𝑝𝑎𝑟𝑓𝑜𝑖𝑠 𝑚𝑒̂𝑚𝑒 𝑢𝑛𝑒 𝑝𝑒𝑡𝑖𝑡𝑒 𝑐𝑎𝑛𝑎𝑖𝑙𝑙𝑒.

𝑒𝑡 𝑚𝑜𝑛 𝑜𝑛𝑐𝑙𝑒 𝐺𝑖𝑎𝑛𝑛𝑖 𝑚'𝑎 𝑑𝑒𝑚𝑎𝑛𝑑𝑒́ 𝑎̀ 𝑝𝑙𝑢𝑠𝑖𝑒𝑢𝑟𝑠 𝑟𝑒𝑝𝑟𝑖𝑠𝑒𝑠 𝑙𝑒 𝑠𝑒𝑛𝑠 𝑑𝑒 𝑙𝑎 𝑠𝑒́𝑟𝑖𝑒 𝑑𝑒 𝑖𝑚𝑎𝑔𝑒𝑠 𝑞𝑢𝑒, 𝑐𝑜𝑚𝑚𝑒 𝑢𝑛 𝑑𝑒́𝑓𝑖, 𝑗𝑒 𝑝𝑢𝑏𝑙𝑖𝑒 𝑗𝑜𝑢𝑟 𝑎𝑝𝑟𝑒̀𝑠 𝑗𝑜𝑢𝑟; 𝑝𝑒𝑢𝑡-𝑒̂𝑡𝑟𝑒 𝑚𝑒̂𝑚𝑒 𝑞𝑢𝑒 𝑐𝑒𝑟𝑡𝑎𝑖𝑛𝑠 𝑑'𝑒𝑛𝑡𝑟𝑒 𝑣𝑜𝑢𝑠 𝑠𝑒 𝑑𝑒𝑚𝑎𝑛𝑑𝑒𝑛𝑡 𝑠𝑖 𝑗𝑒 𝑠𝑢𝑖𝑠 𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡 𝑓𝑜𝑢: 𝑝𝑎𝑠 𝑝𝑙𝑢𝑠 𝑞𝑢𝑒 𝑑'ℎ𝑎𝑏𝑖𝑡𝑢𝑑𝑒.

< 𝑖𝑙 𝑦 𝑎 𝑞𝑢𝑒 𝑐𝑒𝑠 𝑝𝑟𝑜𝑣𝑒𝑟𝑏𝑒𝑠 𝑠𝑜𝑛𝑡 𝑗𝑢𝑠𝑡𝑒 𝑎𝑏𝑠𝑢𝑟𝑑𝑒𝑠 > 𝑒́𝑑𝑢𝑙𝑐𝑜𝑟𝑎𝑛𝑡 𝑐𝑒 𝑞𝑢𝑒 𝑑𝑖𝑡 𝑚𝑜𝑛 𝑜𝑛𝑐𝑙𝑒 𝐺𝑖𝑎𝑛𝑛𝑖 < 𝑒𝑡, 𝑚𝑎𝑙𝑔𝑟𝑒́ 𝑡𝑜𝑢𝑠 𝑚𝑒𝑠 𝑒𝑓𝑓𝑜𝑟𝑡𝑠, 𝑖𝑙𝑠 𝑚𝑒 𝑠𝑒𝑚𝑏𝑙𝑒𝑛𝑡 𝑗𝑢𝑠𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑠 𝑐𝑜𝑛𝑛𝑒𝑟𝑖𝑒𝑠 >.

𝑡𝑜𝑢𝑡 𝑎̀ 𝑓𝑎𝑖𝑡: 𝑒𝑛 𝑒𝑓𝑓𝑒𝑡, 𝑏𝑖𝑒𝑛 𝑞𝑢'𝑖𝑙𝑠 𝑎𝑖𝑒𝑛𝑡 𝑒́𝑡𝑒́ 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑜𝑠𝑒́𝑠 𝑖𝑙 𝑦 𝑎 𝑝𝑟𝑒̀𝑠 𝑑'𝑢𝑛 𝑠𝑖𝑒̀𝑐𝑙𝑒 𝑝𝑎𝑟 𝑑𝑒𝑠 𝑔𝑟𝑎𝑛𝑑𝑠 𝑒́𝑐𝑟𝑖𝑣𝑎𝑖𝑛𝑠 𝑡𝑒𝑙𝑠 𝑞𝑢𝑒 𝑃𝑎𝑢𝑙 𝐸𝑙𝑢𝑎𝑟𝑑 𝑒𝑡 𝐵𝑒𝑛𝑗𝑎𝑚𝑖𝑛 𝑃𝑒́𝑟𝑒𝑡, 𝑖𝑙𝑠 𝑠𝑜𝑛𝑡 𝑎𝑏𝑠𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒𝑛𝑡 𝑖𝑛𝑠𝑒𝑛𝑠𝑒́𝑠. 𝑝𝑜𝑢𝑟𝑡𝑎𝑛𝑡, 𝑟𝑒́𝑝𝑜𝑛𝑑𝑟𝑎𝑖𝑒𝑛𝑡 𝑙𝑒𝑠 𝑑𝑒𝑢𝑥, 𝑐𝑒 𝑞𝑢𝑒 𝑛𝑜𝑢𝑠 𝑣𝑜𝑦𝑜𝑛𝑠 𝑐ℎ𝑎𝑞𝑢𝑒 𝑗𝑜𝑢𝑟 𝑝𝑟𝑜𝑐𝑙𝑎𝑚𝑒́ 𝑛𝑒𝑠𝑡 𝑝𝑎𝑠 𝑏𝑒𝑎𝑢𝑐𝑜𝑢𝑝 𝑝𝑙𝑢𝑠 𝑟𝑎𝑖𝑠𝑜𝑛𝑛𝑎𝑏𝑙𝑒, 𝑛𝑜𝑠 𝑝𝑒𝑡𝑖𝑡𝑒𝑠 𝑣𝑒́𝑟𝑖𝑡𝑒́𝑠 𝑖𝑛𝑡𝑖𝑚𝑒𝑠 𝑎𝑢𝑠𝑠𝑖. 𝑖𝑙𝑠 𝑙'𝑜𝑛𝑡 𝑠𝑜𝑢𝑡𝑒𝑛𝑢 𝑎̀ 𝑙𝑎 𝑓𝑖𝑛 𝑑𝑢 𝑝𝑟𝑒𝑚𝑖𝑒𝑟 𝑐𝑎𝑟𝑛𝑎𝑔𝑒 𝑚𝑜𝑛𝑑𝑖𝑎𝑙, 𝑚𝑎𝑖𝑠 𝑐'𝑒𝑠𝑡 𝑝𝑒𝑢𝑡-𝑒̂𝑡𝑟𝑒 𝑒𝑛𝑐𝑜𝑟𝑒 𝑝𝑙𝑢𝑠 𝑣𝑎𝑙𝑎𝑏𝑙𝑒 𝑎𝑢𝑗𝑜𝑢𝑟𝑑'ℎ𝑢𝑖, 𝑐𝑎𝑟 𝑙𝑎 𝑝𝑒𝑛𝑠𝑒́𝑒 𝑠'𝑒𝑠𝑡 𝑡𝑟𝑎𝑛𝑠𝑓𝑜𝑟𝑚𝑒́𝑒 𝑒𝑛 𝑏𝑎𝑣𝑎𝑟𝑑𝑎𝑔𝑒 𝑒𝑡 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑜𝑢𝑡 𝑜𝑛 𝑝𝑜𝑛𝑡𝑖𝑓𝑖𝑒 𝑠𝑎𝑛𝑠 𝑟𝑒𝑙𝑎̂𝑐ℎ𝑒, 𝑠𝑎𝑛𝑠 𝑠𝑖𝑙𝑒𝑛𝑐𝑒.

< 𝑛𝑜𝑢𝑠 𝑎𝑣𝑜𝑛𝑠 𝑡𝑟𝑜𝑝 𝑑𝑒 𝑐𝑒𝑠 𝑠𝑜𝑟𝑛𝑒𝑡𝑡𝑒𝑠 𝑒́𝑙𝑎𝑏𝑜𝑟𝑒́𝑒𝑠 > 𝑢𝑛 𝑑𝑒 𝑚𝑒𝑠 𝑣𝑖𝑛𝑔𝑡 𝑜𝑛𝑐𝑙𝑒𝑠 𝑝𝑟𝑒́𝑓𝑒́𝑟𝑒́𝑠 𝑠𝑒 𝑟𝑒́𝑐ℎ𝑎𝑢𝑓𝑓𝑒 < 𝑚𝑖𝑒𝑢𝑥 𝑣𝑎𝑢𝑡 𝑝𝑎𝑟𝑙𝑒𝑟 𝑐𝑙𝑎𝑖𝑟𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡 𝑒𝑡 𝑐𝑜𝑛𝑠𝑡𝑟𝑢𝑐𝑡𝑖𝑣𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡! >.

𝑚𝑎𝑚𝑎 𝑛𝑎 𝑛𝑔𝑎𝑖! 𝑐'𝑒𝑠𝑡 𝑐̧𝑎! 𝑚𝑒𝑠 𝑑𝑒𝑢𝑥 𝑎𝑚𝑖𝑠 𝑙'𝑎𝑣𝑜𝑢𝑒𝑟𝑎𝑖𝑒𝑛𝑡: 𝑐𝑒𝑠 𝑖𝑚𝑎𝑔𝑒𝑠 𝑛𝑎𝑖𝑠𝑠𝑒𝑛𝑡 𝑠𝑖𝑚𝑝𝑙𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡 𝑑𝑒 𝑛𝑜𝑡𝑟𝑒 𝑖𝑛𝑡𝑒́𝑟𝑖𝑜𝑟𝑖𝑡𝑒́ 𝑙𝑎 𝑝𝑙𝑢𝑠 𝑖𝑛𝑡𝑖𝑚𝑒 𝑒𝑡 𝑙𝑎 𝑝𝑙𝑢𝑠 𝑠𝑎𝑐𝑟𝑒́𝑒, 𝑒𝑛 𝑒𝑓𝑓𝑒𝑡 𝑙𝑒 𝑠𝑢𝑟𝑟𝑒́𝑎𝑙𝑖𝑠𝑚𝑒 𝑒𝑠𝑡 𝑎𝑣𝑎𝑛𝑡 𝑡𝑜𝑢𝑡 𝑙𝑎 𝑙𝑖𝑏𝑒́𝑟𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛 𝑑𝑒 𝑛𝑜𝑡𝑟𝑒 𝑒𝑠𝑝𝑟𝑖𝑡, 𝑑𝑒 𝑛𝑜𝑡𝑟𝑒 𝑖𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛. 𝑢𝑛𝑒 𝑓𝑎𝑛𝑡𝑎𝑖𝑠𝑖𝑒 𝑞𝑢𝑖 𝑎 𝑙𝑒 𝑝𝑜𝑢𝑣𝑜𝑖𝑟 𝑑𝑒 𝑠𝑒 𝑚𝑎𝑡𝑒́𝑟𝑖𝑎𝑙𝑖𝑠𝑒𝑟 𝑑𝑎𝑛𝑠 𝑙𝑒𝑠 𝑙𝑜𝑢𝑝𝑠 𝑠𝑎𝑢𝑣𝑎𝑔𝑒𝑠, 𝑙𝑒𝑠 𝑖𝑛𝑜𝑛𝑑𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛𝑠 𝑐𝑜𝑙𝑜𝑟𝑒́𝑒𝑠, 𝑙𝑒𝑠 𝑙𝑢𝑛𝑒𝑠 𝑒𝑡 𝑙𝑒𝑠 𝑠𝑜𝑙𝑒𝑖𝑙𝑠 𝑑'𝑎𝑢𝑡𝑟𝑒𝑠 𝑠𝑦𝑠𝑡𝑒̀𝑚𝑒𝑠 𝑠𝑜𝑙𝑎𝑖𝑟𝑒𝑠, 𝑙𝑒𝑠 𝑣𝑜𝑙𝑒𝑢𝑟𝑠 𝑑𝑒 𝑓𝑙𝑒𝑢𝑟𝑠 𝑒𝑡 𝑙𝑒𝑠 𝑑𝑎𝑛𝑠𝑒𝑠 𝑑𝑒𝑠 𝑎𝑟𝑏𝑟𝑒𝑠, 𝑐𝑠𝑡 𝑎̀ 𝑑𝑖𝑟𝑒 𝑑𝑎𝑛𝑠 𝑐𝑒 𝑞𝑢𝑒 𝑛𝑜𝑢𝑠 𝑠𝑜𝑚𝑚𝑒𝑠.

152 𝑝𝑟𝑜𝑣𝑒𝑟𝑏𝑒𝑠, 𝑝𝑙𝑢𝑠 𝑞𝑢𝑒 𝑙𝑒𝑠 150 𝑝𝑠𝑎𝑢𝑚𝑒𝑠 𝑏𝑖𝑏𝑙𝑖𝑞𝑢𝑒𝑠, 𝑝𝑙𝑢𝑠 𝑞𝑢𝑒 𝑡𝑜𝑢𝑡𝑒 𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑖𝑒̀𝑟𝑒 ℎ𝑢𝑚𝑎𝑖𝑛𝑒.

𝑡𝑢 𝑠𝑎𝑖𝑠, 𝐺𝑖𝑎𝑛𝑛𝑖, 𝑐𝑒 𝑞𝑢𝑒 𝑐𝑒𝑡𝑡𝑒 𝑖𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛 𝑛𝑜𝑢𝑠 𝑚𝑜𝑛𝑡𝑟𝑒 𝑐𝑙𝑎𝑖𝑟𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡? 𝑙'𝑖𝑛𝑓𝑖𝑛𝑖𝑒 𝑝𝑜𝑠𝑠𝑖𝑏𝑖𝑙𝑖𝑡𝑒́ 𝑑𝑒 𝑙𝑎 𝑟𝑒́𝑎𝑙𝑖𝑡𝑒́, 𝑙𝑎 𝑟𝑖𝑐ℎ𝑒𝑠𝑠𝑒 𝑑𝑒 𝑐𝑒 𝑚𝑜𝑛𝑑𝑒, 𝑎𝑢-𝑑𝑒𝑙𝑎̀ 𝑑𝑒 𝑡𝑜𝑢𝑡𝑒 ℎ𝑎𝑏𝑖𝑡𝑢𝑑𝑒, 𝑙𝑎 𝑏𝑜𝑛𝑡𝑒́ 𝑑𝑒 𝑐𝑒𝑡 𝑜𝑟𝑐ℎ𝑒𝑠𝑡𝑟𝑒 𝑖𝑛𝑐𝑜𝑚𝑚𝑒𝑛𝑠𝑢𝑟𝑎𝑏𝑙𝑒 (𝑖𝑛𝑐𝑜𝑚𝑚𝑒𝑛𝑠𝑢𝑟𝑎𝑏𝑙𝑒!) 𝑞𝑢'𝑒𝑠𝑡 𝑙𝑢𝑛𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠.

𝑖𝑙 𝑦 𝑎 𝑎𝑢𝑠𝑠𝑖 𝑢𝑛𝑒 𝑠𝑎𝑔𝑒𝑠𝑠𝑒 𝑖𝑛𝑛𝑒́𝑒 𝑑𝑎𝑛𝑠 𝑐𝑒𝑠 𝑝𝑟𝑜𝑣𝑒𝑟𝑏𝑒𝑠, 𝑢𝑛𝑒 𝑠𝑎𝑔𝑒𝑠𝑠𝑒 𝑚𝑦𝑠𝑡𝑒́𝑟𝑖𝑒𝑢𝑠𝑒 𝑒𝑡 𝑎𝑢𝑡ℎ𝑒𝑛𝑡𝑖𝑞𝑢𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡 ℎ𝑢𝑚𝑎𝑖𝑛𝑒 𝑟𝑒𝑠𝑝𝑖𝑟𝑒.

𝑒𝑡 𝑐'𝑒𝑠𝑡 𝑝𝑜𝑢𝑟 𝑐̧𝑎, 𝑐ℎ𝑒𝑟 𝑜𝑛𝑐𝑙𝑒, 𝑐ℎ𝑒𝑟𝑠 𝑎𝑚𝑖𝑠, 𝑞𝑢𝑒 𝑗𝑒 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑖𝑛𝑢𝑒 𝑗𝑜𝑢𝑟 𝑎𝑝𝑟𝑒̀𝑠 𝑗𝑜𝑢𝑟 𝑑𝑎𝑛𝑠 𝑙𝑒 𝑗𝑒𝑢 𝑎𝑢𝑠𝑠𝑖 𝑖𝑛𝑠𝑒𝑛𝑠𝑒́ 𝑞𝑢'𝑒𝑠𝑠𝑒𝑛𝑡𝑖𝑒𝑙 𝑞𝑢𝑖 𝑒𝑠𝑡 𝑙'𝑎𝑟𝑡 𝑑𝑒 𝑐𝑒𝑠 𝑝𝑟𝑜𝑣𝑒𝑟𝑏𝑒𝑠.

"𝑎𝑣𝑎𝑛𝑡 𝑙𝑒 𝑑𝑒́𝑙𝑢𝑔𝑒, 𝑑𝑒́𝑠𝑎𝑟𝑚𝑒𝑧 𝑙𝑒𝑠 𝑐𝑒𝑟𝑣𝑒𝑎𝑢𝑥", 𝑣𝑖𝑒𝑛𝑡 𝑑𝑒 𝑟𝑒́𝑝𝑒́𝑡𝑒𝑟 𝑙𝑒 𝑝𝑟𝑒𝑚𝑖𝑒𝑟 𝑝𝑟𝑜𝑣𝑒𝑟𝑏𝑒.

𝑎𝑙𝑜𝑟𝑠 𝑞𝑢𝑒 𝑗𝑒 𝑡𝑒𝑟𝑚𝑖𝑛𝑒, 𝑙𝑎 𝑠𝑜𝑖𝑟𝑒́𝑒 𝑓𝑟𝑎𝑖̂𝑐ℎ𝑒 𝑡𝑜𝑚𝑏𝑒 𝑒𝑡 𝑗'𝑒𝑛𝑡𝑟𝑒𝑣𝑜𝑖𝑠 𝑚𝑜𝑛 𝑜𝑛𝑐𝑙𝑒 𝐴𝑙𝑏𝑒𝑟𝑡𝑜, 𝑞𝑢𝑖 𝑒́𝑐𝑜𝑢𝑡𝑒 𝑒𝑡 𝑟𝑖𝑡 𝑠𝑜𝑢𝑟𝑛𝑜𝑖𝑠𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡.

𝑝𝑠: 𝑝𝑜𝑢𝑟 𝑒́𝑣𝑖𝑡𝑒𝑟 𝑙𝑒𝑠 𝑚𝑎𝑙𝑒𝑛𝑡𝑒𝑛𝑑𝑢𝑠, 𝐺𝑖𝑎𝑛𝑛𝑖 𝑒𝑠𝑡 𝑡𝑜𝑢𝑗𝑜𝑢𝑟𝑠 𝑒𝑛 𝑝𝑙𝑒𝑖𝑛𝑒 𝑓𝑜𝑟𝑚𝑒