"la poesia è una delle più grandi forze dell'umanità.
la poesia non si scrive, vive sul fondo del crogiuolo in cui ha origine ogni cristallizzazione umana, ogni condensazione sociale, per quanto semplice essa sia. è quella forza priva di metodo che assegna a ogni cosa il suo significato e che sgorga dalle profondità insondabili delle cause oscure e incontestabili. dalle sue possibilità è nata l'invenzione del mondo"
T. Tzara, Scoperta delle arti cosiddette primitive, 1929
S. Botticelli, Venere, particolare, 1485, Uffizi, Firenze |
XII
il tempo lascia perdere i pollicini
dietro di sé
falcia le fini molecole
sulle praterie d’acqua
doma le sacche d’aria
valica la loro giungla
mozza il verme dell’onda e
da ogni metà s’irradia una farfalla
scantona nel vulcano lungo
una nota di violino
accerchia il corso filante
del vetro nelle fini ore di trasparenza
qui dove i nostri sonni
spintonano l’alimento cantilenante di luce
*
il fiume che la montagna
infilza all’oriente articolato di rischio e di perché
e carica di medaglie e
d’olocausti lungo tutte le gardenie
s’è teso attorno al tuo
polso strada abbottonata di limiti coi soli vicini ai campi
al di là delle rive l’arco
distende il sorriso della vastità sino al ghigno del ghiacciaio
e la navetta del tessitore
pizzicata da remi nell’ebrezza del millepiedi
valica i calvi ostacoli e
gli occhi chiomati delle frecce che vedono
ma la saldatura in cima al
lago si disfa
come ventate di nuvole si
stagliano sull’acqua i sentimenti precisi dei corredini ricamati di
biro
forse che io non sono
frenesia l’elfo che s’affoga ingoiando delle grosse bocche d’aria per gioco
o il tremolo di fuoco che
corre nello spazio che l’eco ha svuotato?
il vento fugge la girandola
il vento sfoglia i paesaggi i passeggeri
e la volontà d’essere se
stesso nidifica nel cavo dello sciabordio la sua lunga allocazione
*
le lampadine elettriche covano
sotto la corazza di tartaruga i chicchi di sabbia e di bellezza
il crepuscolo toglie gli
addii all’orizzonte lavato di freddo chiarore di stereoscopio
frustato dai bagliori
navali fa il giro della prigione
e le sue cadute di luogo in luogo preparano l’elettrificazione degli occhi
adamo ed eva si nascondono
nel bel mezzo del frutto spezzato
due torri fanno abbassare
il cielo gemelle delle età sotterraneamente
al sapore dei metalli
ingrossati le lenti delle stelle danno il seno all’imboccatura della grotta
alla roccia solidificata
sull’attenti
cadendo nel lasciar andare
dell’inverno che estrae le sue sciabole
nullità ed ebetismo mentre
sgrana con mano robusta gli alberi nel precipizio
mentre proclama ai nuovi
venti le partenze i tuffi rapaci del vuoto
nell’illusione delle
bianchezze appesantite dal cloroformio
che la pelle del ghiaccio
porta al mezzogiorno di sangue
*
adolescente attardato in
una nuvola di angeli dissacrati
non temi tu la sorda
rapidità del fiume
che trascinando le stazioni
di ricche collane di gelide corone
e i giardini i ponti gli
oggetti addormentati
porta il fango filiale in
vetta ai destini
sbadigliando al tuo seno
incatenato a pesanti leonesse –
tuttavia il ritmo dell’uomo consuma il segreto debito sull’unghia
sotto la sottana foglia
morta che sbircia il debitore
l’uomo peregrina
prigioniero nella doppiezza del suo animo
circondato da vapori
d’angeli dissacrati
perché nel palmo del suo
giorno di festa
hanno suonato l’ora
invisibile dello spirito e le stigmate dell’infinito di voci
la serratura inganna i
sensi
quando si risvegliano le
cavallette di polvere che in ogni ferita mettono un cuore d’aracnide
e per le grinfie afferrano
l’uomo alla ricerca di un grazie di terracotta o di sole
*
ma pesante delle migliaia d’ore
alle quali gli anfratti della roccia fungono da incredibile oblio
ho alzato il mio silenzio
fino alla dolcezza della morte
che la sua piena
primaverile ci porti presto via
che il raccolto dei suoi
sensi pervada i nidi di feltro
dove la canicola veglia
intorpidita tra le ciglia di tabacco
che il suo soffio chiuda le
porte alle civette
che una lama di notte
bruchi il tacito pelo delle formiche
l’agnello si dissolve dal
cielo germogliato dalle ortiche della grandine
e la rivolta raggiunge il
culmine di splendori e di ali insanguinate
tra le debolezze dei naufraghi ancora a
malapena in movimento
alcune vette smarrite
sull’immensità dei fumi si disperdono
e mentre la rabbia urla al
lutto della luna
e sparge le fetide oscurità
nei vicoli vacillanti
che fuggono da ogni parte come
i ruscelli di vino dal fusto della creazione
e che le case non si
dispongono più in ranghi serrati di denti sentinelle
scontrandosi con le teste
gli edifici che nessun diluvio poté dissolvere nell’acido
ora scricchiolano a pezzi
sul lastrico con i resti di stampelle
e rodono la morte dalle
pietre dure nella testa
gli scheletrici
scricchiolii che aprono la tomba ai richiami striscianti
tagliando le arterie è il
deragliamento delle tube che s’accumulano
e si radunano di fianco a
noi
*
dio giustapposto a ogni allusione
di gesto millimetrico
dio inserito tra le cellule
non lasciatemi solo
come sono – piantato da
solo al centro dell’incudine oraria
onde sono i tuoi richiami i
dintorni che applaudono ma levigate
le tue mani nelle mie
strette al volo delle crisi migratrici
e circolare vive la
solitudine acquattata in fondo al crepaccio
rannicchiato in fondo a me
stesso mi guardo assente e mi stupisco di potermi ancora agitare tanto
alla periferia della
macchia sparsa sulla tovaglia terrestre
c’è ancora come me qualche goccia leggera d’animo rigettata dalla forza centrifuga
e qui dove lo stelo si
drizza nel dente di pugnale
stagnano le anime
appesantite che non vedono più
*
irta è la valle che ti
ricongiunge dio di penombra
e supremi sono i pesi che
gettasti tra noi
ma le tramontane che ci guidano
e con le quali abbiamo limpidamente giocato d’astuzia
ci accompagnano più lontano
più lontano più lontano della
portata del tuo sorriso confuso più lontano
più lontano del disprezzo
in cui la tua carità si compiace a promettere il branco delle tenebre
più lontano delle lacrime
qui dove le ricompense non sapranno distogliere il chiaro remo del nostro
grido dalla corsa
e i sobbalzi d’errori e
d’impurità che coltiviamo sulle fronti d’aurora
provocano con noi le
fresche e vigorose penetrazioni
i tratti polari delle
antenne
respingendo la carne
putrida e terribilmente solcata di ignoto
si alzano fino alle
lucidità ormai superate agli argini dei sogni
struggendosi di un’insonnia
lesta di selvaggina e di brace
la trasfusione delle
intruse dolcezze quelle dei confini delle vite e quelle in scompiglio frontiera
dei morti
*
uomo dalle vele spiegate
dal vento lanciato nell’imbarazzo degli agguati
l’occhio ferito delle rocce
ti rimpiange amaramente di rimpiangere
bianca è l’inquietudine che
la schiuma getta contro la pietra
ma l’autunno ha gemmato il
sospiro delle lunge scie
e per sbuffi di scartoffie
spoglia delle crisalidi le fluorescenti tettoie
non ci sono che le donne
rastrellate di riviste che s’intestardiscono a rianimare i giochi della
primavera
irrimediabile slancio gustato
nella ghiaia di ogni fibra e di cui ogni fine è un’origine
per la via di quale invincibile folgore saprai tu un giorno perforare la dimora della conoscenza
e più lontano di dio
piantare gli alberi delle bandiere e dei pugnali
condannato a sopravviverti
doloroso accerchiamento d’universo
che straripa di forze
isolate ma impotente spossato dalle urla delle lime
così poca cosa sei tu e
limitato così poco per lo stridente desiderio
che le vergogne maturano
nel tuo seno nelle vegetazioni senza numero
e tuttavia santa è l’insoddisfazione che ti cova indomabile andatura