quando qualcuno ti chiede di raccontare è il momento più
difficile.
è difficile non perché manchino le parole, tutt’altro, ma
perché se ne avrebbero così in abbondanza che sarebbero tutte parimenti
inefficaci, inutili.
è difficile perché nell’esatto momento del racconto, si
sente la grandezza di quanto manca, si sente il vuoto.
è ancora più arduo quando qualcuno ti chiede di raccontare
una sola storia, un dettaglio solo, il più significativo tra migliaia di volti, di
avventure, di emozioni: arduo come riassumere un poema omerico in un verso, un’intera
vita in una foto.
nella vita tuttavia bisogna fare delle scelte e io voglio
parlare di Anuarite, consapevole che mi sembrerà di trascurare le peripezie di
Jean Claude, l’amicizia di Sylvie e Suza, la piccola Gloire, che se ne è andata dopo giorni stringendo tra le mani una caramella, i giorni di gioia con canti e danze, la saggezza di mama Pascaline, il nome e il volto
di Odrele. nonostante mi sembrerà di trascurarli per un attimo li ho tutti
fissi e ardenti in me, nei miei occhi.
non dimentico come, senza scrittori o libri, passeggiare tra
i villaggi con Justin, lipasa na ngai ("gemello mio"), potesse raccogliere e
tutta la poesia e la filosofia del mondo. tutta la poesia e la filosofia del
mondo.
ma bisogna fare delle scelte e io ho voglio parlare di
Anuarite, poiché Anuarite è la mia Bibbia.
Anuarite ha circa 4 anni, credo, ed è di Maratsà, un centro di una decina di capanne nel nulla, distante una ventina di km da Ariwara.
pelle scura come la notte, occhi leggermente affusolati,
denti sottili, vestita sempre di un pany giallo e rosso, liso e sporco di fango
e polvere. non parla se non il dialetto della sua tribù, non sa leggere e forse non imparerà mai.
una bambina come milioni di altre, senza
nient’altro di apparentemente speciale da segnalare, e infatti non mi ricordo neanche quando l’ho vista la prima volta,
in un giorno assolato di marzo, ma so che da quando l’ho incontrata è
stata un dono ineguagliabile, per sempre.
occhi fissi.
sorriso incessante.
bontà sfrontata senza paura.
stava così per ore, per mattinate, per giornate intere a
fissarmi e sorridere alla porta dell’amministrazione mentre io, indaffarato,
correvo da una parte all’altra dell’ospedale, lavoravo al pc, discutevo con
infermieri e dottori, parlavo con degenti, mi arrovellavo con alti funzionari.
mi fissava, sorrideva: aspettava pazientemente il mio saluto e dopo il mio
saluto sorrideva ancora, più luminosa.
appena mi liberavo, passavo da lei, cercavo col mio
lugbarati di scambiare qualche chiacchiera, qualche risata e solo ora capisco
che il mio non era il tentativo “alla rinfusa” di conquistare la sua amicizia,
ma di ricambiarla per la gioia che mi dava, con quella inspiegabile abilità di
farmi sentire unico, capace di bellezza.
stavamo a volte interi pomeriggi così, in compagnia di tanta altra
gente, bambini e mamme, nei corridoi e nei cortili dell’ospedale, spesso alla
capanna degli indigenti, finché alcune settimane dopo la madre, guarita, poté
ritornare a casa.
sì, mi è mancata molto dopo la sua partenza, ma ero felice per
la consapevolezza che lei ci fosse, al mondo, e che stesse bene.
un giorno decisi di andare a trovarla a casa: dopo una lunga camminata la cercai per
un pomeriggio intero sotto il sole, mentre tutte le capanne di Maratsà
sembravano uguali, e la ritrovai solamente guidato per mano da un suo
fratellino.
occhi fissi.
sorriso incessante.
bontà sfrontata senza paura.
la salutai, col timore in cuore che non l’avrei più rivista,
che la mia fosse stata un’inutile e avventurosa ricerca a senso unico, ma io
sbaglio sempre, con i miei calcoli e i miei ragionamenti sotto un cielo pieno
di stelle.
mancava una manciata di giorni prima di partire per l’Uganda,
per l’Italia, per casa, avevo la testa ingarbugliata di mille futili pensieri e
Jolie mi chiama dalla cassa: “c’è qualcuno che ti cerca”. era lei, lo
capite benissimo, mentre io non lo capivo ancora e pensavo di ritrovarmi
qualche impiegato o qualche lavoro scomodo. awadhifo, Emmanueli e io Mungu
dri: “grazie, Emanuele” e io “siamo nelle mani di d-o”.
aveva ascoltato il mio folkroristico saluto alla radio, il
giorno prima, ed era venuta a darmi il suo. non ho mai pianto a nessun saluto, neppure a quello profondo
del mio migliore amico Justin, neppure a quello solenne del personale dell’ospedale,
neppure a quello commosso di madre Claudine e neppure a questo, eppure questo è
stato il saluto più grande ricevuto.
occhi fissi.
sorriso incessante.
bontà sfrontata senza paura.
non è la tenerezza facile dei bambini, non lo crediate, quanto la forza di mostrarsi nulla, povera, indifesa, ma di mostrarsi come si è, con totale fiducia. questo mi ha insegnato, lasciandomi senza difese.
Anuarite è la mia Bibbia. la verità, la povertà, la felicità, la bellezza,
la semplicità, la forza autentica, il dialogo: tutto questo è per me Anuarite e
Anuarite non è né un libro, non un eroe, neppure un’idea: Anuarite è una
bambina di circa 4 anni, credo.