venerdì 7 settembre 2018

il canto di Ovuko




una canzone muta sventola senza posa
sventola e tu la ascolti
mentre spolveri del fondotinta
mentre corri sulle chiacchiere dell’imbrunire
non stenderò nessuna nuova canzone: troppe melodie
hanno già danzato sino al declino
e io arrivo ormai a notte tarda
canuto i ballerini stanchi
canta tu, ragazza, per me
ma che le parole siano sangue

il cielo d’Ariwara incombe magnifico
e mosso i giardini di manghi non cadono mai spogli
e la sua sabbia non scivola più via dalla pelle
nulla muta sopra i monti
dove quella zebra cacciata
brancolava il bufalo ferito e
accasciato allontanato nei silenzi inerti
Ovuko accasciata che muore
bella come una ballerina in scena
bella nello stento del suo sorriso
su questo materasso lercio e sudicio
adroni maa fera
la tua voce splendeva gracile

ayikosi splendevi che parevi marte
avevi occhi sottili come marte rosso
ma ti gridava il cuore selvaggio
ti gonfiava ti batteva ti sbatteva
“insufficienza cardiaca” recitavamo nella nostra
preghiera sangue sulle mie mani
la sera senza pace la notte
tra le corsie di piscio e di sangue
e il tuo materasso rosso
così Beatrice conosceva il mio nome
come fosse un canto:
                                               rideva
intrecciava dei passi di pavone blu
seguendo la mia marcia inquieta
non ho altro posto che il terreno
sopra cui inspiro respiro espiro
non vorrei altro posto che qui
dove Elindu Chrisostome
pallido ha fissato la morte
ormai vetro e io leggevo
la sua anima che respirava
poi spirava:
dissi amen. suo padre mi strinse
senza che nessuno di noi due
comprendesse bene.
non ho altra ricompensa che qui
accanto a te figlia
che figlia non sei
dal volto nero e il cuore gigante
adroni maa fera
era la nostra canzone
adroni adhyeni fere si ku
eri la tua poesia
dondolando il dito
e non avevi altro nome, Ovuko
se passava Obhede il nano
gli uomini ghignavano “Obhé,
piccolo!” con fare bestiale lui
passava il suo passo solenne e muto
“nano, te li rubano i bambini,
ti rubano gli abiti!” eppure
aveva centotrent’anni, tutti garantivano,
di più!, senza mai arrivare a casa:
passava, come volgo io verso una promessa
beibane vilewere “ci vediamo
dopo, Ovuko” e tossivo
senza che nessuno di noi due
comprendesse bene
le parole sono sangue
mama Cecilya intrecciava i tappeti nella tenebra

ma il cielo d’Ariwara incombe maestoso
ed ebbro i giardini di manghi non cadono mai brulli
e la sua sabbia non va più via dalla pelle. ARIWARA
ERI MA ASI è il mio cuore
Ariwara. ci sono momenti in cui l’ombra
(lo noti un istante)
non è più. così
Osaru la pazza mi benedice gridando
“guarirai e diverrai noi” i seni
nudi come una verità d’uomo kaso adri
were ati aferi ni ayikosi
“anche se pare un grano sarà
gioia” cerco di decifrare
tra le cento voci chiassose del mercato
risuoneremo il colore di ogni cosmo
sosterrai la mia mano timida
e saprò fermarmi se ti affaticherai
anche il sole sa riposare tacendo
e cammineremo ancora assieme, figlia,
alla terra promessa di Lamila
io, te e le nostre lacrime nascoste
i nostri amici ci chiameranno
lo sai da lontano
con quel grido “brilla
una terra promessa qua”
sarà solo una corsa un abbraccio
e noi figlia ma madre sorella
alito di dio
che ora non canta più
ma sventola senza pace



 


Adroni maa fera, Adroni adhieni pere si ku
kaso adri were ati aferi ni ayikosi
dona al Signore, col Signore non essere egoista;
anche se è poco ci sarà gioia

martedì 4 settembre 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, XI


"Tutto porta a credere che esista un punto dello spirito da cui la vita e la morte, il reale e l’immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e l’incomunicabile, l’alto e il basso cessano di esser percepiti come contraddittorii. Ora, sarebbe vano cercare, alla base dell’attività surrealista, altro movente che non sia la speranza di determinare questo punto. […] L’idea di surrealismo tende semplicemente al recupero totale della nostra forza psichica con un mezzo che non è altro se non la discesa vertiginosa in noi stessi, l’illuminazione sistematica dei luoghi nascosti e l’oscuramento progressivo degli altri luoghi, la deambulazione perpetua in piena zona interdetta".
A. Breton, Secondo manifesto del Surrealismo, 1930

P. Picasso, Ritratto di Dora Maar, 1937, Paris



XI

cosa è questo ronzio paffuto che riempe la penombra
sull’orlo del silenzio che s’ingarbuglia tra gli angeli
costeggio la sontuosa vallata di passamaneria
quella che si stende nel tuo cuore commosso di cure
e vinto al gioco dei solstizi nella solitudine la testa alta
che pettina le pieghe della tunica vergine una fiaccola
ha timore della nudità terrestre
è l’organo che riversa delle valanghe di seta sui nudi delle pareti
di crisi e spinge la tempesta verso i soffitti
alito più profondo che i vulcani
scarica la rete da suoni di un amore tanto tumultuoso
dove l’elevatezza è catturata alto alito
ma delimitato da sarcofagi scala il timpano e fugge

*

il matrimonio del firmamento frutteto occhio fresco
medaglione d’acqua dolce dove si placa la sete dei cembali
sulle labbra dei buongiorno che aspettano il tramonto della notte circonflessa
il sopracciglio del mondo la cianfrusaglia agonizza l’ombra
corruga la statura ronzante di vespa e la mozza

*

sotto il sole oliato la pianta può girare nell’ingranaggio
delle vite e delle morti girevoli di cui lo spazio è carico fino ai confini dell’incoerenza
le pozze di baccano si stendono sul mare paralizzato
e qualche foglia qualche cadavere galleggia sulla densa ansia
dove si trovano le angeliche tappe che il sonno non poté consegnare alla luce
il chiavistello dei sogni ha chiuso le sue mascelle sulle file dell’uomo
e la brezza non serve più da camicia al giardino cinquefoglie figlia cara
di schianto la dura tragedia e il sacrilegio hanno invaso la nostra vita
arraffando i brevi brandelli di riposo delle nostre ossa
arraffando le acque dei cardini dell’arcipelago conca e demone
del libro di porto che pagina coperta da pagina e onda da onda
colmano ancora di scritte di litanie e di cervelli

*

lo schianto dei vetri rotti getta il sole in mare
una notte natale di larve una notte la confusione
il giudizio finale s’alza su delle ali vitree nella nostra agitazione
e demolisce l’amore così etereo che noi facemmo sorgere giorno dopo giorno nell’incalcolabile volta
nell’organo il suono si è sparso dove la gola
di paura afferrata la bestia s’impenna prima di appiattirsi nella sua pesantezza di tuba
e gli uccelli si sono ingrossati smisuratamente obliquamente scivolano verso le nostre dimore
s’ammucchiano come neri fiocchi e sacchi dilatati di freddo e d’ipnotismo
tale è la forza degli umori in movimento che sfinisce di struggimenti leggendari
l’ineffabile teoria dei vocabolari e dei toraci
alghe in letargo sulle sabbie fini

*

cosparsi nell’azzurro i fossili dei globi
non provano più nulla così vuota è la misura
del respiro umano scandito dal profilo delle dune
ma la vertigine sorta dal sogno quella che raduna comete e limbi attorno alla sua rotazione
carezza persa sui binari delle emicranie
vertigine dalle mille nuove comprensioni
notte anemica succhiata da fringuelli invecchiati da feretri e da secoli di poetica rimozione
e che la ciliegia
abbiamo noi pianto dall’alto dell’inferriata?
luminosa insegna l’astronomia
avvia l’alfabeto dei passi
le ragioni del nostro tacere

*

a che servirebbe lo spasmo folgorale
come riordinarsi un fondo d’abisso cartilaginoso
vitreo è l’anemone e vibrando lo spaventa
bolla nell’assonanza l’annuncio cinghia
di trasmissione della fede nel nulla –
sogno dal sospetto acquatico vira
sul posto è il più lontanamente lanuginoso segnale il blu
la mia stretta di mani su ruote
e che l’esitazione semini lo svasso
l’insieme dei rovi in filigrana di grasso
sotto l’arcata sopraccigliare della selva

*

che la china
avvicinandosi alla bruna
io sento quelle che si serrano sotto la perenne coincidenza
vengono ad appoggiare su ogni spalla la mia testa
vellutate pari ma meno crude
così vivamente annienta il viale di immagini tragitto
il trapano dell’orologio

*

la pioggia arruffata screpola le nostre conversazioni i nostri castelli di busti
i pugni i nodi di lungo corso dell’esistenza
forse che questi sfondano i chiarori del tempo e gli specchi?
la linea di partenza al campo di corse umane
la postazione delle prugnole nostalgici confini d’oblio
la luna nei suoi fronzoli di vesuvi impagliati di castelli di busti
l’organo riversa il suo magico impulso sulle strofe
dove risuonano i polmoni antichi dalle crepe del divino
e i sepolcri che danzano al collare dei gesti
brillano tra le diamantifere esaltazioni delle veneri lungo gli stadi
i giorni s’imbarcano e seguono da vicino i passi dei crepuscoli viscosi
l’organo riversa i suoi cenni di azzurro sulle barriere dei gong
sfonda la muraglia di palpebre cementata e sorda come l’inverno
il severo tremolo si ritira nel suo alveolo di soffio
che l’oscurità rauca aspira – gli ex-voto di bolidi
cadono dal seno della notte con i mammiferi e gli alberi
e tutti i salvadanai si svuotano nella notte
che ritrae su tutti i peccati i suoi coperchi di chiasso
da dove è arrivata questa la vocale ad ali spiegate
che prolunga di flauti strangolati gli sfiatati questionari
i ponti e coccole calzate
elastica sveglia i procedimenti animali forse le stelle
e si schianta di colpo sui vassoi di carne e cespugli

*

luogo dagli austeri balzi dei coloriti nerboruti
la follia ha scavato di trepidanti burroni nei ritornelli della vita i suoi extra
tra i lamenti gli ostacoli si trascinano nello sdegno dell’orizzonte
il mattino si contrae attraverso lo scalpitio dei rami ballo di saint guy
il prisma getta di nuovo il suo incendiario armamentario
una pietra piombata nell’acqua alletta di allucinazioni le pieghe a fatica delle onde
alla periferia del giorno a lungo dopo lo scontro
l’uomo dilania la preda del suo rancore

*

annidata sotto la foglia la memoria ingrossa di visioni beffarde del volto
e dissotterra i detriti e le scorie
ostilità tutto è ostilità attorno a delle nebulose di propositi
e passione sullo smalto della spada trasparente
tagliente frusta di lampi ramificata di bisturi
parola – sull’orlo del precipizio durante i secoli temprata
getto di veleno che scroscia dalle cime abortite
glorifica degli odi la luminosa tensione
l’aureola d’intransigenza che acceca il colore viziato
e rinnova i sortilegi delle umane controversie
le adesioni dei cortei di uragani all’irrealtà delle molecole
vomitate massacri la babele delle putride pullulazioni e delle cancrene
ammassata sotto degli arpeggi lacrimosi nei bassifondi delle origini del mondo
oh ebrezze riscattateci dai fanghi parassiti e dalla pigra abitudine di vivere
e dagli altri da tanti altri





giovedì 30 agosto 2018

diogene

Poiché molti statisti e filosofi erano andati da Alessandro congratulandosi con lui, questi pensò che anche Diogene di Sinope, che era a Corinto, avrebbe fatto altrettanto, ma, dal momento che il filosofo non gli diede la minima attenzione, Alessandro si recò di persona a rendergli visita; e lo trovò disteso al sole. Diogene sollevò un po' lo sguardo, quando vide tanta gente venire verso di lui, e fissò negli occhi Alessandro. Quando il re si rivolse a lui salutandolo e gli chiese se volesse qualcosa, egli rispose
"Sì: spostati un po’ dal sole".

Plutarco, Vita di Alessandro, XIV


R. Guttuso, Fuga dall'Etna, 1939, GNAM Roma

ho discusso con la mia ombra
sottile e silenziosa come il sogno
"non smarrire
                       almeno tu
                                        il raggio del sole"
così ho visto di sfuggita sulla strada
che lei l'aspettava in auto
lui salì e si guardarono
non so il sapore che li unisce
e li separa so che i più vigili
lo dicono ostinatamente amore
non alzando mai le mie palpebre
navigai nella notte mischiandomi
con la nebbia e i fantasmi: fui io
un marinaio perduto? non persi
ardore e non affittai cuore cosicché
ai miei occhi comando "avanti"
c'è un motivo
                      ma non potremo
                                                 conoscerlo
ho visto bambini nelle sabbionaie
in cui ogni buca dubbiosa era quanto
gli antichi oracoli chiamarono futuro
saranno le mie sponde quelle
quella ti dico sarà america
quando le correnti seguono i venti d'avventura
e aprendo la portiera in un parcheggio
che nessuno più riconoscerà
sembrerà di essere a casa da sempre
nessuno più ci riconoscerà
è come una fotografia
che si ferma e una farfalla
solenne nella notte: ciò che è fragile
sostiene
             il respiro
                            di questo palco sabbioso
imparare a non parlare, attore,
e a non dire quello cui non hai dato nome
voi invece direte che li rubai tre biscotti
tre tarallucci quando il refettorio si era svuotato
non era per fame, solo per invidia
delle mie mani nude
e anche tra le camerate dei mondi perfetti
ben ordinati spolverati
traspare nitida la tristezza dell'umano
disperatamente nitida e incantata
ci rivedremo? può essere ha detto
è che siamo due corpi, mi chioso io, e due carni
e il refettorio, guardati attorno, si è svuotato
il profumo delle robinie sparso per i parchi
direte che rifiutai chi mi amò
se per capriccio respinsi una camicetta
avevo quattro anni per un pupazzo
ora ho ancora dentro il dolore della donna
che mi amò ancora
per il resto tenetemi 
                                mai vittima
                                                   ma innocente
scostati gli rispose Diogene
levati dal sole disse ad Alessandro
alle sue ricchezze all'impero
anch'io mi scostai dalla sua pelle arrossata
eravamo nel buio e non potevamo
noi non potevamo che sognare buio
siamo solo vento che soffia
e che deve soffiare per divenire vento
siamo solo acqua che scorre
e non può sostare se non morendo
siamo solo fuoco che infuria
siamo la fiamma affamata
siamo il prato dei nostri quattordici anni
che poi quattordici volte s'avvera
illude e secca
la parola amore
siamo allora luce e siamo pure
l'ombra che si frappone
e io parlo solo per me stesso poiché solo io
sono il filo rosso di questa strada che s'oscura
così dalla prigionia
                               la mia giraffa
                                                     fugge
e io mi scosto un po' da me stesso

R. Guttuso, La spiaggia, 1955, Galleria nazionale di Parma


sabato 14 luglio 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, X


1. il sogno non è che la realtà più intima e più autentica dell'uomo.
2. un sogno in realtà non si "racconta", poiché non è una narrazione e non ha personaggi, ma atmosfere di emozioni, crogiuoli di sentimenti sparsi, nuvole di pensieri.
3. Tzara dà parole al suo sogno più intimo e autentico: una storia senza attori, un palco senza sipario, se non se stesso.
questa è la premessa di questi canti, soprattutto del decimo, in cui appare tutta la durezza di un mondo che l'uomo non riesce a scalfire:  
lassù dove tutto non è che pietra.
l'uomo non riesce a scalfire questa celeste indifferenza, eppure sa creare "catene", che lo legano all'esistente, all'altro e, anche se il mondo non sa sorridere, può divenire amico. 
chi sono io? un anello, un semplice anello nella catena dei secoli del cosmo, un anello che però nulla può sostituire, nulla e nessuno.
così tante ore m'hanno imbastito del loro cemento friabile di tibie in croce
così tanti uomini m'hanno preceduto nell'augusto solco d'esaltazione
così tanto amore s'è disperso per edificare l'opportunità che mi gioco
nel carcere senza compagni dove s'aggira un sangue denso di rimorsi
così tante dolci frenesie hanno scarrozzato i paesaggi verso i miei occhi
la celeste indifferenza non si può vincere, ma si può danzare attorno ad essa: questa è la vera scoperta del fuoco da parte dell'umanità.

e lassù lassù tutto non è che pietra e danza attorno

Leonardo da Vinci, Vergine delle Rocce I, particolare, 1483, Louvre, Parigi



X

la testa s’arrampica circondata da eco sulla traccia dei muggiti fumogeni
che i vulcani hanno percorso lungo delle migrazioni di esploratori
lassù dove tutto non è che pietra
e cinguettio fragile d’inconsolati soli seguito
dall’anemico viadotto sbocco nel cratere di calce della valle incravattata di portali
e la metallica fauna brulica amaramente nello stagno di ruggine e pelliccia

*

cinguettio fragile d’inconsolati soli – gorgo di dune
dure da spezzare – le minute cavallette nelle fessure
che un dubbio fidato libera dalle maglie del sonno
e le fatiche che bavano sui sofà in fiamme dove il sole si corica
circondato da loquaci angosce da seguiti geometrici
da ciuffi d’ectoplasmi da bulloni che dormono divertiti
da trasparenti trappole da fermate da spazi
da accozzaglie da crepature incatenate – l’aria muore

*

e che l’amore segua l’amore d’inconsolati soli seguito
lassù dove tutto non è che pietra
amante dei dolci pendii incantatore delle acque irruenti
che la notte tremi in fondo alla stiva
che tu possa tirar fuori dalle tasche dei cocchi
i fazzoletti che volano dove assordano i voti dei viaggiatori senza luna
sulle deformi illusioni e i magazini delle razze
la pioggia mette il suo telo di serra
e la fresa cresciuta al seno di corallo sbecchetta lo scoglio
gli occhi inumiditi nella rada di scoraggiamento
che t’attendono
lassù dove tutto non è che pietra
e se ne voltano con indifferenza

*

dei canti ingordi hanno aggrovigliato le piume delle loro morenti misure
al banco della nave dove il vento ha raccolto il diluvio di tutte le direzioni
che le flore hanno seguito e abbandonato
tanto quello turbinava di lente primavere nell’occhio clemente dell’imboccatura
che le scogliere si erano messe a fremere delle orecchie di zattere
che gli insetti induriti alla luna ribollivano nel’impotenza delle fantasticherie
erano delle campane degli immemorabili asserragliamenti che gli acquazzoni dei secoli schiaffeggiavano le volte
il frutto della sabbia sbiadita giaceva vicino al capezzolo dell’orrore
e la falesia aspra assisa in se stessa i ginocchi al mento
masticava la sua stella e la pacifica luce che la governava

*

raccoglitrice di mozziconi nei boschi d’estasi
e d’astri fatiscenti precipitati lontano nella fossa dei segreti
tronconi di paese di pesantezza dilaniati brandelli
di zoppe fluidità di riflusso
distratta convalescenza di fiamme di trampolieri
lassù dove tutto non è che pietra
le cisterne misteriose dell’affascinazione
fermentano il frumento illusorio delle voci
sulle ramature delle cataratte la sera i ragni degli occhi si mutano in pena
selvaggia speranza lanciata con i boomerang e le comete
nell’umidità di carbone che nessun ritorno sfiorisce d’ali pensanti
né di tizzoni d’amore

*

e la dormiente – diffidente delle raminghe carezze –
cinta di galee dove s’impasta lo spirito
dove nessuna anticipazione divide da un infedele riflesso l’indolenza stellata del mistero
si sfrega una crescita tra i vetri di proverbi che il baccano adombra
verso la carne infinitamente nomade del sogno
e se ne volta con indifferenza

*

e nel fumo sono i pergolati di fumo il fumo
che caracolla il bompresso calpesta lo scricchiolio
è nel fumo dei pascoli profondi qui dove tutto non è che pietra
ed è il fumo del sole che sale dal terremoto dei dadi
gli assembramenti delle capanne attorno a cieche dimissioni
i versanti distesi ai passaggi dei pesanti convogli di calure
gli svaghi lisi sotto la coperta dei foraggi
volto svanito nelle voci delle bestie
florido fulgore nel cesto delle voci
e mozzando di sbieco il rilievo terroso il torpore di questa rumore
tatua la facciata di funeste vedute
e d’amore

*

così tante ore m’hanno imbastito del loro cemento friabile di tibie in croce
così tanti uomini m’hanno preceduto nell’augusto solco d’esaltazione
così tanto amore s’è disperso per edificare l’opportunità che mi gioco
nel carcere senza compagni dove s’aggira un sangue denso di rimorsi
così tante dolci frenesie hanno scarrozzato i paesaggi verso i miei occhi
e delle amare coscienze hanno trattenuto gli tsunami nel loro setaccio di ansietà
così tanti viaggi invisibili sono affondati nei miei sensi
così tanti miracoli ci hanno legato
alla flottiglia di parole – sedimento delle divine allusioni –
delle ipotesi che si rotolano nei crogioli delle mezzanotti dello spirito
dove si spezzano gli tsunami e quelle dell’amore si spezzano
e tante altre si gonfiano e si sciolgono
e tante altre si spezzano segretamente

*

e che il gufo vada e che la notte intrecci
e che la notte vada ai piedi dello stagno
e che la roccia intrecciata di gufi drizzi la sua tenda
che il freddo venga dai nudi boa a ricoprire la pace della colomba
lassù dove tutto non è che pietra
dove l’erba indurisce dove le dita appassiscono
dove l’airone teme l’ondata dove la sua ombra crepita
dove i gioielli cadono e le labbra del ghiacciaio vacillano
dove il feto affonda lo scrigno in un lume mandibola
dove il ricordo scuote il vento delle vittorie sul ponte
dove ci si annienta la costa scorza del tempo
dove l’udito si vela d’oriente d’altri tempi e di fatalità
sulle volubili vanità dalle distanze di cristallo
lassù dove tutto non è che pietra all’infinito
e nell’alambicco dei giochi dove versiamo le lacrime e lassù tutto non è che pietra
l’allarme quello che suona una sola volta suona tratto dall’alto di una lacrima alla sartia
sospesa alle fauci sputo del vento tanto lenta da non poter dormire
strappata dal sole visitata dai soli gravosa verso il mare

*

tanto quanto l’ombra rosicchia i bordi porosi della notte
tanto quanto i fuochi si sistemino a fianco degli amici sulle panchine
e se ne voltino con indifferenza
l’uccellatore di quarzo può abbeverare la luce nana d’abside
verso il sussurrio che imperla lo scatto della sua élitra
ma da quale irreale disordine di cripte e palpebre
da quale colore acre dal fondo dei ritornelli
abbiamo noi attinto l’arcano disgusto coperto sotto una foglia morta di scudi
e circondati da invisibili scudi
respingendo tutta la vita lungo il passaggio
la noia – infernale mozzo – i trapani che sbirciano il pertugio
il loro magnetismo che ronza che accerchia gli alligatori nel marciare senza passi
abbiamo raggiunto – lassù dove tutto non è che pietra – la fraterna pietra
lassù dove tutto non è che pietra
e contagio nel rifugio dei talismani e degli istinti

*

quale specchio inghiottito nei golfi ci renderà all’aurora i rifugi vitrei
delle finte nudità i nomi dove non ondeggia altro che l’indulgenza delle rocce
le roccaforti della catena umana lucidate da fillosilicati
piallano il massiccio di nuvole – sono i denti della folgore –
gola spiegata – che ci tende la crosta di neve –
sogghignano lassù
uno iato nella spalancata eternità ha morso
e le terrazze si crepano fino al cuore delle credenze
le zone dei cervelli smantellati scivolano su delle imbarcazioni dai perfidi limiti
sono le esche delle nostre esperienze – lassù dove tutto non è che sasso
polare decomposizione – fanfara cavernosa –
che se ne volta con indifferenza

*

cauto avvenire – lento a venire
uno spumeggiante sussulto mi ha messo sulla tua traccia di sguardo
lassù dove tutto non è che pietra e tovaglia di tempo
vicino alle creste argillose dove non le si gonfiano mai sotto l’abito di un allusione
canto l’incalcolabile elemosina d’amarezza
che un cielo di pietra ci getta – cibo di vergogna e di rantolo –
in noi ride l’abisso
che nessuna misura scalfisce
che nessuna voce s’avventura a rischiarare
inafferrabile si protende la sua rete di rischio e d’orgoglio
lassù dove non se ne può più
dove si perde il regno il silenzio piatto pulsazione della notte
così si ordinano i giorni al numero delle indifferrenze
e i sonni che vivono agli uncini del giorno sotto il loro giogo
giorno dopo giorno si rosicano la coda e danzano attorno
e lassù lassù tutto non è che pietra e danza attorno