lunedì 23 dicembre 2024

Ricordo di un'amica

   Chère Sylvie,

Je t’écris parce que je suis loin, si loin que ce soir à Ariwara je ne peux pas revenir, si loin que même les larmes ne peuvent sortir. Penser que tu n’es plus là, c’est imaginer une route interrompue dans le néant et la vie est si cruelle à couper une tige sans faire fleurir ses couleurs.

Sylvie, tu étais ma sœur et les longues après-midi nous bavardions dans la salle de l’hôpital ou je venais te chercher à la maison. Tu m’as accueilli avec ta voix profonde, tes yeux durs et doux, une plaisanterie moqueuse.

Si je pouvais me tenir devant ta dépouille, tenant le thé du deuil dans mes mains, parlant à tes cendres muettes et lui rappelant comment tu me guidais dans le labyrinthe du marché, ton rire sec quand je faisais quelque chose d’inconvenant, des promenades pour aller à la chorale et de cette fois où tu m’as préparé des chapati insuperables.

Même à l’époque, il y avait des moments, même des heures, où nous faisions compagnie sans parler, mais ton silence n’a jamais été aussi lourd qu’aujourd’hui, cruel et asphyxiant. Il ne me reste plus rien : je n’entendrai pas tes mots chuchotés, tu ne me demanderas plus de bonbons pour rester éveillée la nuit, nous n’aurons même pas un dernier salut.

Sylvie, la nuit est finie et, loin des milliers de kilomètres, au-delà des mers désertes montagnes, ta veillée funèbre aussi est terminée : je vois une route interrompue, car même si je reviens, je ne pourrai jamais revenir à toi, je ne pourrai jamais retourner dans "notre" Ariwara et, Quand je remets les pieds dans notre hôpital, je ne trouverai que ta cabane vide. Adieu, ma sœur, en espérant que ton silence terrible puisse redevenir une fleur.


   Cara Sylvie,

ti scrivo perché sono lontano, tanto lontano che stanotte ad Ariwara non posso tornare, tanto lontano che anche le lacrime non riescono a uscire.

Pensare che tu non ci sia più è immaginare una strada interrotta nel nulla ed è così crudele la vita a recidere uno stelo senza far fiorire i suoi colori.

Sylvie, sei stata mia sorella e nei lunghi pomeriggi chiacchieravamo in corsia all’ospedale o venivo a cercarti a casa. Tu mi accoglievi con la tua voce profonda, i tuoi occhi severi e dolci, una battuta beffarda.

Potessi stare davanti alla tua salma, tra le mani il the bollente del lutto, parlerei al tuo cenere muto e gli ricorderei di come mi guidavi nel labirinto del mercato, della tua risata secca quando facevo qualcosa di sconveniente, delle passeggiate per andare alla corale e di quella volta che mi preparasti dei chapati insuperabili.

Anche allora c’erano momenti, anche ore, in cui ci facevamo compagnia senza parlare, ma il tuo silenzio non è mai stato pesante come ora, crudele e asfissiante.

Non mi rimane più nulla: non sentirò le tue parole sussurrate, non saprò mai se davvero ci fu una storia con Benjamin o meno, non mi chiederai più delle caramelle per restare sveglia nel turno notturno, non avremo nemmeno un ultimo saluto.

Sylvie, la notte sta terminando e, lontano migliaia di chilometri, oltre mari montagne deserti, è terminata anche la tua veglia funebre: vedo una strada interrotta, poiché, anche se tornerò, non potrò mai più tornare da te, non potrò più tornare nella nostra Ariwara e, quando rimetterò piede nel nostro ospedale, troverò solo la tua capanna vuota.

Addio, sorella, sperando che questo tuo silenzio terribile possa tornare ad essere fiore.





giovedì 19 dicembre 2024

Una Giraffa nell'Armadio/4: IL VENTO AVVENTATAMENTE VENTOSO

Robert Desnos, "Il vento notturno", da "Corps et bien", 1930


Sul mare marino si perdono i perduti

I morti muoiono cacciando i cacciatori

in tondo danzano una rotonda

Oh dèi divini! Oh uomini umani!

con le mie dita digitali dilanio un cervello

cervellotico.

                    Che angosciante angoscia!

Ma le padroncine impadronite han dei capelli capelluti

                    Cieli celesti    

                    terra terrestre

ma dov'è la terra celeste?


Un testo dai tratti molto puerili, senz'altro, ma quella che può apparire una poesia composta da semplici giochi di parole, cela invece un mistero più grande e ci insegna il gusto per l'ironia, la ricerca di divertissement tipica del Surrealismo.

Di questi calembours in verità è ricca tutta l'opera di Robert Desnos (1900-1945), soprattutto la sua raccolta più celebre "Corps et biens" (1930) e da questi versi appare chiaro come al poeta piaccia giocare, sporcarsi con le parole, inventare in una catena ininterrotta di immaginiDa qui dunque il "mare marino", i "perduti" che "si perdono", "i morti muoiono" e ancora oltre senza soluzione di continuità, come in una spensierata filastrocca per bambini.

Desnos, il poeta-veggente, il poeta dell'ipnosi e della semi-veglia, è infatti anche il poeta-bambino, un burlone che nel gioco e nell'umorismo trova un punto di riferimento esistenziale.

Giorgio De Chirico, "Ritratto di Guillaume Apollinaire", 1914

Un gioco sì, dunque, ma esistenziale, poiché i giochi di parole, queste incessanti figure etimologiche, non sono degli orpelli squisitamente fini a se stessi, ma costituiscono la scena su cui si staglia la dura domanda finale: "ma dov'è la terra celeste?". Se infatti la realtà materiale, la mediocrità della discussione quotidiana può rappresentare una collana di tautologie, di banalità senza significato, di vuoti lapalissiani, è il principio della Surrealtà che dona all'uomo una direzione. Non più il cielo celeste, astrazione metafisica del sogno, e non più la terra terrestre, la concretezza senza voce, ma l'attesa di una nuova realizzazione, in cui queste dimensioni possano compenetrarsi e completarsi, come scriveva André Breton nei suoi manifesti: credo alla futura soluzione di quei due stati, in apparenza così contraddittori, che sono il sogno e la realtà, in una specie di realtà assoluta, di surrealtà, se così si può dire" ("Manifesto" del 1924); e ancora: "tutto induce a credere che esiste un punto dello spirito da cui la vita e la morte, il reale e l'immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e l'incomunicabile, l'alto e il basso, cessano di esser percepiti come contraddizioni. Ora, invano si cercherebbe nell'attività surrealista un altro movente che la speranza di determinare questo punto" ("Secondo Manifesto" del 1930). D'altronde anche Magritte definì la Surrealtà come "la realtà che non è stata separata dal suo mistero" ed è per questo che, concludendo il primo "Manifesto" Breton potrà scrivere: "Vivere e cessare di vivere sono soluzioni immaginarie. L'esistenza è altrove".

un esempio dei primi "cadavres exquis"

In questa prospettiva il gioco infantile come le filastrocche o il "cadavre exquis", il gioco collettivo come l'indagine e le sessioni di ipnosi, il gioco magico come i tarocchi e gli schemi alchemici, in definitiva il gioco è una componente essenziale dell'atteggiamento surrealista, uno strumento rivelatore della verità più intima e autentica. Così la poesia, questo vento avventatamente ventoso (adesso tocca anche a me, anche a noi poter giocare...) ci libera dalla polvere dell'abitudine e dell'ordinarietà apatica e ricrea il mondo attorno.

Disgraziatamente la sorte sarà avversa a Desnos, che, impegnato nella Resistenza francese, nel 1945 morirà nel campo di concentramento di Terezin, vicino a Praga, pochi giorni dopo la liberazione; paradossalmente a un poeta tanto spensierato e pieno di vita è stata riservata una fine tanto tragica.

"Non è la poesia a dover essere libera, ma il poeta" (R. Desnos)




domenica 27 ottobre 2024

Una teologia delle "ciammaruchìt"

Da anni mantengo in me inviolata una morale segreta, quasi una mistica, appresa tramite lunghi esercizi e sessioni sempre più complesse, che col tempo ho denominato “teologia delle ciammaruchìt”. Queste, in italiano “ciammaruche” o anche “ciammaruchigli”, “chiocciole” o anche “maruche” in alcuni dialetti del sud, sono quelle minuscole lumachine di terra che d’estate si affastellano nei caldi campi del meridione, ingombrando steli, spighe, muretti in pietra della campagna, come file di auto attrafficate a Milano all’ora di punta.

È stata mia nonna, già nella mia prima infanzia, a iniziarmi a questa ritualità cerimoniosa, con un’eleganza silente che consisteva nello sfilare in maniera minuziosa, armati di un appuntito stuzzicadenti, la polpa dal guscetto e poi, con uno scatto furtivo, ingerirla. Neanche il tempo di assaporare questa minima esca di carne che già ci si slanciava a ghermire una nuova vittima, con lo stuzzicadenti ancora grondante in mano. Si potevano inoltre facilmente osservare anche varianti e virtuosismi raffinati del gesto, visto che a volte  le circostanze avverse potevano costringere il commensale a utilizzare la forchetta per forare il fondo del guscio e poi, ancor più rumorosamente, a suggere il prezioso contenuto succulento: erano dei caldi baci di passione.

Ancora più appassionata era la scarpetta finale, in cui il tozzo di pane doveva rimanere attento tanto a farsi permeare dal fondo di olio, tenero come la schiuma di un sapone provenzale, tanto ad artigliare con ferocia gli spicchi cotti di aglio, dorati galeoni talvolta arenati ai margini del piatto. Non chiedetemi la ricetta, un segreto della tradizione esoterica della cucina mediterranea, ma nel mio piatto ho imparato a ritrovare passi di “Moby Dick”, duelli dell’ “Iliade” e persino versi oraziani e in famiglia la pentola di ciammaruchìt posta a centro tavola era l’epifania di un concerto mozartiano stravagante di sapori. La nostra storia e la nostra identità d’altronde coincidono con la nostra memoria. 

No, non è tutto qui.


Ci sono infatti tre aspetti che arricchiscono questa liturgia di tratti finemente teologici. Quando ero bimbo in questo apprendistato fissavo le labbra dei miei parenti intorno tutte intrugliate di olio, senza riuscire a togliere gli occhi. Gli schizzi di guazzo e i fischi dei violenti risucchi offrivano un affresco spettacolare di un’acribia raffinata e assoluta. Ogni guscio rappresentava per i famelici commensali non più una conchiglia priva di alcun valore, ma lo scrigno da sviscerare che conteneva il tesoro criptico del cosmo. La lingua poi avida accoglieva il minuscolo fagotto del bottino con la cura di una gustosa meraviglia e rivelava che ciò che è quisquilia quisquilia non è, che ogni suono partecipa di un’armonia cosmica, che è il dettaglio acquattato in disparte che sostiene l’equilibrio del mondo. Una collana invisibile di conchioline ci stringeva a un tavolo, ci legava a noi stessi. Lo zio sorrideva, mia madre correva a prendere altri stuzzicadenti, mentre mio padre versava bicchieri stracolmi a tutti. Mia nonna sferrugliava incessanti le sue labbra tra i gusci come primo violino di un’orchestra solenne, ubriaca e casta.


In quella sala abbagliata dalla luce del sud, il banchetto rustico continuava, estendendosi e prolungandosi nel pomeriggio inoltrato, e l’orario non era misurato che da un’ampia casseruola al centro della tavola imbandita, in cui i relitti cadevano uno alla volta, uno per uno, tic tac, fino a erigersi alla sommità di un’immensa piramide sepolcrale. Al rintocco dell’ora, puntuale e lieve una mano di donna sostituiva la pentola e gettava le migliaia di scheletri all’oblio perpetuo con uno scroscio abissale: così si ricominciava questo cammino di purgazione. Il tempo era solo un riflesso, un dettaglio di un orizzonte cruciale: non erano i minuti a regolare le lumache, ma queste ultime a dare il senso ai minuti. Cosa era la fatica della vendemmia, del lavoro ai campi, che ne era della cura degli olivi, le serate estive al faro se non avessimo osservato la massima diligenza prima di tutto per il piatto di ciammaruchìt? È urgente trovare un ordine delle cose in cui non venga messa in discussione l’inutilità, spensierata e sacra. Stare insieme d’altronde, far festa, non solo è un obbligo e un impegno, ma una fatica sacra, come il sudore vischioso dell’aratura o la grida disperate del parto. Così talvolta la sera ci trovava ancora a tavola, senza che fosse necessario giustificarsi o esibire permessi: avevamo pranzato assieme.


Il terzo punto capace di stupire quell’io bambino era un altro ancora, tanto più esplosivo. Era negli occhi di mio nonno Gioacchino che, prendendo il mio bicchiere, lo annegava nel vino nero, nero e profondo, nero e ruvido. “Quando si mangiano le lumache, si beve solo vino, nient’altro”. A me tale posizione pareva stramba se non palesemente assurda: per tutto l’anno mi era vietato quello che in quest’occasione diveniva obbligato? Forse a queste chiocciole era dovuto un onore che superava ogni norma quotidiana? Fatto sta, io bevevo del vino nero annacquato e, beandomi di quelle sfumature rosastre, ingurgitavo quell’intruglio più acre di quanto potessi tollerare. È questo, mi chiedo ora, che dava vita alla festa, all’ebrezza generale? Non c’era nulla di più prosastico delle “ciammaruchìt” e non c’era nessuna legge che sovvertisse così vorticosamente l’ordine del reale: “quando si mangiano le lumache, si beve solo vino, nient’altro”.


Anni e decenni dopo, la prima volta che Laura vide le ciammaruchìt, in una passeggiata sull’altopiano delle Murge, rimase stupita, quasi affascinata, leggermente attonita: “Ma quante sono? così piccole, e dovunque”. Perle lucenti di un manto gigantesco sopra Madre Terra. Stelle sparse nelle tenebre della materia. “Sono così piccole, sono dovunque”. Già comprendeva senza equivoci come non fossero solo abitanti invisibili delle distese secche, ma erano un silenzioso nume tutelare di questi luoghi, il segreto della vita qui, nascoste e assolate, una sorta di angeli che rammentavano le leggi dell’universo.

E oggi? Oggi mi impiastro ancora per ore per godermi un piccolo piatto di gusci, anche se le estati sono sempre più lontane e le giornate meno luminose, ancora rido e bevo del vino nero con mamma, zia e tutti, ancora alla fine svuoto i resti in quella casseruola centrale che risuona come una campanella per bambini, ma non è più lo stesso. Il rito è divenuto memoria e la memoria ricerca, la ricerca consapevolezza: ora, che ho perso la mia innocente meraviglia dell’infante, posso dire che ho forse scorto qualcosa in più, che dietro tutte queste follie da contadini e cafoni c’era un riflesso più profondo, miniere preziose che mi sussurrano di d-o. In questo guscio cosmico in cui siamo avvolti dalla vita come in un ventre materno, l’esistenza ci lega stretti l’un l’altro attraverso una magia silenziosa, in un flusso di grazia in cui tutti c’imbattiamo abbracciati. Questa laboriosa attività di dita e mandibole rivela con semplicità (e cristallina lucidità) che, quando c’è spazio per il tempo dell’inutilità, quando sgorga l’occasione della festa autentica, quella che ci stringe l’uno a fianco dell’altro senza più estranei, allora la vita ritrova luce.

Secoli fa i Padri della Chiesa, per tentare di spiegare il concetto di d-o, utilizzavano mille immagini e mille prefigurazioni alla portata degli ascoltatori, così i loro discorsi erano accampati da delfini, leviatani, da api e pavoni, sgargianti di colori. Se oggi potessi aggiungere uno schizzo tutto mio, esordirei aggiungendo l’allegoria di una lumaca, sebbene forse sia stato d-o che ha utilizzato queste benedette lumache per anticipare cos’è la vita della felicità perpetua e del suo regno, così in cielo come in terra: un banchetto nella stasi del tardo pomeriggio, tutti caotici attorno a un unico tavolo infinito a festeggiare, con un bicchiere di vino nero in una mano, lo stuzzicadenti già unto nell’altra. Lo zio sorride, mia madre corre a prendere altri stuzzicadenti, mentre mio padre versa bicchieri stracolmi a tutti, signori che ancora non conoscevo o invitati che avevo visto solo da lontano. Mia nonna sferruglia incessanti le sue labbra tra i gusci come primo violino di un’orchestra solenne, ubriaca e casta.





mercoledì 2 ottobre 2024

gli occhi di mia figlia

alla mia bimba piacciono i fiori

lei adora fissarli poi sfiorare le fresie arancio

a questa mia bestia piace divincolarsi in piscina

per poi uscire con gli occhi umidi di cloro

per poi avvinghiarsi primitiva al mio abbraccio

a Celeste piace ascoltare Philip Glass

e divorare di bava Tino l'elefantino

e le bottiglie blu si diverte

a pizzichettarmi la barba bianca

poi si perde nell'interpretare la maglia del pigiama

a mia figlia due cose paiono detestabili:

star immobile costretta supina

e sentirsi sola e forse

non ha torto, mia figlia

Celeste ha due occhi come il mare







giovedì 5 settembre 2024

3 settembre 2024

 tra i muriccioli del porto un pianto

avviluppato tra le grida di gabbiani un pianto

di bimba ho raccolto questa briciola bruna

e l'ho abbracciata cullando mia figlia