lunedì 2 luglio 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, VI


Il canto del BIANCO: la forza, l'impetuosità della natura, l'autenticità, la libertà, il vuoto, la violenza.
fuori è bianco. come i denti che sbattono, come la biancheria lavata al fiume. 
fuori è bianco.
l'uomo ride davanti e dietro piange.
E poi il buio finale, che sembra spegnere tutto, tranne il ricordo.
Poiché in mezzo al buio noi non potevamo che sognare altro buio.
chi ci indicherà l'ora acre dove il timo sta morendo d'inganno
e fa fondere il suo colore nell'acqua tenere dei baci beffardi?
perso all'interno di se stesso qui dove nessuno si avventura salvo l'oblio.


Lisippo, Pugile a riposo


VI

anche sotto la scorza delle betulle la vita si perde in ipotesi sanguinanti
dove i picchi beccano degli astri e le volpi starnutiscono delle eco insulari
ma da quali profondità sorgono questi fiocchi d’anime dannate
che ubriacano gli stagni della loro calda pigrizia
forse che il cigno che gargarizza il suo bianco d’acqua
bianco è il riflesso di cui il vapore si prende gioco sul brivido dell’otaria
fuori è bianco
una spaccatura che canta di ali assorbe il mistral nella sua corolla di pavone
che l’arcobaleno schioda dalla croce del ricordo
sbattendo i denti del cielo battendo il bucato al fiume
turbinano i mulini bianchi
tra i fiocchi d’anima che gli oppiomani fumano all’ombra degli sparvieri

*

la bocca chiusa tra due notizie opposte si ghermisce
come il mondo imprevisto tra le sue mascelle
e il suono secco s’infrange contro il vetro
perché mai parola ha varcato la soglia dei corpi
morto è lo slancio che faceva bollire il maltempo
nei recipienti delle povere orribili teste nostre vicine
e nonostante il fango cittadino dei nostri sentimenti
fuori è bianco
che importa del disgusto poiché la nostra forza è più ininfiammabile che la morte
e il suo ardore non distruggerà né i nostri colori né i nostri amori
conchiglie e cocci stratificati in piani di proverbi
il senso è il solo fuoco invisibile che ci consuma
dall’origine della prima cifra
gli avicoltori parlano un linguaggio semplice
formato da un alfabeto di uccelli dal bianco di fuori
bianco è il dito che i pensatori hanno tanto sfregato contro le loro tempie
noi non siamo affatto dei pensatori
noi siamo fatti di specchi e di aria
e comunque insoddisfatti oscuri desolati impermeabili
i denti di sega che adornano la nostra fronte s’avvicinano alla morte
e balzano agli occhi da una cosa all’altra per tutta la lunghezza del dizionario
sbattendo i denti del cielo battendo il bucato al fiume
vomito dalle bianche creste la nebbia si coaugula tra noi
e forse che saremo presto imprigionati nella materia densa e melmosa?
forse che saremo presto assorbiti dallo spugnoso letargo del ferro
che supera della lunghezza di una dolorosa litania la birra e la menzogna
sorta da quale ghiacciaio pungente di cui il bianco di fuori gargarismo di nuvola
succhia dalle radici delle nostre iridi il miele dei secoli a venire?

*

appassita della sintesi l’indomita tonica
e fiorita nei ricci libera dalla pelle
alta in una corporatura di muro
frequenta la morte quotidiana la mia giornata è una fragile insonnia
ride davanti e dietro piange

*

le conchiglie e i cocci stratificati in piani di proverbi
si leggono dall’alto al basso attenzione fragile vetri
le risa rampicanti inseminano di tempesta le costellazioni di api
e le lumache annusano la maledetta zuffa degli acquazzoni
ride davanti e dietro piange
perché fuori è sempre bianco
e come la trota che si affanna contro la corrente che salta gli argini nel senso opposto delle cascate
tu risali la tua brizzolata giovinezza fin dove il sole ha deposto le sue uova
e se da ogni bagliore placido emerge un’agitata aureola di salvezze
non si sa quale alta marea di magie si lanci alla conquista di nuovi punti di ritorno
dunque forse che raccogli nelle reti d’ombra i rudi desideri che passano la loro vita a morire nel mezzo
e le morti permanenti che non arrivano a morire?
l’uomo munge l’eterna sottrazione di ogni pezzo in lui stesso
che gli resta a maturare del suo debito nero verso i duri soli
ride davanti e dietro piange

*

cavalcatrice di spasmi profondi è il cassetto d’antichità
che la pesca crepuscolare e la glaciale offerta hanno sorvegliato fino al riposo delle parole laggiù
edificio impasto urbano
sbattendo i denti del cielo battendo il bucato al fiume
un poco di latte un poco di zucchero un poco di
all’ombra dei fumanti spini sotto le arcate del tuo cuore
canta in vedetta un rosario d’occhi incerati
e senza gioia s’accende lo scarico libero nell’occhio del vulcano
dell’aereo l’annuvolata depressione d’aria libera
cavalcatrice di spasmi vento è il tuo pensiero fulmine la corsa
tempesta l’ossessione botanica il tuo letto
il mazzo di sentieri si alza e cammina in testa
e i lunghi pendii scivolano facili le processioni laggiù
è l’esodo delle foglie verso delle altre presso delle albe più grasse
così sfondo alla candela il tuo ricordo spaesato
la pioggia ha roso la malattia delle pietre gazze
cibo dei sorci le serpi si contendono la preda dei ripari
e la cenere dei cadaveri porta agli scricchiolii degli abissi incastrati l’uno nell’altro
all’ombra dei fumanti spini in vedetta la sua perfida inutilità

*

chi ci indicherà l’ora acre in cui il timo sta morendo di inganno
e fa fondere il suo colore nell’acqua tenera dei baci beffardi?
sull’albero i frutti terrazzano il loro balbettio visuale
fuori è bianco
bianco è anche il tuo sorriso insegna del tuo corpo più bianco che ogni esperienza
sbattendo i denti del cielo battendo il bucato al fiume
se mi fortifico alle sorgenti indicatrici delle libellule di ferro c’è che
e se mi smarrisco c’è che io
cavalcatrice di cascate il tempo ha corso i suoi rischi e i premi
fui più forte e il “c’era-una-volta” fu il mio compagno di marmo
i pugni degli alberi morti si alzano ancora
e contro l’autunno del firmamento s’abbandonano
è la mia speranza

*

ora immergo i tuoi occhi nel nero fitto della canzone di paglia
il vino sarà più vivo filtrato dai vespri delle tue pupille farfalla
ora sciolgo alla candela un ricordo spaesato
vagabondo con dei labirinti attaccati all’ombra dei miei passi
con dei pesanti pacchetti di labirinti sul dorso
perso all’interno di me stesso perso
qui dove nessuno s’avventura portato sulla lettiga delle ali d’oblio
e a dispetto dei razzi partiti all’interno del globo
gli armadi geologici sonnecchiano nelle fauci della montagna
di cui i corvi tormentano il silenzio indecifrabile
stringendo le loro larghe e dure spirali d’acciaio attorno al volo unico
perso all’interno di se stesso qui dove nessuno s’avventura salvo l’oblio




giovedì 28 giugno 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, V

cosa è più bello di due occhi fissi e attenti nell'immagine di due altri occhi? uno specchio di identità, tanto differenti e tanto simili. noi alla scoperta dell'altro e un finale emozionato, "di pagina in pagina", perché conoscere gli occhi dell'altro, scoprirne la sua storia è sfogliare un libro che trova termine, né leggi. 
perché in fondo l'uomo è una realtà in perpetua approssimazione.




V

dai tuoi occhi ai miei il sole si sfoglia
sulla soglia del sogno sotto ogni foglia c’è un impiccato
dai tuoi sogni ai miei la parola è breve
lungo le tue primavere piegate l’albero piange la sua resina
e nel palmo della foglia leggo le linee della tua vita

*

l’etichetta della pianta che è una bottiglia di cielo
e anche sul tuo cuore le etichette sorvegliano i loro segreti
con l’annunzio silenzioso resto appiattito e appiccicato alla farmacia
della terra appiattito la trionfale malattia delle nuvole
sfonda l’orizzonte e crolla il castello di carte meteorologiche
ma per quale vantaggio tromba delle stagioni
giornale sventolato alla terrazza del firmamento
per dove lo si filtra con disprezzo l’equivoco spezza delle versioni astrali

*

sonno grasso d’alberi spossati
sorde torture gli sbattere di carni nella loro scorza ammaccata
dai crepuscoli furtivi le valanghe d’angeliche nudità
martellano i giorni dal passo pesante dei tuoi amori
lasci nel nido di sogno il chicco alato il tuo gigante uccello
sonno grasso d’alberi spossati
ordite corone di vette intrecciate con i nudi
lago mozzato di netto sull’umida fronte della terra
lontano lontano inseparabile dalla morte ed inesauribile
nel grembo del sonno che chiude su di te le dita di dimessi assilli
si scavano sul foglio del passato i torrenti della vita geografica
sonno grasso d’alberi spossati
con un occhio uno solo rivolto all’interiore
valvola delle danaidi non riempirà mai la sacca il barlume
e sul tuo smalto lunare dio di sogno io raschierò il cammino delle carovane
di cui i lunghi fischi assicurano la partenza di bruma
una fontana nel petto e l’inesauribile sapore nell’interiore
verso le magiche insolenze delle parole che non nascondono alcun senso
cavalcando le torture prese nel loro corsetto di vallate da salti e singhiozzi
quando apro il cassetto della tua voce fresca senza nome
nastri merletti delle età braccialetto dei denti
lo metto attorno al mio polso quando sfondo la porta del sogno
per uscire alla soglia del giorno lacerato da battiti di cuore e di tamburo

*

a malapena svegliate le mie membra sincere sulla lapide piantate
fioriscono il sepolcro aperto di pasque e di drappi solari
nel cielo ho raccolto tutto il cielo superfluo
per gli ingressi del villaggio radunato con le bestie
cielo bollito dove fluttuano le pergamene e gli scheletri
e che porta a ritrovo i tronchi d'alberi alla segheria
ho abbandonato la vera vita traboccante dell’aspetto di gentiluomo in sogno travestito
i pesci delle nuvole che risalgono la corrente delle vene stipate
di liquori strappati alle fiamme che delle mani di ferro hanno ritorto
nelle acciaierie dei vulcani dove ci si prepara dei satelliti per i cannoni
impalpabili panni che accarezzano la pelle del paese insicuro

*

attraverso la finestra aperta le case entrano nella mia camera
con delle camere in disordine dei risvegli e delle finestre aperte
le caraffe dei campanili si sgolano al fresco delle gengive
sotto la lente d’ingrandimento del cuore l’erba intreccia la sua vetrata
l’erba offre dei tessuti il sistema e il dettaglio
ma andatevene freschi ricordi e previsioni di primavere passate e d’altre a venire
lasciatemi il mio inverno di cuoio al mio sotterraneo lavoro
nervi nutriti di una pigra costanza l’umidità degli astri viventi
dalla radice alla pietra vede il male
il vento falcia la chioma delle nostre speranze

*

risveglio al limite delle fini di frase sospette
risveglio limite entro nel giorno il sonno al rovescio
al nuoto che sfocia nella spaziosa festa dell’aria carica di sinonimi
ho camminato sul cielo a testa bassa
tra gli arbusti di fumo d’alghe i sentieri lattei
i banchi marini di termometri e di pianeti
dove germogliano i berretti i fari e delle orecchie di grammofono
la catena delle montagne dorate sul ventre
il sole un orologio e la vetrina del mondo
le forbici delle lancette tagliano l’ombra sino alla notte
l’uomo s’accorcia con l’anno infinitamente

*

i torrenti srotolano la loro pellicola attraverso il paesaggio
il cowboy guarnisce il suo podere di alberi di lacci
l’orizzonte testa nuda gli serve da ombrello e il suo cuore
il suo amore zampilla del calore del geyser criniera al vento
e la vita si rannicchia quando lui vende la sua pelle al diavolo
ho camminato sul cielo con l’anno infinitamente
si seguono le foreste anatomiche dove lo si pianta di annotazioni
l’uomo s’accorcia con l’ombra sino alla notte
e la pioggia cade dal basso in alto schizza la tribù degli dèi nomadi
ho camminato sul cielo alla vetrina del mondo
dove le stelle volano da un fiore all’altro e succhiano il miele della loro primavera di piuma

*

In fondo proprio in fondo chi dissimula vede
vede un altro occhio nascosto all’interno
all’intersezione delle correnti di carnali inclinazioni
si scorda il nocciolo nelle sue palpebre e petali
mentre i cartelli strappano il rivestimento del muro
ma ecco gli annunci che dicono che tutto non è di fuori
e raccoglie le foglie che il suo autunno posò per terra
e la neve già cade e le chiese si stendono per le strade accuratamente
e i gatti in braccio divengono delle piccole locomotive
circondati come noi lo siamo di uccelli e di fortificazioni
silenzio boreale silenzio dall’occhio aperto come una bocca
e dai denti di neve al posto delle ciglia
pacco di case immobile legato pronto a sprofondare
nel baratro luminoso del mare splendida cataratta e crisi
sebbene i rami abbiano insinuato la loro cristallina nudità un po’ ghiacciata dappertutto
quanti strani matematici giocano nel tuo sorriso accanto al fuoco compiaciuto
e quante navi solcano il ricordo delle tue arterie
le latitudini del tuo corpo morse alle carni incantate
sotto il disgelo delle tue fini parole che cadono dal bordo dei tuoi occhi navigabili

*

ma che la porta si apra infine come la prima pagina di un libro
la tua camera piena d’indomabili d’amorose coincidenze tristi o felici
taglierò a fette il lungo filo dello sguardo fisso
e ogni parola sarà un incantesimo per l’occhio e di pagina in pagina
le mie dita conosceranno il fiore del tuo corpo e di pagina in pagina
dalla tua notte l’arcana ricerca si schiarirà e di pagina in pagina 
le ali della tua parola mi saranno ventagli e di pagina in pagina
dei ventagli per scacciare la notte dalla tua figura e di pagina in pagina
il tuo carico di parole al largo sarà la mia guarigione e di pagina in pagina
gli anni diminuiranno verso l’impalpabile soffio che la tomba già brama




lunedì 25 giugno 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, IV

"che senso ha parlare di poesia, quando fuori accade quello che accade: la propaganda, i censimenti, la violenza?" sta pensando qualcuno.
ma quante volte Babele è crollata, Roma è bruciata e il il "crociato" è stato sconfitto? e il "barbaro" non è nemmeno mai esistito.
io parlo di poesia perché come è possibile comprendere la complessità della realtà senza comprendere la complessità dell'interiorità umana?
io parlo di poesia perché un uomo che amerà una sola poesia, un solo verso non potrà non dico odiare, ma semplicemente essere indifferente di fronte agli occhi di un altro essere umano, un essere umano diverso, un essere umano come lui. la battaglia con l'odio si può combattere solo con l'amore, l'impegno e la conoscenza.
io parlo di poesia poiché, dentro, ci siamo tutti noi e pure questa giornata di sole del 24 giugno 2018, "e tanto d'altro, e tanto d'altri". 
scommettiamo?


"io mi svuoto davanti a voi come una tasca capovolta
T. Tzara, appunto.


Gustav Klimt, Ritratto di Johanna Staude, 1917, Museo del Belvedere, Vienna


IV

filtra il fiore setaccio di radura
la fragola ruota il suo occhio grasso all’interno imbottito di labbra
e l’indice del pistillo tocca l’incredula piaga del cielo
saccheggiato dagli attacchi notturni delle lontre
disteso accanto a noi dove gli incerti equilibristi si lasciano cascare nella rete
al salice sono appese le bardature della tristezza
che le lunghe giornate d’autunno hanno unto con carezze di amaca

*

il bucato dalle bianche fiamme ride nella sua lingua d’alcool
e l’insetto carrozzina piega bagagli e competenze
se ne va sulla strada imberbe dove la parola ricama il sughero
e l’albero succhia la resina dalle ciotole dei cuori torridi

*

un colpo di cannone raggrinzisce i globuli rossi sotto la tenda
dove gli assonnati missili vivono in colonie d’elettricità
e raccoglie nel suo grembiule di raggi le bucce dell’orizzonte nella sera
l’informe demiurgo vede in ogni albero un vivo benvenuto
sulla strada imberbe dove la parola ricama l’altezza
la foresta affannata è salita sino alla cima della concezione matematica
e senza nuvole il suo petto volteggia attorno a dei cuculi trasformati in minuti
ma la freschezza crepuscolare dello spirito placherà presto la nostra fame di mondi
e appannerà i brandelli di vita che deponiamo di scalino in scalino
nella vuota vertigine che la morte lascia sfuggire dalla sua orbita
dalla bisaccia così miserabilmente carica delle scorie sonanti d’ineffabili castighi
di scontri e di fatiche incalcolabili per non arrivare a nulla
tormentati come lo siamo noi dalle microbiche previsioni dei pensieri
poveri esseri che non possono distogliere lo sguardo dal calcagno della morte
quando l’informe demiurgo vede in ogni albero un alibi vivente
l’autunno trascina su delle stampelle il vento balbettante
e le pinne dei cespugli non piangono più sotto il mantello
dormi dormi
l’alfa si chiude sulla tua palpebra
il chicco delle montagne
l’acqua ti osserva
carovana d’acqua
chicco di sguardo
aggrotta le foglie sopraccigli delle montagne
sotto le dita dell’acqua cullate le campane si chinano
il ventaglio della galleria si apre sul seno della sera
i sogni hanno suonato tutte le vacanze

*

moncherino barbuto d’albero il pugno alzato al combattimento delle secchezze
tuono valvola delle valli dolenti
che canta monotonia dai chioschi schierati come tazzine di caffé
e fili soprannaturali che legano le strade sanitarie
appese ai bastioni dai colli robusti
cerchi volteggianti attorno alla morte di fosforo
l’erpice delle smorfie marce ha aggirato l’irreale dai denti belligeranti
ma tu incurante di ciò che non ha né peso né presagio
bagliore sostanziale
che a mala pena sorride a caso dei muscoli gli occhi e il vento
così le lingue di neve leccando i sali profondi dei precipizi che brulicano di sfere
dormi dormi
il pioppo sta volandosene via
il biancospino sta cavalcando il relitto di nuvola
morso è il fianco della bilancia
dove il paesaggio pesa sul suo dorso d’asino il dolore da distribuire ai montanari
dei fiori più piccoli che dei chicchi di polvere
ti porteranno su un alfabeto di armoniche
e sui tetti che arrotolano delle farfalle
schiena trasparenza fissata di brina
per l’abbondanza di notte
e chiaro canestro del lago
sono i nuovi violini che germogliano sui violinisti
sono i nuovi bambini che escono dai violini volanti
dormi dormi
la pioggia é fuggita canoista di bianco

*

sparsi sui mazzi di chiavi delle fonti sotto i tappeti calcarei
le nere bende di proverbi predatori vegetano sempre nei dintorni del sonno
e le lische di cristallo cantano sull’organo l’impalcatura dorsale del carico che rimugina le sue forze
alla frontiera dell’odore di asfalto si muovono le pesanti tribù di mobili carnosi
ma quando l’orgoglio del petalo fiorisce ritornano foreste di caprioli per morire
e  i geyser del flauto e della coscienza arruffati sul fronte dei mucchi
ammuffiscono sotto gli ombrelli di paglia dovunque l’equatore riponga i suoi nidi
davanti al focolare dove il silenzio si mescola all’henné stellare
e la scorza colori ingannevoli si stacca
i frutti abbronzati si spogliano delle boscaglie addolorate di anziane ragazze
che i racconti alisei hanno battuto sul parapetto dei ponti
nella grotta la musica di gesso s’illumina
l’abete veglierà sui montoni d’ombra che s’infrangono delle lampade di acetilene
la fiera dalle conchiglie in sordina
tinta nel corno di mica
è il corteo dei viaggi che si scuote
il colchico delle mani giunte s’inabissa
crisalide di rondine
dorso della biancore proibito ai lupi

*

e la mitologia diffusa dei nostri selvaggi fuscelli di sapere
ruota la mola increstata del pianeta
una lunga dipartita di canto d’usignolo senza lacuna
e l’ambra senza lacuna del tuo tormento maestoso
così si uniscono alle metalliche verità i giorni di festa che siamo
che vogliamo essere
radunati nella stessa treccia di fluide colline
sgranano i cuori lungo dei nodi quando il palombaro scende nel fondo dei pianti
sempre accanto a noi l’odore di catastrofe che sparge la luna
dormi sotto l’ascella dell’acqua
vaga sola
stringe forte il fiore attardato
al petto dove si accampa la solitudine dei marinai
la notte ha messo le ginestre in prigione
l’uomo si disfa dei suoi arnesi
i succhiacapre addomesticano il chiasso angusto
e le corone di ferraglie imbianchite fino alle ossa
sono sospese in alto dalla collera che viene dai fiordi
pronte a cadere nel bollente eccesso le loro mammelle dentellate d’ardesia
s’ingranano con delle cure di neonati nella catena del sole che sorge
la minaccia dei rapimenti crudeli spezza i contatti dei nervi
sbarra la strada dello spavento dalle manne soporifere che colmano tutte le brecce del sentimento
e il chiassoso niente incrocia le sue braccia sopra il baratro stregato dove la pace fuma il suo dolore
nei giacimenti nel cuore delle vegetazioni che si dimenano
le palpebre si ubriacano nell’allegoria dei drappi
io getto l’ancora del sonno disordinato nell’ansa chr così familiarmente vagisce d’incanti
e i lamenti di notte spaccature nell’alambicco delle menzogne
mendicano all’equipaggio folle la tregua del rimpianto errante

*

schiava è la ragione di una favola di discordia
così il coleottero che porta in sé il suo sconvolgimento fuggitivo
rintanata nell’elogio del suo rimedio occulto
sottomessa ai riti colossali delle vane passioni
e l’antro dove l’ingiuria sgozza il daino dell’alto giuramento
dove alloggiano i crateri degli inferni dove passeggiano i pettegolezzi dei pipistrelli
i piloti della disputa scartano l’incantevole espressione della regola del giusto
crolla sotto il peso dei ceppi in fiamme e dei malinconici schiavi delle furie
e attraverso la delirante distanza dell’acquavite e dei rottami d’orgoglio
L’esempio di vendetta misura il riscatto astuto

*

custode delle immateriali baracche del riposo
bottiglia sull’onda incinta di mostruose immortalità
tu porti rinchiusa nel segreto delle tue viscere la chiave delle immense coincidenze
tu non lasci penetrare alcuna bramosia dalle scrostature irrequiete della tribù dei frutti
ma l’eterna agitazione ci è luce comune
e di generazione in generazione ci incatena ai suoi sogni costellati di spighe
pace sul di fuori di questo mondo capovolto nella mola delle unanimi approssimazioni
e su tanto altro e su tanto d’altri