venerdì 10 aprile 2020

Venerdì



"on nous harcèle au point que nous harcelons Toi
on nous presse à entrer dans le désert de Toi"


siamo incalzati a tal punto da incalzare Te
siamo spinti a entrare nel deserto di Te


Patrice de la Tour du Pin



Gerrard Büttner, Gefangener das Wort 'Freiheit' betrachtend,
Prigioniero che guarda la parola "libertà",1988

martedì 17 marzo 2020

Biondo come il Sole




per fortuna gli uomini possono sognare 
gli uomini possono sognare 
e l'uomo può ancora essere sognato. 
dalla biblioteca dei bimbi una banda 
a brandelli stona l'inno canadese esce 
travolge 
i non più verdi viali arteriosclerotizzati travolge 
e pure qualche audace viola si unì a cantare 
mentre il paese non più paese 
era ma mondo e i miei morti torneranno a salutarmi. 
pure i treni lunari pure sobri battelli pure 
voi e qualche sbandato sconosciuto 
a intonare la festa delle feste, quella 
senza nome illegittima sconclusionata quella 
allora vodka galleggerà nelle stelle 
e non dovrò chiamarti non dovrò rintracciare parole 
Amore non ci saranno pezze di voce: 
io penserò Te e Tu già avrai amato. 
il cemento si articola in scheletri fuggenti 
tra alberi amaranto poichè io seguo la banda 
strimpellante moderni ritornelli arcani, 
rovina del mondo, di questo, mentreppure 
creazioni di respiri prendono vita 
e il vento non ha smesso di soffiare non ha smesso
io non mi ubriaco non scappo non rubo: 
solamente dipingo prati in cui anch'io 
possa trovarmi e fiatare 
del vento che sono. 
e sarà. 

un uomo sognato da un uomo.

venerdì 6 marzo 2020

Ovuko


Ora che, dopo mesi e mesi, riascolto ancora la tua voce, pronuncio ancora senza risposta il tuo nome, che mi rimbomba nella testa, solo ora capisco che non potrò dire mai nulla di te, che non potrò mai raccontare abbastanza. Passano settimane, passano mesi e non riesco mai a trovare la parola, Ovuko.
Mai niente a nessuno.




Non basta scrivere che sei una bellissima bambina di 9 anni, dagli occhi sottili come un cerbiatto impaurito; non basterebbe neppure raccontare come ti ho conosciuto nella corsia dell’ospedale di Ariwara, distesa su un letto, quel letto subito a destra, vicino all'ingresso col materasso di gommapiuma blu, né di come ti circondavi di quella coperta della Turkey Airways che ti avevo lasciato, né come sei divenuta mia amica e sei restata mia sorella.
Mai niente a nessuno.


Quei piedi gonfi, quel petto sofferente, quel volto smagrito per un’insufficienza cardiaca che non potevamo accettare e che allo stesso modo non potemmo guarire.
Ovuko, ormai è da mesi che di te non parlo più a nessuno, non posso parlare più e mi limito a riascoltare il tuo canto alla sveglia, quel canto lugbara che ti insegnai per i lunghi pomeriggi di quelle sante settimane a te che lugbara non era e con cui comunicavamo a fatica, con un sorriso e due gesti di danza. Resto a ripetere quel canto, a rileggere quelle lettere che avevi abbozzato su un quaderno, a rimirare le tue espressioni. La cosa che ancora mi sorprende non è che un giorno senza alcun avviso te ne sia andata, quanto piuttosto come parte di me è tanto ancorata a te da non poterla mai più lasciare.
Eppure mai, niente, a nessuno.

Mi rimane la tua voce da riascoltare, ogni giorno, perché ho perso la mia, Ovuko, sorella mia.



IL CANTO DI OVUKO

una canzone muta sventola senza posa
sventola e tu la ascolti
mentre spolveri del fondotinta
mentre corri sulle chiacchiere dell’imbrunire
non stenderò nessuna nuova canzone: troppe melodie
hanno già danzato sino al declino
e io arrivo ormai a notte tarda
canuto i ballerini stanchi
canta tu, ragazza, per me
ma che le parole siano sangue
il cielo d’Ariwara incombe magnifico
e mosso i giardini di manghi non cadono mai spogli
e la sua sabbia non scivola più via dalla pelle
nulla muta sopra i monti
dove quella zebra cacciata
brancolava il bufalo ferito e
accasciato allontanato nei silenzi inerti
Ovuko accasciata che muore
bella come una ballerina in scena
bella nello stento del suo sorriso
su questo materasso lercio e sudicio
"adroni maa fera"
la tua voce splendeva gracile
"ayikosi" splendevi che parevi marte
avevi occhi sottili come marte rosso
ma ti gridava il cuore selvaggio
ti gonfiava ti batteva ti sbatteva
“insufficienza cardiaca” recitavamo nella nostra
preghiera sangue sulle mie mani
la sera senza pace la notte
tra le corsie di piscio e di sangue
e il tuo materasso rosso
così Beatrice conosceva il mio nome
come fosse un canto:
rideva
intrecciava dei passi di pavone blu
seguendo la mia marcia inquieta
non ho altro posto che il terreno
sopra cui inspiro respiro espiro
non vorrei altro posto che qui
dove Elindu Chrisostome
pallido ha fissato la morte
ormai vetro e io leggevo
la sua anima che respirava
poi spirava:
dissi amen. suo padre mi strinse
senza che nessuno di noi due
comprendesse bene.
non ho altra ricompensa che qui
accanto a te figlia
che figlia non sei
dal volto nero e il cuore gigante
"adroni maa fera"
era la nostra canzone
"adroni adhyeni fere si ku"
eri la tua poesia
dondolando il dito
e non avevi altro nome, Ovuko
se passava Obhede il nano
gli uomini ghignavano “Obhé,
piccolo!” con fare bestiale lui
passava il suo passo solenne e muto
“nano, te li rubano i bambini,
ti rubano gli abiti!” eppure
aveva centotrent’anni, tutti garantivano,
di più!, senza mai arrivare a casa:
passava, come volgo io verso una promessa
beibane vilewere “ci vediamo
dopo, Ovuko” e tossivo
senza che nessuno di noi due
comprendesse bene
le parole sono sangue
mama Cecilya intrecciava i tappeti nella tenebra
ma il cielo d’Ariwara incombe maestoso
ed ebbro i giardini di manghi non cadono mai brulli
e la sua sabbia non va più via dalla pelle. "ARIWARA
ERI MA ASI è il mio cuore
Ariwara". ci sono momenti in cui l’ombra
(lo noti un istante)
non è più. così
Osaru la pazza mi benedice gridando
“guarirai e diverrai noi” i seni
nudi come una verità d’uomo "kaso adri
were ati aferi ni ayikosi"
“anche se pare un grano sarà
gioia” cerco di decifrare
tra le cento voci chiassose del mercato
risuoneremo il colore di ogni cosmo
sosterrai la mia mano timida
e saprò fermarmi se ti affaticherai
anche il sole sa riposare tacendo
e cammineremo ancora assieme, figlia,
alla terra promessa di Lamila
io, te e le nostre lacrime nascoste
i nostri amici ci chiameranno
lo sai da lontano
con quel grido “brilla
una terra promessa qua”
sarà solo una corsa un abbraccio
e noi figlia ma madre sorella
alito di dio
che ora non canta più
ma sventola senza pace


"Adroni maa fera, Adroni adhieni pere si ku
kaso adri were ati aferi ni ayikosi"
dona al Signore, col Signore non essere egoista
anche se è poco ci sarà gioia

martedì 3 marzo 2020

Prometheus


è tornato il canto dei tordi
la gramigna riaffiora negli orti
ed è ancora viva
in questi giorni in queste notti
del febbraio spento

tempi di telemaco sul mare
dal colore benzina
e sangue tempi di una strofa gettata
quando la platea applaude di noia

non importa di ciò che resta
all’alba inizia e suona l’orchestra
a occhi socchiusi e incessantemente
a ritroso come le sabbie di una clessidra
ho riconosciuto questa belva affamata
ansimare s’aggira assiduamente

il pianto incessante dei salici
lunghi su un'isola di naufraghi
finiva la filastrocca
con l'errore sentimentale dell'esistere
è come dire che ho sempre disegnato case
senza tetto senza riparo

traffico intenso sulla tangenziale est
uscita segrate
senza più segreti
e marginale un bipede tecnomorfo
senza più ombra

non importa più di quel che resta
se qui resti a intendere l’orchestra.
il mio animo ancora batte, sbatte
e talvolta infiamma, senza più
piedi, edipo

in queste notti in questi giorni
è tornato il canto dei tordi
la gramigna riaffiora negli orti
ed è ancora vita
anche se sai
non più nostra

una stella come la mia pelle ancora si disseta
delle scogliere esitanti di Dieppe
non più scrivere non bisogna più scrivere
parole una gialla camicia a fiori
e una corona di carote

è tornato il canto dei tordi
la gramigna riaffiora negli orti
non importa più di quel che resta
la platea le promesse l’orchestra
ma un soffio ravviva i fuochi

sabato 7 dicembre 2019

profumo


e noi, che apprendiamo i colori attraverso l'intensità di un profumo, che riconosciamo la primavera da un canto serale e il crepuscolo autunnale da una foglia, come mai noi non afferriamo il volto di un'emozione con uno sguardo? perché non scorgiamo l'immensità di un'idea grazie a queste nostre mani?



mercoledì 20 novembre 2019

"come di neve in alpe sanza vento" (Dante, Inf. XIV, 30)

C. Monet, Effet de neige à Givergny, 1893

più passano gli inverni
e più siamo abbandonati
dalle nostre paure dalle nostre prigioni
torniamo leggeri
come la neve
e come il nostro passo 
un funambolo appassionato
sul sentiero smarrito

lunedì 4 novembre 2019

e riconobbi la mia ombra superarmi d'ombra

Mausoleo di Galla Placidia, dettaglio dei mosaici, Ravenna

aspettavo che i noci strepitassero.
ed entrai nel bosco.

gli antichi marinai si orientavano con le stelle ripeteva l'insegnante delle elementari mentre fissavamo le righe dei nostri quaderni sporchi di inchiostro. per queste macchie ho cominciato a detestare dentro quell'orientamento mancino.
così in principio era bello stendere i panni al vento lasciando che le sue lusinghe li sventolasse in cinquanta bandiere di cento nazioni dei nostri mille pianeti, poiché avevamo la presunzione di intuire che quella fosse la rotta. io poi non faccio testo perché darei la vita intera per riavere eternamente la mia infanzia. seguimmo dunque il sentiero e arrivammo, anzi no, allora continuammo e arrivammo, però non ancora, riprendemmo e arrivammo, ma non proprio alla meta. ancora un poco, sempre ancora quel poco che permette una sosta distratta, una breve ricreazione, ma senza poter parlar di pace e, fermandosi, di esclamare "ah, casa!".
l'interiezione, si dice, è una parte invariabile del discorso che non ha un significato in sé stessa ma esprime il sentimento, uno stato d'animo,"ah, casa!". e ci ritroviamo anziani, così ci chiamano i ragazzi, a dimenticare il giorno festoso del nostro fastoso matrimonio, ma ad amare quel bacio timido e nascosto che fu il nostro primo amore. "ah, ti amo!". l'errore sentimentale dell'esistere: tutto un romanzo racchiuso nell'interiezione.
una gialla camicia a fiori, una betulla davanti alla finestra, davanti al dolce davanzale di calcinaccio, finché un mattino mio zio mi dice "è arrivato il tempo che la tagliamo". così la betulla fu sfrondata, recisa, tranciata e per me, io che mica pensavo c'entrassi con quest'affare, fu inconcepibile vedere il prato lontano dal colore indistinguibile d'infinito. ora è tanto più inconcepibile che la segatura della betulla riaffiori ancora talvolta tra gli steli del prato. riaffiora tra i tanti fiori.
quando a volta capita di passeggiare nelle catacombe, passeggiando nell'oscurità, queste puzzano sempre un po' di pesce, poiché la legge è sempre stata solo una: i padri divorano i figli o i figli decapitano i padri, forse per seppellire il ventre di Crono o per placare le furie d'Oreste. 
ancora oggi, ora che le mie strade sono più lente e larghe, di notte sogno spesso, per compensare le giornate piane, e capita di incrociare per delle soleggiate spiagge sicule la maestra Lucia, nata sotto le ceneri dell'Etna, che mi consola ripetendo ancora una folle cantilena di tabelline, la santa della luce. quando ginnasiale ho accompagnato il mio professore per le strade deserte del medioevo non riconoscendomi mi ha chiesto chi fossi, prima di perdere ogni memoria, scivolandomi tra le dita sudate. i sogni sono al tempo stesso veri e oscuri, poiché nella loro umana oscurità risiede il vero, dunque non bisogna più scrivere segreti.
arrivai a otto anni pensando che il ciclista più forte dovesse essere sempre davanti e correre sempre più veloce, in ogni corsa, ad ogni tappa, sempre più forte e più veloce come una dittatura scientifica. non fu facile per mio padre, mentre sfilava per la provinciale il carosello delle maglie a tinte vivace, frenare il mio impeto inopportuno. analogamente conobbi tanti signori che preferivano soap opera e ne fui profondamente deluso: anche il cosiddetto benessere ha un peso insopportabile. così fu poi compito dei giorni mostrarmi gli eroi folli, gli eroi maledetti, gli eroi vinti nella polvere. Ettore, Villeneuve, Andrea Fortunato, Socrate, Adriano, ma mica l'imperatore, Lautréamont. è il segreto d'erba, che i ciechi riconoscono facilmente: piegarsi, senza muoversi, e poi rialzarsi al cielo. 
il fieno ingiallisce in un giorno estivo. una gialla camicia a fiori. io darei la vita intera per riavere eternamente la mia infanzia, che conteneva tutto, come un'interiezione, e il profumo di quella betulla. "c'è ancora guerra" dice il contabile, "che freddo stamattina" ripete quotidianamente il pendolare, ma perché di loro nessuno sa correre, correre in testa, senza spazio per le paure. c'è sempre guerra, qui e altrove, poiché dappertutto è primavera.

poche ore dopo, uscendo finalmente dal bosco, lontano come un sogno, lo strepito di noci, come un saluto attutito dall'intimità. riconobbi l'ombra che superava la mia ombra e riconobbi la mia ombra superarmi d'ombra.

Mausoleo di Galla Placidia, dettaglio dei mosaici, Ravenna

mercoledì 16 ottobre 2019

Nshuti Mababazi, Sikuta Tutambule


Nshuti Mababazi, Sikuta Tutambule, di Bobi Wine, in lingua luganda

"il mio cuore è spezzato / ma so che anche il tuo cuore è spezzato / ovunque sembra che le persone siano depresse / ciò che si aspettano è diverso da quello che vedono / e gli altri si stancano di loro / sono infastiditi che non si segnali nulla / e dove vorresti aver riferito / è anche difficile ottenere giustizia da lì / ti dico di non fermarti / quando cadi alzati subito e cammina / non c'è niente di facile al mondo / il viaggio è lungo / alziamoci e proseguiamo.
Alzati e andiamo avanti / la situazione è demoralizzante / ma non mollare, andiamo avanti / il viaggio è lungo / ma se persistiamo raggiungiamo la nostra destinazione / alziamoci e andiamo avanti / la situazione è demoralizzante / ma non mollare, andiamo avanti / non mollare, andiamo avanti / piangiamo mentre vai avanti"




domenica 13 ottobre 2019

Lautréamont, I Canti di Maldoror, II, 6


Un brano forse progettato a generare la reazione del lettore, a scuoterlo, per tornare a fargli sentire quel bambino indifeso, serrato in lui, e quell'immensa tensione al bene, sopita in lui. Così sin da ragazzino ho amato l'ingegno, la fantasia barocca, l'eleganza mai prevedibile del Comte de Lautréamont, Isidore Ducasse. Al giardino delle Tuileries.

Com'è carino quel bambino che se ne sta seduto su una panchina del giardino delle Tuileries! I suoi occhi arditi lanciano frecce a qualche oggetto invisibile, in lontananza, nello spazio. Non deve avere più di otto anni, eppure non si diverte come converrebbe. Dovrebbe almeno ridere e passeggiare con qualche compagno, invece di restare solo; ma non è nel suo carattere.

Com'è carino quel bambino che se ne sta seduto su una panchina del giardino delle Tuileries! Un uomo, mosso da un disegno segreto, si siede accanto a lui, sulla stessa panchina, con fare equivoco. Chi è? Non ho bisogno di dirvelo; lo riconoscerete dalla sua conversazione tortuosa. Ascoltiamoli, non disturbiamoli:
- A che pensavi, bambino?
- Pensavo al cielo.
- Non serve che tu pensi al cielo; è già abbastanza pensare alla terra. Sei dunque stanco di vivere, tu che sei appena nato?
- No, ma chiunque preferisce il cielo alla terra.
- Ebbene, non io. Poiché il cielo è stato fatto da Dio, come la terra, stai pur certo che vi incontrerai gli stessi mali di quaggiù. Dopo la morte non sarai ricompensato secondo i tuoi meriti; infatti, se su questa terra ti infliggono ingiustizie (come più tardi proverai, per esperienza), non c'è ragione perché nell'altra vita non te ne vengano inflitte ancora. Ciò che puoi fare di meglio è non pensare a Dio, e farti giustizia da te, dal momento che ti viene rifiutata. Se uno dei tuoi compagni ti offendesse, non saresti forse felice di ucciderlo?
- Ma è proibito!
- Non quanto credi. Si tratta soltanto di non farsi prendere. La giustizia stabilita dalle leggi non vale niente; conta soltanto la giurisprudenza dell'offeso. Se tu detestassi uno dei tuoi compagni, non ti renderebbe infelice l'idea di avere ad ogni istante il pensiero di lui davanti agli occhi?
- È vero.
- Ecco dunque un compagno che ti renderebbe infelice per tutta la vita; infatti, vedendo che il tuo odio è soltanto passivo, non la smetterebbe mai di provocarti e di farti impunemente del male. C'è dunque un solo mezzo per far cessare questa situazione; sbarazzarsi del proprio nemico. Ecco dove volevo arrivare, per farti capire su quali basi è fondata la società attuale. Ognuno deve farsi giustizia da sé, altrimenti è soltanto un imbecille. Colui che riporta la vittoria sui propri simili è il più astuto e il più forte. Non vorresti, un giorno, dominare i tuoi simili?
- Sì, sì.
- Allora devi essere il più forte e il più astuto. Sei ancora troppo giovane per essere il più forte; ma fin da oggi puoi usare l'astuzia, lo strumento più bello degli uomini di genio. Quando il pastore Davide colpì in fronte il gigante Golia con una pietra lanciata con la fionda, non è forse ammirevole notare che soltanto grazie all'astuzia Davide ha vinto il suo avversario, e che se, al contrario, si fossero affrontati in un corpo a corpo, il gigante l'avrebbe schiacciato come una mosca? Lo stesso vale per te. In una guerra aperta, mai potrai vincere gli uomini su cui sei ansioso di imporre la tua volontà; ma con l'astuzia potrai lottare da solo contro tutti. Desideri le ricchezze, i bei palazzi e la gloria? o mi hai ingannato quando mi hai dichiarato queste nobili pretese?
- No, no, non v'ingannavo. Ma è con altri mezzi che vorrei ottenere ciò che desidero.
- Allora non otterrai proprio niente. I mezzi, virtuosi e bonari non portano a nulla. Occorre impegnare leve più energiche e intrighi più sapienti. Prima che tu diventi celebre con la tua virtù e raggiunga il tuo scopo, altri cento avranno tutto il tempo di farti capriole sulla schiena e di terminare la carriera prima di te, e così non vi sarà più posto per le tue idee anguste. Occorre saper abbracciare con maggiore apertura l'orizzonte del tempo presente. Per esempio, hai mai sentito parlare della gloria immensa che procurano le vittorie? Eppure le vittorie non si compiono da sole. Occorre versare sangue, molto sangue, per generarle e deporle ai piedi dei conquistatori. Senza i cadaveri e le membra sparse che tu scorgi nella pianura dove saggiamente si è prodotta la carneficina, non ci sarebbero guerre, e senza guerre non vi sarebbero vittorie. Come vedi, quando si vuole diventare celebri, è necessario immergersi con grazia in fiumi di sangue alimentati dalla carne da cannone. Il fine giustifica i mezzi. La prima cosa, per diventare celebri, è avere denaro. Ora, poiché tu non ne hai, occorrerà assassinare per procurarsene; ma poiché non sei sufficientemente forte per maneggiare il pugnale, fatti ladro, nell'attesa che le tue membra si siano irrobustite. E affinché si irrobustiscano più in fretta, ti consiglio di fare ginnastica due volte al giorno, un'ora al mattino e un'ora la sera. In questo modo potrai tentare il delitto, con un certo successo, a partire dall'età di quindici anni, invece di aspettare fino a venti. L'amore della gloria giustifica tutto, e forse, più tardi, padrone dei tuoi simili, farai loro del bene quasi pari al male che avrai fatto loro all'inizio!
Maldoror si accorge che il sangue ribolle nella testa del suo giovane interlocutore; le sue narici sono dilatate, e le labbra emettono una leggera schiuma bianca. Gli tasta il polso; le pulsazioni sono velocissime. La febbre si è impadronita di quel corpo delicato. Teme le conseguenze delle proprie parole; si defila, lo sciagurato, contrariato per non essersi potuto intrattenere più a lungo con quel bambino. Se in età matura è tanto difficile dominare le passioni, in bilico tra il bene e il male, che cosa può mai accadere in una mente ancora piena d'inesperienza? e quanta energia relativa può occorrergli in più? Il bambino se la caverà con tre giorni di letto. Voglia il cielo che il contatto materno porti la pace in quel fiore sensibile, fragile involucro di un'anima bella!