domenica 5 febbraio 2017

lettera a un'amica



Amica mia,

mi chiedi spesso come stia e io ogni volta ti rispondo “alla grande!”, con ogni sincerità, ma capisco che quelle poche parole non dicono poi granché, quindi cercherò di raccontarti di più, come riesco.

Sei mesi di docce fredde, a volte con secchi, a volte senza luce, e lavando a mano i soliti quattro vestiti ormai scoloriti. La bellezza dell’essenziale, dico io, che, almeno in parte, l’ho ricevuta in dono.

Sei mesi a mangiare manioca in ogni modo possibile, apprezzare fufu (polenta di manioca), pondu (foglie di manioca) e muchicha (una sorta di coste), sperimentare formiche e cavallette grigliate, amare arachidi (crude, grigliate o bollite) e tusca (i nostri pop corn), salutando da lontano formaggio, tartare di manzo e cioccolato.

Sei mesi per adattarsi al francese congolese, imparare il lingala, dover sapere anche qualcosa di lugbarati, il dialetto locale, pur sapendo che troverò sempre qualcuno che parlerà solo una nuova parlata sconosciuta, sperduta e affascinante.

Sei mesi di contrattazioni accese al mercato, dove l’odore d’olio di palma pervade ogni cosa, anche le banconote. Sei mesi di sabbia rossa nei sandali, di piedi sporchi e incalliti, di piedi nudi e distrutti per le partite a calcio tra l’erba alta.

Sei mesi di sole, sole e sole, fino ad azzerare ogni pensiero, poi la notte amare le stelle di ogni notte come se fosse l’ultima notte del mondo. Sei mesi di pelle nera, scura come le profondità della terra e gli abissi del sogno, in cui sono io quello che si sente strano, con queste mani pallide come un fantasma. Sei mesi in cui sentirsi sempre straniero e sempre a casa, anche se l’impiegato dell’ufficio dell’immigrazione rimane dietro l’angolo coi suoi visti e le sue carte bollate.

Sei mesi di messe affollatissime e, nonostante la durata sia di tre/quattro ore, vivere l’incanto dei canti e delle danze continui di migliaia di persone, fino a voler far parte di una corale, in cui sono senza dubbio, lo posso testimoniare con orgoglio, il bianco più bravo.

Sei mesi di tanti casini e avventure, di tante persone e tanti doni, di novità e amici, di militari e pazzi, di santi e di malati, sei mesi di viaggi, di zanzariere e di qualche malaria, sei mesi di tante situazioni incredibili che non basterebbe un’enciclopedia, ma anche di tanto lavoro e fatica. Sei mesi di ospedale, con qualche lavoro manuale, e in farmacia, e alla cassa, e per ogni questione informatica, e passare ogni giorno nei vari reparti, salutare, chiedere, ricevere tanti sorrisi. Sei mesi straordinari che sono già troppo, da raccontare e a volte, temo, anche da ricordare in ogni straordinario dettaglio.

Sei mesi di sveglie all’alba, e in tutti questi mesi ogni mattina mi sono svegliato e mi sveglio felice, poiché, qualsiasi cosa possa accadere qui, si vive la libertà. No, non la mia libertà, la loro: la loro libertà di essere felici, nonostante tutto e tutti.

A volte, a vederli, mi chiedo come possano resistere: non possono andare avanti così, ne sono sicuro.
Eppure sopravvivono e vivono, alla mattina si alzano, poi si affaticano, poi gioiscono, poi si addormentano alla sera e vivono, diamine!, con le stesse emozioni, sfide, con lo stesso cuore di uomo d’Europa o d’America, anche più libero.

In lugbarati ci si saluta sempre così, in ogni occasione: “ngoni ya?” (c’è qualche problema?) “ngoni yo!” (nessun problema!). In ogni occasione.

Mi ricordo ancora quando, chiacchierando con Marco (era una mattina), mi aveva spiegato la sua personale etimologia di “Afreeka”: la terra della libertà; non la riesco più cancellare dalla mente e, camminando tra le capanne, scambiando due parole con qualcuno, il loro sguardo mi conferma che ci aveva proprio azzeccato. Poiché, nonostante il dolore, la povertà, il nulla tra le mani, in fondo a tutto questo luccica vivo qualcosa, a cui non so dare un nome: speranza? fede? voglia di vivere? Proprio là nel profondo dove spesso da noi, tra il chiasso e i bagliori del benessere, non si vede che il nulla.

Che io amo l’Europa, diamine, che è casa mia, la madre mia e di quello che amo, ma da lontano mi sembra tanto piena di paure e di odio, tanto frenetica e stanca da apparire Lei barbara e brutale, disumana; ma forse è solo la lontananza.

Mi ricordo i dialoghi notturni con Bakhita, l’anno scorso, quando ogni volta eravamo stupiti e sconvolti di quanto qui respirasse un’altra vita e capivamo che una goccia più una goccia non fa due gocce, ma una goccia più grande.

Così ora inizio a pensare che il mondo non sia né pura idea né desolata materia ma consapevolezza, quella del rapporto tra questo me e l’altro.

“Bisogna attraversare l’acqua con una candela accesa” profetizzava un film di anni fa e chissà se non sarà la nostra cultura ad aiutare gli africani, ma piuttosto l’ “Afreeka” a salvare noi, a portare una candela accesa di una vita autentica attraverso il mare mostruoso del nulla.

la pioggia cade la pioggia
cenere in caduta cenere
da un incendio nei paraggi ormai lontano
e sono diventato alba all’aurora tramonto
al crepuscolo chinando il capo
la pioggia cade la pioggia
e ho camminato camminato senza casa camminato
e ho dato congedo alla mia anima fuggita
la ragazza allattava nel silenzio
come una galassia generatrice
la pioggia cade la pioggia qui
e ho calcato le colline di Watsa
e ho varcato le capanne divorate dalle termiti
e ho raccolto il sudore di un uomo
come incenso di una cattedrale piove
Dieumerci resta in coma sul suo lettuccio “dorme”
l’immagino io l’amaro
della bocca impastata di chinino
il ventre gonfio che affanna
la pioggia cade la pioggia qui e dovunque
i prati pieni di bimbi a ballare
battere le mani ballando in tondo
saltano ballano nei prati
durante la messa domenicale
le vesti bianche e lise della festa
come se questa polvere non arrossasse
di terra e fango qualcuno
muore qualcuno ride heuresement
notre dieu est congolais
la chiesa di Ayiforo che si abbronza
nei secoli dei secoli di questo sole
e tutto piove dappertutto

Ecco, anche se non sono stato chiaro a sufficienza, anche se forse ho blaterato sin troppo su di me, spero di averti detto di più: sei mesi fa sono partito, ho viaggiato molto, ma non sono ancora arrivato e non sono ancora stanco.


E tu? Come stai, amica mia?


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