mercoledì 13 giugno 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, I




e che cos'è un uomo? in cosa è approssimativamente "uomo" e che qualità possiede? cosa è l'essere umano, più o meno?
è un sogno che tenta di sognarsi, un pensiero che prova a trovare una ragione, una strada che si perde per cercare la propria destinazione.

così avrebbe risposto Tristan Tzara, chiacchierando in un bistrot di L'Uomo Approssimativo, il libro che ho maltrattato più spesso, sottolineato, lanciato, accarezzato, piegato, colorato, ma soprattutto letto: semplicemente il libro che amo.
una foto elegante dell'autore sulla copertina di questo volumetto snello conosciuto per caso anni fa in una piccola libreria di Nizza, delle pagine dalle quali non mi sono mai separato, nelle quali da anni mi ancoro. è stato l'unico libro che in Congo mi sussurrava di letterature lontane.
un testo di una leggerezza euforica, di una profondità viscerale: tanto onirico da sembrare astratto eppure tanto tangibile da sembrare profetico.
è stato, nel 1931, il capolavoro surrealista di Tristan Tzara, eppure non è ancora disponibile in commercio una traduzione italiana, ma la voglio proporre, capitolo per capitolo, per 19 volte, con la mia limitatezza ma con altrettanta commozione, per chi avrà voglia, curiosità o semplicemente voglia di emozionarsi.

iniziamo allora col primo capitoletto, in cui affiora  il filo rosso di tutta quest'opera: l'indagine riguardo al volto autentico dell'uomo, una ricerca che non può passare attraverso la logica, la ragione o la tradizione, ma che scava nelle profondità della vita, dell'amore, del dolore. una ricerca che non raggiunge tronfie risposte, ma solo un canto fragile e dorato.

per l'opera completa:


suonate campane senza ragione, e anche noi!
io parlo di chi parla chi parla sono io solo
io non sono che un piccolo rumore e ho numerosi rumori in me
io penso al calore che tesse la parola
attorno al suo nocciolo: il sogno che si chiama noi




I


domenica pesante coperchio sul ribollire del sangue
peso settimanale accoccolato sui suoi muscoli
sprofondato dentro se stesso ritrovato
le campane suonano senza ragione, e anche noi!
suonate campane senza ragione, e anche noi!
noi ci rallegreremo al rumore delle catene
che faremo suonare dentro noi con le campane

*

qual è questo linguaggio che ci frusta sussultiamo nella luce
i nostri nervi sono delle fruste tra le mani del tempo
e il dubbio arriva con una sola ala incolore
avvinghiandosi comprimendosi frantumandosi in noi
come la carta stropicciata dell’imballaggio sfatto
regalo di un’altra età allo scorrere dei pesci d’amarezza

*

le campane suonano senza alcuna ragione, e anche noi!
gli occhi dei frutti ci fissano attentamente
e tutte le nostre azioni sono controllate: non c’è nulla di nascosto
l’acqua del ruscello ha tanto lavato il suo letto
ha trasportato i dolci figli degli sguardi che hanno trascinato
ai piedi dei muri nei bistrò leccato dalle vie
allettato i deboli allacciato dalle tentazioni prosciugato dalle estasi
affossato al fondo delle vecchie varianti
e allentato le fonti delle lacrime prigioniere
le fonti asservite ai soffocamenti quotidiani
gli sguardi che prendono con delle mani disseccate
il chiaro prodotto del giorno o l’ombrosa apparizione
che danno l’affannata ricchezza del sorriso
avvinghiata come un fiore all’occhiello del mattino
coloro che domandano il riposo o la voluttà
i tocchi di elettriche vibrazioni i sussulti 
le avventure il fuoco la certezza o la schiavitù
gli sguardi che hanno strisciato lungo dei discreti tormenti
usato i pavimenti delle città ed espiato numerose bassezze con le elemosine
si seguono serrati attorno a dei nastri d’acqua
e scorrono verso i mari trasportando al loro passaggio
le macerie umane e i loro miraggi

*

l’acqua del ruscello ha tanto lavato il suo letto
che anche la luce scivola sull’onda liscia
e cade a fondo con il pesante scintillio delle pietre


*

le campane suonano senza alcuna ragione, e anche noi!
i pensieri che ci portiamo con noi
che sono i nostri vestiti interiori
che ci mettiamo tutte le mattine
che la notte disfa con mani di sogno
ornati d’inutili rebus metallici
purificati nel bagno dei paesaggi circolari
nelle città preparate alla carneficina al sacrificio
nelle vicinanze dei mari dalle spazzate di prospettive
sulle montagne dalle inquiete severità
nei villaggi dalle dolorose indifferenze
la mano pesante sulla testa
le campane suonano senza alcuna ragione, e anche noi!
noi partiamo con le partenze arriviamo con gli arrivi
partiamo con gli arrivi arriviamo quando gli altri partono
senza alcuna ragione un po’ secchi un po’ duri severi
pane nutrimento più del pane che accompagna
la canzone gustosa sulla gamma della lingua
i colori posano il loro peso e pensano
e pensano o gridano e restano e si nutrono
di frutti leggeri come il fumo si librano
che pensa al calore che tesse la parola
attorno al suo nocciolo: il sogno che si chiama noi

*

le campane suonano senza alcuna ragione, e anche noi!
noi camminiamo per sfuggire al formicolio delle strade
con un fiasco di paesaggio una malattia una sola
una sola malattia che coltiviamo la morte
io so che ne porto in me la melodia e non ne ho paura
io porto la morte e se muoio è la morte
che mi porterà tra le sue braccia impercettibili
minute e leggere come l’odore dell’erba sottile
minute e leggere come una partenza senza motivo
senza amarezza senza debiti senza rimpianto senza
le campane suonano senza alcuna ragione, e anche noi!
perché cercare l’estremo della catena che ci lega alla catena?
suonate campane senza ragione, e anche noi!
faremo risuonare in noi i vetri infranti
le monete d’argento mischiate alle monete false
le macerie delle feste esplose in risa e in tempesta
alle porte delle quali potrebbero aprirsi i baratri
i sepolcri d’aria i mulini che macinano le ossa artiche
queste feste che ci levano le teste al cielo
e sputano sui nostri muscoli la notte di piombo fuso

*

io parlo di chi parla chi parla sono io solo
io non sono che un piccolo rumore e ho numerosi rumori in me
un rumore ghiacciato sgualcito al crocicchio gettato sul marciapiede bagnato
ai piedi di uomini affrettati mentre corrono con le loro morti
attorno alla morte che stende le sue braccia
sul quadrante di quell’ora sola che vive al sole

*

il soffio oscuro della notte s’infoltisce
e lungo le vene cantano flauti marini
trasposte sulle ottave dei molteplici strati di esistenze
le vite si ripetono all’infinito fino alla magrezza atomica
e in alto tanto in alto che non possiamo nemmeno vedere
e con queste vite  a fianco che non vediamo
l’ultravioletto di così tante vie parallele
quelle che noi avremmo potuto prendere
quelle per le quali noi avremmo potuto non venire al mondo
o esserne già partiti da tempo da così tanto tempo
che ci si sarebbe dimenticati sia l’epoca sia la terra che ci avrebbe succhiato la carne
sali e metalli liquidi limpidi nel fondo di pozzi

*

io penso al calore che tesse la parola
attorno al suo nocciolo: il sogno che si chiama noi


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