venerdì 25 novembre 2016
venerdì 18 novembre 2016
Agnes - 5 ottobre 2016
nel cuore della notte e delle tenebre
“su all’ospedale! corri!”
l’insulina rapida manca rimane la mista
Dezu Agnes anni 12
orfana di madre e il padre in piedi
s’agita in qualche dialetto e la sorellina
dorme accucciata sotto il letto
Agnes sta morendo con una grossa lacrima
che è una stella di un cielo malato
piange Agnes va a morire
l’insulina rapida manca rimane la mista
e una preghiera nell’immensità in attesa:
che per questa notte sia sufficiente
gli ululati dell’ospedale
la risposta silenziosa della notte
le sue ossa scoperte sul materasso
io coi suoi occhi qui, a ripetermi:
venerdì 11 novembre 2016
ESENGO - che significa gioia
sono dovuto divenire vecchio invecchiare
per vedere che quanto la vita insegna e predica
predica e impartisce rimane polvere
di menzogne LOKUTA NA BOMOI:
gli onori e l’orgoglio i pianti le tasse
la gente nei bar i pranzi le tasche
le strade e le case le parti le tarme.
sono dovuto scomparire
nel nulla per scorgere
che sono un’anima santa.
che sono un’anima santa.
i mestieri la rabbia il profitto dell’impegno
le camere le foglie l’affanno e un regno
i privilegi e il protocollo dei primati il prezzo
la sete del possesso poi gli scarti
le scarpe scomparse per le scarpate
la fame di nuvole la fame
il viaggio dell’amore non conta i passi: i respiri
ad accarezzare la luce e le notti
poiché le cose non sono mai come appaiono: sono molto più semplici.
venerdì 4 novembre 2016
Haendel è passato da Ariwara
lo so, audio e immagini sono improvvisati e non possono rendere l'impeto di quel momento né la grazia delle voci, ma voglio condividere da qui l'emozione di essermi trovato di fronte a questo canto una domenica mattina ad Ariwara, nell'Ituri, nella RDC.
l'Halleluja tratta dal Messiah di Georg Friedrich Haendel (1685-1750).
la Bellezza non ha confini e, se è scelta, non imposta, valica ogni distanza e si arricchisce di nuove sfumature impensabili, imprevedibili.
Haendel è passato ad Ariwara, potete giurarci.
venerdì 28 ottobre 2016
Lamila (Jesus azali awa - Gesù è qui)
che è un quartiere ai bordi di Ariwara
repubblica democratica del Congo nord est
6 km e mezzo precisa Paskaline
sotto il sole diritto per un manipolo di pallidi
sino ai piedi sconci e gonfi di terra
Emmanuel con un’ernia ombelicale
Jesus azali awa ripete la nenia
Claire che si china e allora io
ad affrettarmi: che il mio volto
si abbassi prima Jesus azali
awa gli uomini altrove a giocare
mama Sara contorta nell’artrite
resta a patire qui con Cristo
le mani le ginocchia ritorte le dita
otto anni in un capanno Jesus
azali awa vuoto e di fango
senza un cuscino sogna
la sua danza nel giorno di luce
le capre lasciate legate a un leccio
ma qui c’è Vega c’è Pegaso
costantemente a cinque minuti di distanza dal nulla
qui c’è Vega e c’è Pegaso
come se cantasse l’ultima notte del mondo
nella regione dell’Ituri ad Ariwara
quando Marco l'ha letta, il giorno dopo, subito mi ha chiesto con franchezza: "ma allora tu cosa pensi? parli cinicamente o ci credi?" Io, risposi, pensavo di aver solo tratteggiato la diapositiva di una mattinata forte e intensa per tutti noi. Ora, settimane dopo, ora che a Lamila non ci sono tornato, penso di averlo davvero incontrato, d-o, in quella capanna di fango e frasche. E che settimana prossima ci tornerò, là a Lamila.
venerdì 21 ottobre 2016
de profundis
mercoledì 14 settembre 2016, ed ecco una delle viste più deformi
della mia vita.
uno stanzone di 80 metri quadri, il buio totale, mentre
fuori dalle sbarre si distinguevano le urla e le mani.
solo dopo essere entrato e dopo aver stretto quelle mani,
centinaia di mani, ho lentamente riconosciuto volti: volti di ragazzi, volti
corrugati, volti canuti, volti annichiliti in un’unica gigantesca camerata di
tenebre. chiedo qualche nome, mi presento, respiro a malapena nell’aria
rancida.
queste sono le prigioni di Aru, questa è la legge qui, la
legge del più forte che stritola i ladruncoli e i pazzi: gli internati si
autogestiscono, tra violenze e rendimenti di conti, e in questo angolo di
inferno chi non paga 110 dollari al “presidente” eletto di questo novello Zaire
non ha neppure il diritto di sedersi, di dormire, di mangiare, di essere uomo.
per questo vengono chiamati zerozerò,
gli zero nella terra del nulla. l’anno scorso ne sono morti di fame sette in pochi
mesi. no, non si possono fare nemmeno foto: non è permesso neppure ricordarsi
degli ultimi degli ultimi, poiché (mi rammenta qualcosa a cavallo tra Dante e
Primo Levi) non fanno più parte della nostra umanità.
madre Angela ci ha accompagnato fin qui (quaggiù, mi
verrebbe da dire), per offrire boccone di pane e una preghiera assieme. lei si
cura di loro, lei si batte per loro e loro la rispettano. loro la accolgono tra
loro e pregano, cantano. da un barile arrugginito nasce un ritmo e un canto a
un d-o che perdona, che ama, che rimane a fianco del peccatore. “io ero in
carcere e voi mi avete visitato”, ci ricorda alla fine con un sorriso commosso,
mentre fuori dalle sbarre le mani ci cercano, ci salutano ancora.
mercoledì 14 settembre 2016 ed eccomi davanti all’inferno
terrestre, ma anche all’amore umano.
le mani dalle porte dell’inferno
110 dollari per essere degni
di essere uomini “ero in carcere…”
dicono gli zerozerò
dalla ruggine nasce un canto
“…e mi avete visitato”
venerdì 14 ottobre 2016
mama na ariwara - donna di ariwara
“vorrei che ci insegnassi una carezza”
la donna di Ariwara dal riso chiassoso e gli occhi incerti
la donna di Ariwara dalla pelle di miele, dalle cinquanta
parrucche
la donna di Ariwara che s’intraffica tutto il giorno oltre
il tramonto, s’intraffica sola per quattro figli
la donna di Ariwara che ha perso gli incisivi piegata a
terra
la donna di Ariwara che porta un figlio sui lombi e uno nel ventre
e un pollo le mille donne del mercato
la donna di Ariwara che porta un figlio sui lombi e uno nel ventre
e un pollo le mille donne del mercato
la donna di Ariwara che è la seconda o la terza moglie di un
uomo che non sa amare, ma abbandonare
la donna di Ariwara che non hai mai provato un bacio una
carezza un abbraccio
la donna di Ariwara che non può accavallare le gambe, che è
taboo dice lei
la donna di Ariwara che vale sette vacche, più o meno
la donna di Ariwara che sulla testa regge il mondo intero
la donna di Ariwara a cantare danzare nel coro, cantare a
squarciagola e danzare forte
la donna di Ariwara che cammina cammina cammina
“vorrei che ci insegnassi una carezza”
una storia, una sola, un po’ per redimermi da tutte quelle
volte che mi sono lamentato di lavorare circondato da donne, dalle loro
chiacchiere su figli e abiti, dalle loro cure e apprensioni. una storia, neanche la più significativa o
notevole delle cento che tengo in me, forse solo quella più semplice.
Meggy da Arua, 19 anni e una lunga ruga sulla fronte.
l’ho conosciuta a Lweza, uno dei sobborghi della regina
Kampala. avevo conosciuto un ragazzo in città che mi aveva invitato a cena da
lui: “perché no?”. viveva coi due fratelli, due sorelline e Margaret, la sua
domestica. lui sul divano mentre lei bada a tutte le cose della casa, al cibo,
alla cura delle bambine, dormendo in un ripostiglio di fianco alla cucina e
mangiando a parte, intoccabile e senza una parola. mi sono avvicinato alla fine
della cena, con la scusa di aiutarla a lavare le stoviglie: “no, non studio più
da qualche anno. ho lasciato il mio villaggio e sono venuta qui per lavorare”.
e come ti trovi? “I’m ok” abbassando gli occhi e quella lunga ruga sulla
fronte. dice che ho uno strano accento americano, Meggy, ma si fa fotografare
volentieri, sorride. prima di andarmene l’ho salutata, mentre tutti uscivano
indaffarati e indifferenti, l’ho salutata quasi furtivamente come se
quell’abbraccio no, non fosse normale, non fosse permesso tra quelle mura.
venerdì 7 ottobre 2016
ma in inglese non ha nome
una parola basta ad esprimere il cuore di un mondo?
dove tutto sembra potere essere schiacciato e svilito, una parola può ancora rappresentare un'identità, un tesoro nascosto.
all'università mi ripetevano che la lingua è specchio del pensiero e dell'anima di una cultura: l'albero dai fiori di fuoco ha un nome.
ho visto una bambina mangiare sabbia
camicie francesi per i colletti di Kampala
film americani per gli studenti di Kyotera
e un’antenna parabolica tra le spianate di papiri
campionati arabi per i bar di Mbarara
l’albero dai fiori di fuoco
madonne bianche per madri nere
manichini bianchi per giovani neri
ho visto una bambina mangiare sabbia
moto giapponesi e chiese a croce latina
mondi bianchi per un villaggio nero
nier in japadola e giritiki in luganda
ma in inglese no, dicono non abbia nome
l’albero dai fiori di fuoco
venerdì 30 settembre 2016
nzela na papa Mayele - rue papa Mayele
era piena notte in volo tra Istanbul e Kigali, ma il mio
vicino, incurante, mi ha toccato il braccio e ha iniziato a parlarmi. era un
ruandese, ormai da 20 anni a Londra, e tornava a casa per lavoro. mi diceva che
quando sarei stato Là, nella sua Africa, avrei dovuto capire che fare per
aiutare, metterci del mio senza pensarci troppo.
poi sono arrivato Là.
quando dopo alcuni giorni madre Marcela si è lamentata per
quella stradina verso l’ospedale che continuava ad allagarsi nella stagione
delle piogge, mi è venuto spontaneo proporre di rifarla, poco coscientemente.
aiutare, senza stare a pensarci troppo, senza alcuna esperienza non solo
riguardo a strade ed edilizia civile, ma anche a comefaredelbuoncemento; una
delle tipiche scommesse perse della mia vita.
eppure qualcuno ci ha scommesso con me: Paolo "moindo" Bazzocchi da
Lugo, anni 21 per 195 cm, e ci abbiamo scommesso pesante (“fess”, direbbero i miei amici
bresciani).
rialzare il suolo argilloso, chiedere consigli e
riconciliare i differenti pareri, scavare nel prato i canali laterali di scolo,
scoprire che i mattoni di terra rossa si frantumavano, recuperare delle pietre
piatte a sufficienza, incastrarle come in un gigante puzzle, affrontare le
perplessità degli altri e in primis del proprio passato, impastare e passare il
cemento, tutto questo senza troppi fronzoli, a volte sotto il sole a picco e a volte sotto le piogge della stagione, senza grandi parole.
perché il buon Paolo non si perde in discorsi, ma si alza,
va e lavora ed è forse stato questo un grande dono: badare al sodo senza
fronzoli, mirando al fine, senza insicurezze, nonostante i giorni di lavoro
passassero e la fatica aumentasse e i timori, silenziosi, si potessero sentire nell'aria.
sognare e sudare, l’unico pensiero.
“ce la faremo, a fare
questa nostra dannata strada”, sognando se fosse meglio intitolarla papa Mayele
street, rue Bakhita o via Maria Goretti o, perché no, via Marcela Lopez.
sognare e sudare, l’unico pensiero.
come quando abbiamo preso "in prestito" un’ambulanza per battere il fondo, come quando papa Maurice rideva dei nostri
modi così “mundele” e noi ridevamo di come aggiustasse un piccone col machete,
come quando osservavamo e studiavamo nei dettagli ogni scolo che incrociavamo,
come quando riempivamo la piazzuola di spettatori incantati dal fatto che, sì,
allora anche i bianchi lavorano, come quando si andava in cerca di sabbia per
le stradine attorno.
ora però non andate al classico lieto fine, perché io penso
che forse non ce l’avremmo fatta, io e Paolo.
ce l’abbiamo fatta io, Paolo, Juniore, Christian, Dunya,
Zebra, Jean, e poi quando le speranze sembravano assottigliarsi sono arrivati
in nostro aiuto anche Marco, Oscar “mr. silenzio stampa”, Carmine “il maestro”
e Sean. no, senza di loro non si sarebbe concluso granché, perché, lo ammetto,
niente a volte è difficile quanto chiedere aiuto. perché non abbiamo costruito
muri, ma una strada.
sognare e sudare, l’unico pensiero.
sì, erano solo 37 metri di strada di un villaggio
sconosciuto ai bordi del mondo e tutto può apparire tanto banale e
insignificante, ma forse il mio amico ruandese ora potrà sorridere un poco anche di me e di queste immagini:
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