“vorrei che ci insegnassi una carezza”
la donna di Ariwara dal riso chiassoso e gli occhi incerti
la donna di Ariwara dalla pelle di miele, dalle cinquanta
parrucche
la donna di Ariwara che s’intraffica tutto il giorno oltre
il tramonto, s’intraffica sola per quattro figli
la donna di Ariwara che ha perso gli incisivi piegata a
terra
la donna di Ariwara che porta un figlio sui lombi e uno nel ventre
e un pollo le mille donne del mercato
la donna di Ariwara che porta un figlio sui lombi e uno nel ventre
e un pollo le mille donne del mercato
la donna di Ariwara che è la seconda o la terza moglie di un
uomo che non sa amare, ma abbandonare
la donna di Ariwara che non hai mai provato un bacio una
carezza un abbraccio
la donna di Ariwara che non può accavallare le gambe, che è
taboo dice lei
la donna di Ariwara che vale sette vacche, più o meno
la donna di Ariwara che sulla testa regge il mondo intero
la donna di Ariwara a cantare danzare nel coro, cantare a
squarciagola e danzare forte
la donna di Ariwara che cammina cammina cammina
“vorrei che ci insegnassi una carezza”
una storia, una sola, un po’ per redimermi da tutte quelle
volte che mi sono lamentato di lavorare circondato da donne, dalle loro
chiacchiere su figli e abiti, dalle loro cure e apprensioni. una storia, neanche la più significativa o
notevole delle cento che tengo in me, forse solo quella più semplice.
Meggy da Arua, 19 anni e una lunga ruga sulla fronte.
l’ho conosciuta a Lweza, uno dei sobborghi della regina
Kampala. avevo conosciuto un ragazzo in città che mi aveva invitato a cena da
lui: “perché no?”. viveva coi due fratelli, due sorelline e Margaret, la sua
domestica. lui sul divano mentre lei bada a tutte le cose della casa, al cibo,
alla cura delle bambine, dormendo in un ripostiglio di fianco alla cucina e
mangiando a parte, intoccabile e senza una parola. mi sono avvicinato alla fine
della cena, con la scusa di aiutarla a lavare le stoviglie: “no, non studio più
da qualche anno. ho lasciato il mio villaggio e sono venuta qui per lavorare”.
e come ti trovi? “I’m ok” abbassando gli occhi e quella lunga ruga sulla
fronte. dice che ho uno strano accento americano, Meggy, ma si fa fotografare
volentieri, sorride. prima di andarmene l’ho salutata, mentre tutti uscivano
indaffarati e indifferenti, l’ho salutata quasi furtivamente come se
quell’abbraccio no, non fosse normale, non fosse permesso tra quelle mura.
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