giovedì 21 giugno 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, III


io mi svuoto davanti a voi una tasca capovolta 

è l'uomo che si ammira nel suo vuoto e riconosce di essere divenuto nel mondo contemporaneo ormai solo oggetto.
l'amore è una etichetta da supermercato, il pianto e le emozioni eccezioni mal tollerate, la giovinezza una stanchezza che non conosce più fioriture e anche la morte, la grande paura della morte, solo un pensiero davanti cui fuggire.
l'uomo vede tutto eppure non riesce più ad agire, neppure a muoversi disperatamente, poiché la complessità del mondo lo stringe, lo serra, gli afferra anche il respiro. quando è successo? quando abbiamo scambiato la vita per un cappotto, un'auto, una camicia, una serata elegante? quando abbiamo barattato il nostro vivere?
mendicando della luce così tutto il mondo mangia per soffrire la fame
e nelle miniere non si vuole neppure pensare che ci sia il giorno e le sirene

sono versi interminabili, poiché il loro suono scaturisce, si rinnova e s'infrange senza fine, generando una nuova ineffabilità. il poeta infatti non può dire e raccontare, ma non perché non abbia parole, tutt'altro: non riesce a cantare TUTTO e la sua complessità. la clausola con cui si interrompe diviene la stessa:

e tanto altro e tanto d’altri

Raffaello Sanzio, Ritratto di Baldassarre Castiglione, Musée Louvre, Paris, 1515

III

che ci lega ai grembi delle nostre madri
a quelli ai quali provvisoriamente doneremo l’amara vita
noi che ci incamminiamo nei dintorni di fascini fioriti
senza poter rompere il nocciolo

*

e mentre il vuoto scampanellio riempe i nostri orizzonti d’allerta
tu lecchi la carne del frutto e all’interno c’é il mistero
tu culli il ritmo dei minuti per far passare il tempo del mistero
passare il tempo e che la morte ti sorprenda senza troppo imbarazzo senza occhi troppo aperti
colmare d’orrore ogni minuto senza interruzione senza fretta
bevo l’acre terrore di ciò che non comprenderò mai
felicita’ in dei chicchi di giglio io ti ho sepolto serenamente

*

io mi svuoto davanti a voi una tasca capovolta
io mi abbandono alla mia tristezza il desiderio di decifrare i misteri
io vivo con loro mi sistemo alla loro serratura
strumento arrugginito melliflua voce dei fenomeni dalla sorpresa costante
allettanti misteri firme di morte la morte tra noi
nei negozi dai sorrisi rosolati col tempo
nelle sale da concerto il cipresso s’accresce osserva
adolescenza affilata ciò che nessuno ha potuto dirti né mostrarti
dove delle genti che nascondono delle preoccupazioni domestiche
camminano dalle dita grasse tra la flora di etichette
attorno a degli amori dalle misere incoerenze che fingono le rivolte
dal parrucchiere lasci il coro la tua testa inerte e la neve
che sbuca dal quotidiano sudario fa attenzione che le mani del cervello
non sfiorino la massa gelatinosa dell’incubo
negli stadi dove da rozze attenzioni conducono il diluvio allo schianto d’apostolo
presso i giardinieri dove tra il letame e le macerie
è plasmato di fiori l’illeggibile sole
sorto dai plessi sepolcrali con le stagioni e le loro ampie audacie

*

tu entri tu guardi tu ti tocchi le tasche
delle tempeste castigate dalle monete scolorite
che i ruscelli auriferi hanno guadagnato in vista della tortura del tempo corrugato
anche tu esci povero barcollando dalle tue ossa negli abiti della loro carne
corrugato fino al fondo dell’anima stanca del via vai del mondo
corrugato fino al fondo dell’anima stanca
ma il giorno ricomincia colore di fertili logaritmi
drizzato nell’eleganza dei tuoi occhi allunghi i marciapiedi delle strade
il tuo orgoglio trova rifugio nell’enfatica indolenza
tu sai che vai a disperderti alla fine della vita ma ti nascondi ed entri
fiore nodo di nastri dalla pelle umana
e se poche cose mi hanno emozionato fratelli miei e mi fanno piangere
nelle stazioni – ma mai potrei parlare a sufficienza delle stazioni
hanno visto il giorno gli spezzettati incanti i saluti troppo brevi
negli alberghi dall’angusto imbarazzo calcolato
dove anche l’amore non é che una necessità dall’etichetta polverosa
ho sfiancato la mia giovinezza che non sa più risvegliarsi
mentre il cammino della vita del di fuori si organizza con degli alberi del sonno dei treni
dei giardini delle donne dalle belle scapole che riposano nelle loro nostalgie di ninfe
mendicando della luce così tutto il mondo mangia per soffrire la fame
e nelle miniere non si vuole neppure pensare che ci sia il giorno e le sirene
la sola parola é sufficiente per vedere
negli ospedali ci sono dei numeri che bastano
a stendere su un letto la bianca speranza di una morte imminente
nella chiesa di sant’eustachio ho visto due puttane fare la ronda
mentre delle vecchie donne alle sette del mattino
con dei cestini sotto il braccio e dei bambini nelle loro teste
inzuppavano la loro esperienza e la loro fede ingenua nel vino della legge divina

*

nonostante le offese che il tempo sdegnoso ci porge
il cattivo tempo vomitato in abbondanza per il deserto dall’alto delle sue alture notturne
nonostante il grido fitto della bestia condannata a morte
la breccia aperta al cuore dell’esercito dei nostri nemici le parole
la glaciale pigrizia del fato che ci lascia correre alla nostra maniera
i nostri cani noi stessi che corriamo dietro noi stessi
soli nell’eco dei nostri limpidi latrati di onde mentali
nonostante l’inesprimibile pienezza che ci accerchia d’impossibile
io mi svuoto davanti a voi una tasca capovolta

*

tu sei di fronte a degli altri un altro da te stesso
sulla scalinata delle onde confidando di ogni sguardo la trama
spaiate allucinazioni senza voce che ti rassomigliano
i negozi di cianfrusaglie che ti rassomigliano
che cristallizzi intorno alla tua piovosa vocazione – dove scopri frammenti di te stesso
a ogni curva della via ti cambi in un altro te stesso
nelle case – mascelle serrate – dove tetre le imposte del cuore sono chiuse
la luce si asciuga su lenzuoli anemici
nelle pampas un virile odore d’eroismo
una straziante melodia ti precede nei rifugi dei forsennati
e l’usura dei nostri peccati avanza senza satelliti in un universo angusto
uomo dalle vertiginose capriole nello spazio
ho visto gli animali i sentimenti umani annodarsi grossolanamente fra loro
i loti vestiti a festa nelle sale di teatro ci tappezzano
nei conventi si automatizza il gioco delle impulsi ronzanti
presso i contadini le trascurate sensualità all’ombra anziana di azioni sprezzanti
negli uffici postali dove apparenze e paesi si toccano
presso i gioiellieri collaudiamo in tutto piccoli paesaggi
e nei porti la terra sfinisce le braccia slanciate
nell’alcool ho trovato il mio solo oblio la libertà
nelle sale da musica dagli striduli esempi
di slanci e di giri pazienti di rischi tesi e di eccessi
nelle sale d’attesa cicale mie sorelle
nelle osterie dalle vite impenetrabili le belle gabbie nei boschetti
ma andiamocene da strade e da moli sugli intonachi cutanee delle cartoline
tante sanguignee attrazioni ci hanno imparentato alle carnali murature
che i mazzi di mani affumicate hanno innalzato nelle prigioni
le teste sballottate da una mano all’altra dal giorno alla notte
incalcolabile fioritura di odio sui vascelli avvizziti
presso i solitari disincantati grave frumento
incrociano le braccia le liane e gli edifici
al di sopra della pace notturna odore forte pace notturna
e tanto altro e tanto d’altri



lunedì 18 giugno 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, II



Siamo al secondo capitolo, in cui emerge sempre di più un prisma frammentato in miriadi di immagini, di illuminazioni, di ferite dal quale emerge la figura dell’uomo contemporaneo, fragile e titanico, sognatore e becero furfante, che vive nella notte e splende; un uomo forse senza Io e senza Dio, ma che piange perennemente dentro sé, per questo Io e per questo Dio, un uomo che è "approssimato" e che al contempo si "approssima"

A. Rodin, Andrieu d'Andres, da "I borghesi di Calais", 1886

II

la terra mi tiene stretto nel suo pugno di burrascosa angoscia
che nessuno si muova! si sente l’ora aprirsi il volo di mosca
e raggiungere la giornata alla ricerca di una fine
stringiamo tra le mascelle i minuti che ci separano

*

in alto le mani! per accogliere l’angelo che sta per precipitare
sfogliarsi in neve di lucciole sulle vostre teste
cielo indebolito dal vento che ha tanto soffiato
pagheremo di sofferenze i nostri debiti senza numero

*

la stazione s’infoltisce di giochi di fischi
così tante libertà nuotano nell’amara densità
che lo scampanellio guida il flusso roditore
assieme alle nere e fetide indignazioni interiora spumose della terra
dalle superfici vellutate verso le quali obiettivi ubriachi di speranze
che si comprano al prezzo di lente sementi
ornati degli attributi delle corporazioni di mestieri
che si bevono agli abbeveratoi con delle sbuffanti narici di cavallo
che si cacciano in cerchi nei maneggi paesani
che si fumano la pipa vecchia d’aquile
che si sorvegliano pastori dei tetti che fumano la sera
intravisti nei ghiacci presagiti dal cuore di pietre
nel fondo di miniere di petrolio su delle brande di pesanti fanghi
nei granai dove la vita si misura con il grano
schiume chiare guanciali delle acque assise al sole

 *

uomo approssimativo come me come te lettore e come tutti gli altri
ammasso di carni chiassose e di eco di coscienza
completo nel solo boccone di volontà il tuo nome
trasportabile e assimilabile cortese per mezzo delle docili inflessioni femminili
diverso incompreso a seconda della voluttà dei correnti investigatori
uomo approssimativo che ti muovi negli all’incirca del destino
con un cuore come valigia e un valzer al posto della testa
foschia sul freddo ghiaccio tu t’impedisci a te stesso di vederti
grande e insignificante fra i gioielli di ghiaccio del paesaggio
tuttavia gli uomini cantano in cerchio sotto i ponti
dal freddo la bocca blu contratta più lontano che il nulla
uomo approssimativo o magnifico o miserabile
nella nebbia delle caste età
abitazione a buon mercato gli occhi ambasciatori di fuoco
che ognuno interroga e accudisce nella pelliccia di carezze delle sue idee
occhi che ringiovaniscono le violenze degli dèi docili
volteggiando verso le esplosioni delle primavere dentarie della risata
uomo approssimativo come me come te lettore
tu tieni tra le tue mani come per gettare una palla
cifra luminosa la tua testa piena di poesia

*

porta chiusa per sempre della notte il frutto dalle belle gambe
lunga croce così solenne sull’alito della rugiada
ai confini della sera spogliata camicia del giorno
mentre la galleria allunga la fisarmonica dei suoi fianchi
scivola sulla corda del binario lungo arco del convoglio di metrò
e dall’altra parte in mancanza di sole c’è forse la morte
che ti aspetta nel rumore di un scintillante vortice dalle mille braccia esplosive
tese verso te uomo fiore che passa dalle mani della commessa a quelle dell’amante e dell’amata
che passa dalla mano di un avvenimento all’altro senza volontà triste pappagallo
le porte sbattono dei denti e tutto è fatto nell’impazienza di farti uscire al più presto
uomo amabile mercanzia dagli occhi aperti ma ermeticamente bendati
tosse di cascata ritmo pianificato in meridiani e monconi
mappamondo imbrattato di fango di lebbra e di sangue
l’inverno salito sul suo piedistallo di notte povera notte fragile sterile
tira il panneggio di nuvola sul freddo serraglio
e tiene tra le sue mani come per gettare una palla
cifra luminosa la tua testa piena di poesia

*

gesto tondo delle mani che offre all’aria l’immagine
vigile usignolo che chiude il circuito del tuo appagamento
dal bagliore appuntito delle piante tu t’inganni te stesso
il più segreto di tutti sei tu il più lontano
tu ti issi fino ai perfetti accordi sui pennoni astronomici
ti ingozzi di portamenti incestuosi sulle vie dei calvari
la tua gelosia zampilla dall’angusto simulacro
che stringe il tempo nella sacca della tua vita
tu non concepisci la vita che in esempi sperimentati
mentre invecchi senza sapere perché s’arrugginiscano le cerniere della tua testa
si allarghino le tue articolazioni si inzuppi come la foglia sotto la pioggia l’orgoglio
avaro tu serri così forte la porta che le tue unghie entrano nella carne
la tetra gola dove si impilano le nuvole
dove l’orgoglio inappagato non sa più rinfrescarsi
tende già verso i prati della morte in olocausto il suo delirio a perdita di vista
e l’acqua è sempre fresca al crocevia dei tuoi amori

*

le linee delle tue mani callose che alla tua nascita un angelo tracciò
sul suo sentiero il tuo sentiero dotato di tutti i successi terrestri
la foschia della tua falsa vita li cancellò e tu insudici ciò che tocchi
ti sprofondi nell’affanno e nell’oro delle menzogne incandescenti
della vita non resta che la pena d’una evasione mancata
e tuttavia la notte disfa nel suo grembo i nodi delle campanelle le stelle
l’ossatura cadenzata delle musicali cataste gettate alla rinfusa
eppure gli uomini si stringono in cerchio sotto i ponti
e negli album di fotografie sfogliano le sere di calore mediocre
tra tanti amari germogli che il ricordo fece albeggiare tutto attorno alla tovaglia pesante
difendi a morsi il tuo appezzamento di mondo per addormentarti da un sabato all’altro
anonimo e beffato nella secolare alimentazione della tua genia
eppure gli uomini cantano in cerchio sotto i ponti
e strappano il nido delle meningi lo raschiano
per scoprire nascosta nel fondo la fresca arancia del loro cervello

*

dai furori di neve che l’ora faccia la sua eruzione di rimorso e di tortura
che il sangue zampilli in te dalla bocca più nuova l’astronomia
e si sparga in ogni cellula di prigioni anatomiche
che i minuti formicolando nel sacco dei polmoni li inseminino vicino
ai rifugi di vegliardi le terrazze a più file da biliardo
che il crimine infine fiorisca giovane e fresco in pesanti ghirlande lungo le case
ingrassi di sangue le avventure novelle le messi delle future generazioni
le aquile che si dissolvono come lo zucchero nella bocca degli anni
che dissolvono lo zucchero delle giornate passate nella coppa dell’oceano
che volano da un fiore all’altro con dei petali di pelle sulle ali
insetti o microbi che caricano di sofferenza i letti le stagioni
gli acidi sonni che trascinano come delle bestie di pena le nostre carcasse
e noi che spariamo verso quelli impiccati nel sogno che spariamo alla gru del porto celeste
lei dolce di sole putrefazione senza corvi né larve nel biancore invincibile immacolato



mercoledì 13 giugno 2018

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo, I




e che cos'è un uomo? in cosa è approssimativamente "uomo" e che qualità possiede? cosa è l'essere umano, più o meno?
è un sogno che tenta di sognarsi, un pensiero che prova a trovare una ragione, una strada che si perde per cercare la propria destinazione.

così avrebbe risposto Tristan Tzara, chiacchierando in un bistrot di L'Uomo Approssimativo, il libro che ho maltrattato più spesso, sottolineato, lanciato, accarezzato, piegato, colorato, ma soprattutto letto: semplicemente il libro che amo.
una foto elegante dell'autore sulla copertina di questo volumetto snello conosciuto per caso anni fa in una piccola libreria di Nizza, delle pagine dalle quali non mi sono mai separato, nelle quali da anni mi ancoro. è stato l'unico libro che in Congo mi sussurrava di letterature lontane.
un testo di una leggerezza euforica, di una profondità viscerale: tanto onirico da sembrare astratto eppure tanto tangibile da sembrare profetico.
è stato, nel 1931, il capolavoro surrealista di Tristan Tzara, eppure non è ancora disponibile in commercio una traduzione italiana, ma la voglio proporre, capitolo per capitolo, per 19 volte, con la mia limitatezza ma con altrettanta commozione, per chi avrà voglia, curiosità o semplicemente voglia di emozionarsi.

iniziamo allora col primo capitoletto, in cui affiora  il filo rosso di tutta quest'opera: l'indagine riguardo al volto autentico dell'uomo, una ricerca che non può passare attraverso la logica, la ragione o la tradizione, ma che scava nelle profondità della vita, dell'amore, del dolore. una ricerca che non raggiunge tronfie risposte, ma solo un canto fragile e dorato.

per l'opera completa:


suonate campane senza ragione, e anche noi!
io parlo di chi parla chi parla sono io solo
io non sono che un piccolo rumore e ho numerosi rumori in me
io penso al calore che tesse la parola
attorno al suo nocciolo: il sogno che si chiama noi




I


domenica pesante coperchio sul ribollire del sangue
peso settimanale accoccolato sui suoi muscoli
sprofondato dentro se stesso ritrovato
le campane suonano senza ragione, e anche noi!
suonate campane senza ragione, e anche noi!
noi ci rallegreremo al rumore delle catene
che faremo suonare dentro noi con le campane

*

qual è questo linguaggio che ci frusta sussultiamo nella luce
i nostri nervi sono delle fruste tra le mani del tempo
e il dubbio arriva con una sola ala incolore
avvinghiandosi comprimendosi frantumandosi in noi
come la carta stropicciata dell’imballaggio sfatto
regalo di un’altra età allo scorrere dei pesci d’amarezza

*

le campane suonano senza alcuna ragione, e anche noi!
gli occhi dei frutti ci fissano attentamente
e tutte le nostre azioni sono controllate: non c’è nulla di nascosto
l’acqua del ruscello ha tanto lavato il suo letto
ha trasportato i dolci figli degli sguardi che hanno trascinato
ai piedi dei muri nei bistrò leccato dalle vie
allettato i deboli allacciato dalle tentazioni prosciugato dalle estasi
affossato al fondo delle vecchie varianti
e allentato le fonti delle lacrime prigioniere
le fonti asservite ai soffocamenti quotidiani
gli sguardi che prendono con delle mani disseccate
il chiaro prodotto del giorno o l’ombrosa apparizione
che danno l’affannata ricchezza del sorriso
avvinghiata come un fiore all’occhiello del mattino
coloro che domandano il riposo o la voluttà
i tocchi di elettriche vibrazioni i sussulti 
le avventure il fuoco la certezza o la schiavitù
gli sguardi che hanno strisciato lungo dei discreti tormenti
usato i pavimenti delle città ed espiato numerose bassezze con le elemosine
si seguono serrati attorno a dei nastri d’acqua
e scorrono verso i mari trasportando al loro passaggio
le macerie umane e i loro miraggi

*

l’acqua del ruscello ha tanto lavato il suo letto
che anche la luce scivola sull’onda liscia
e cade a fondo con il pesante scintillio delle pietre


*

le campane suonano senza alcuna ragione, e anche noi!
i pensieri che ci portiamo con noi
che sono i nostri vestiti interiori
che ci mettiamo tutte le mattine
che la notte disfa con mani di sogno
ornati d’inutili rebus metallici
purificati nel bagno dei paesaggi circolari
nelle città preparate alla carneficina al sacrificio
nelle vicinanze dei mari dalle spazzate di prospettive
sulle montagne dalle inquiete severità
nei villaggi dalle dolorose indifferenze
la mano pesante sulla testa
le campane suonano senza alcuna ragione, e anche noi!
noi partiamo con le partenze arriviamo con gli arrivi
partiamo con gli arrivi arriviamo quando gli altri partono
senza alcuna ragione un po’ secchi un po’ duri severi
pane nutrimento più del pane che accompagna
la canzone gustosa sulla gamma della lingua
i colori posano il loro peso e pensano
e pensano o gridano e restano e si nutrono
di frutti leggeri come il fumo si librano
che pensa al calore che tesse la parola
attorno al suo nocciolo: il sogno che si chiama noi

*

le campane suonano senza alcuna ragione, e anche noi!
noi camminiamo per sfuggire al formicolio delle strade
con un fiasco di paesaggio una malattia una sola
una sola malattia che coltiviamo la morte
io so che ne porto in me la melodia e non ne ho paura
io porto la morte e se muoio è la morte
che mi porterà tra le sue braccia impercettibili
minute e leggere come l’odore dell’erba sottile
minute e leggere come una partenza senza motivo
senza amarezza senza debiti senza rimpianto senza
le campane suonano senza alcuna ragione, e anche noi!
perché cercare l’estremo della catena che ci lega alla catena?
suonate campane senza ragione, e anche noi!
faremo risuonare in noi i vetri infranti
le monete d’argento mischiate alle monete false
le macerie delle feste esplose in risa e in tempesta
alle porte delle quali potrebbero aprirsi i baratri
i sepolcri d’aria i mulini che macinano le ossa artiche
queste feste che ci levano le teste al cielo
e sputano sui nostri muscoli la notte di piombo fuso

*

io parlo di chi parla chi parla sono io solo
io non sono che un piccolo rumore e ho numerosi rumori in me
un rumore ghiacciato sgualcito al crocicchio gettato sul marciapiede bagnato
ai piedi di uomini affrettati mentre corrono con le loro morti
attorno alla morte che stende le sue braccia
sul quadrante di quell’ora sola che vive al sole

*

il soffio oscuro della notte s’infoltisce
e lungo le vene cantano flauti marini
trasposte sulle ottave dei molteplici strati di esistenze
le vite si ripetono all’infinito fino alla magrezza atomica
e in alto tanto in alto che non possiamo nemmeno vedere
e con queste vite  a fianco che non vediamo
l’ultravioletto di così tante vie parallele
quelle che noi avremmo potuto prendere
quelle per le quali noi avremmo potuto non venire al mondo
o esserne già partiti da tempo da così tanto tempo
che ci si sarebbe dimenticati sia l’epoca sia la terra che ci avrebbe succhiato la carne
sali e metalli liquidi limpidi nel fondo di pozzi

*

io penso al calore che tesse la parola
attorno al suo nocciolo: il sogno che si chiama noi