domenica 13 ottobre 2019

Lautréamont, I Canti di Maldoror, II, 6


Un brano forse progettato a generare la reazione del lettore, a scuoterlo, per tornare a fargli sentire quel bambino indifeso, serrato in lui, e quell'immensa tensione al bene, sopita in lui. Così sin da ragazzino ho amato l'ingegno, la fantasia barocca, l'eleganza mai prevedibile del Comte de Lautréamont, Isidore Ducasse. Al giardino delle Tuileries.

Com'è carino quel bambino che se ne sta seduto su una panchina del giardino delle Tuileries! I suoi occhi arditi lanciano frecce a qualche oggetto invisibile, in lontananza, nello spazio. Non deve avere più di otto anni, eppure non si diverte come converrebbe. Dovrebbe almeno ridere e passeggiare con qualche compagno, invece di restare solo; ma non è nel suo carattere.

Com'è carino quel bambino che se ne sta seduto su una panchina del giardino delle Tuileries! Un uomo, mosso da un disegno segreto, si siede accanto a lui, sulla stessa panchina, con fare equivoco. Chi è? Non ho bisogno di dirvelo; lo riconoscerete dalla sua conversazione tortuosa. Ascoltiamoli, non disturbiamoli:
- A che pensavi, bambino?
- Pensavo al cielo.
- Non serve che tu pensi al cielo; è già abbastanza pensare alla terra. Sei dunque stanco di vivere, tu che sei appena nato?
- No, ma chiunque preferisce il cielo alla terra.
- Ebbene, non io. Poiché il cielo è stato fatto da Dio, come la terra, stai pur certo che vi incontrerai gli stessi mali di quaggiù. Dopo la morte non sarai ricompensato secondo i tuoi meriti; infatti, se su questa terra ti infliggono ingiustizie (come più tardi proverai, per esperienza), non c'è ragione perché nell'altra vita non te ne vengano inflitte ancora. Ciò che puoi fare di meglio è non pensare a Dio, e farti giustizia da te, dal momento che ti viene rifiutata. Se uno dei tuoi compagni ti offendesse, non saresti forse felice di ucciderlo?
- Ma è proibito!
- Non quanto credi. Si tratta soltanto di non farsi prendere. La giustizia stabilita dalle leggi non vale niente; conta soltanto la giurisprudenza dell'offeso. Se tu detestassi uno dei tuoi compagni, non ti renderebbe infelice l'idea di avere ad ogni istante il pensiero di lui davanti agli occhi?
- È vero.
- Ecco dunque un compagno che ti renderebbe infelice per tutta la vita; infatti, vedendo che il tuo odio è soltanto passivo, non la smetterebbe mai di provocarti e di farti impunemente del male. C'è dunque un solo mezzo per far cessare questa situazione; sbarazzarsi del proprio nemico. Ecco dove volevo arrivare, per farti capire su quali basi è fondata la società attuale. Ognuno deve farsi giustizia da sé, altrimenti è soltanto un imbecille. Colui che riporta la vittoria sui propri simili è il più astuto e il più forte. Non vorresti, un giorno, dominare i tuoi simili?
- Sì, sì.
- Allora devi essere il più forte e il più astuto. Sei ancora troppo giovane per essere il più forte; ma fin da oggi puoi usare l'astuzia, lo strumento più bello degli uomini di genio. Quando il pastore Davide colpì in fronte il gigante Golia con una pietra lanciata con la fionda, non è forse ammirevole notare che soltanto grazie all'astuzia Davide ha vinto il suo avversario, e che se, al contrario, si fossero affrontati in un corpo a corpo, il gigante l'avrebbe schiacciato come una mosca? Lo stesso vale per te. In una guerra aperta, mai potrai vincere gli uomini su cui sei ansioso di imporre la tua volontà; ma con l'astuzia potrai lottare da solo contro tutti. Desideri le ricchezze, i bei palazzi e la gloria? o mi hai ingannato quando mi hai dichiarato queste nobili pretese?
- No, no, non v'ingannavo. Ma è con altri mezzi che vorrei ottenere ciò che desidero.
- Allora non otterrai proprio niente. I mezzi, virtuosi e bonari non portano a nulla. Occorre impegnare leve più energiche e intrighi più sapienti. Prima che tu diventi celebre con la tua virtù e raggiunga il tuo scopo, altri cento avranno tutto il tempo di farti capriole sulla schiena e di terminare la carriera prima di te, e così non vi sarà più posto per le tue idee anguste. Occorre saper abbracciare con maggiore apertura l'orizzonte del tempo presente. Per esempio, hai mai sentito parlare della gloria immensa che procurano le vittorie? Eppure le vittorie non si compiono da sole. Occorre versare sangue, molto sangue, per generarle e deporle ai piedi dei conquistatori. Senza i cadaveri e le membra sparse che tu scorgi nella pianura dove saggiamente si è prodotta la carneficina, non ci sarebbero guerre, e senza guerre non vi sarebbero vittorie. Come vedi, quando si vuole diventare celebri, è necessario immergersi con grazia in fiumi di sangue alimentati dalla carne da cannone. Il fine giustifica i mezzi. La prima cosa, per diventare celebri, è avere denaro. Ora, poiché tu non ne hai, occorrerà assassinare per procurarsene; ma poiché non sei sufficientemente forte per maneggiare il pugnale, fatti ladro, nell'attesa che le tue membra si siano irrobustite. E affinché si irrobustiscano più in fretta, ti consiglio di fare ginnastica due volte al giorno, un'ora al mattino e un'ora la sera. In questo modo potrai tentare il delitto, con un certo successo, a partire dall'età di quindici anni, invece di aspettare fino a venti. L'amore della gloria giustifica tutto, e forse, più tardi, padrone dei tuoi simili, farai loro del bene quasi pari al male che avrai fatto loro all'inizio!
Maldoror si accorge che il sangue ribolle nella testa del suo giovane interlocutore; le sue narici sono dilatate, e le labbra emettono una leggera schiuma bianca. Gli tasta il polso; le pulsazioni sono velocissime. La febbre si è impadronita di quel corpo delicato. Teme le conseguenze delle proprie parole; si defila, lo sciagurato, contrariato per non essersi potuto intrattenere più a lungo con quel bambino. Se in età matura è tanto difficile dominare le passioni, in bilico tra il bene e il male, che cosa può mai accadere in una mente ancora piena d'inesperienza? e quanta energia relativa può occorrergli in più? Il bambino se la caverà con tre giorni di letto. Voglia il cielo che il contatto materno porti la pace in quel fiore sensibile, fragile involucro di un'anima bella!




venerdì 27 settembre 2019

Robert Desnos, "La libertà o l'amore!", stralcio

alla finestra di una casa sbatte una tenda dietro la quale due amanti si avvinghiano, su un letto banale, con braccia da annegati. due uomini si sono seduti sull'erba e bevono al collo una bottiglia di un vino rosso e generoso. tre mucche in un prato. il gallo della chiesa. un aereo. i papaveri.
ogni enigma ha venti soluzioni. le parole dicono indifferentemente il pro e il contro. non è lì che si può intravedere l'assoluto.
"così come nel 1789 fu rovesciata la monarchia assoluta, nel 1925 occorre abbattere la divinità assoluta. esiste qualcosa di più forte di Dio".
Giovanna d'Arcobaleno, sorella di Matilde, in marcia da anni, arriva davanti alla sfinge dei ghiacci con, sotto braccio, "Viaggio al centro della Terra".
la sfinge le chiede di risolvere l'enigma.
"cos'è che sale più in alto del sole e scende più in basso del fuoco, che è più liquido del vento e più duro del granito?".
senza riflettere, Giovanna d'Arcobaleno risponde:
- una bottiglia.
- e perché? domanda la sfinge.
- perché così voglio.
- va bene, puoi passare, Edipo idea di poi.
Giovanna d'Arcobaleno passa. un cacciatore di pelli le si fa vicino, carico di pelli di lontra. le domanda se conosce Matilde, ma lei non la conosce. il cacciatore le dà un piccione viaggiatore ed entrambi si avviano per cammini contraddittori.
perché l'amore rimase sempre un privilegio di pochi, disposti a correre ogni di tipo di avventura e a rischiare il poco di vita concessa ai comuni mortali nella speranza di incontrare alla fine l'avversario con cui poter camminare fianco a fianco, sempre sulla difensiva e, malgrado ciò, in totale abbandono.
silenzio! ella verrà con la sua sottoveste di sete, con il suo corpetto ciliegia, gli stivali fulvi e il trucco arancione, verrà così come io l'amo e partiremo liberamente all'avventura!
che sia benedetta questa prigione! come sarà lussuosa la catena che ci unirà! come sarà libera, questa prigione!

Alighiero Boetti, Niente da vedere, niente da nascondere, 1988

domenica 15 settembre 2019

bray



laggiù
uomini o sassi?
uomini:
si muovono

alla sera dei gabbiani
si posano
sull'acqua
il cielo chiude gli occhi
per un istante
ancora per un istante

i ciottoli cozzano
risa senza parole
la marea
muove le sue braccia
affaccendate

di tanto in tanto poi
quelle ombre
stese s'arrestano
un minuto lontano e quel minuto
si soffocano nelle grida

tutto tace

G. Braque, Port Miou, 1907, Milano, Museo del '900


venerdì 12 luglio 2019

Tristan Tzara, L'Uomo Approssimativo


Oggi è uscito, inaspettato come un frutto e dopo molto lavoro come del buon vino, questo volume singolare, “L’Uomo Approssimativo” di Tristan Tzara, che ho avuto l’onore di attendere, di curare e tradurre. Incantevole come un fiore.
Ringrazio l’editore Massari per i rischi della proposta e Roberta De Francesco per il supporto, ma voglio dedicare questa fatica alla terra del Congo, sacra e sofferente, perché lì, grazie all’aiuto dei miei fratelli, lungo ore, notti, parole e silenzi, ho appreso e sviscerato il mistero di questi versi il cui suono sembrava assolutamente straniero.
Non è mera pubblicità, questa, non ho alcun profitto, ma è l’emozione di vedere per la prima volta in lingua italiana dopo quasi 80 anni uno dei testi più importanti del Surrealismo ortodosso e uno degli apici della Poesia del ‘900. Intimamente, per me, ancora molto di più.

“le strade pesanti perdevano le loro ali
e l’uomo cresceva sotto l’ala del silenzio
uomo approssimativo come me come te e come gli altri silenzi”

A presto, con altre novità!
Per chi fosse interessato, potete trovare il link nei commenti.

Je veux dédier ce livre et cet effort au pays du Congo, sacré et souffrant, car grâce à l'aide de mes frères j'ai appris et approfondi le mystère de ces vers dont le son semblait absolument étranger. Matondo, Bandeko, boye nalingi kobonza buku oyo na bino nzambi bino bolakisaki na ngai likundu o kati maloba oyo.

“les routes sourdes perdaient leurs ailes
et l’homme grandissait sous l’aile de silence
homme approximatif comme moi comme toi et comme les autres silences”


sabato 22 giugno 2019

la notte di Mamette


anche se essere definito "professore", pure con P maiuscola, mi fa sorridere a fiotti, ecco un incontro semplice, dai toni nuovi, ma di cuore, per un luogo che ci sta a cuore.

giovedì 13 giugno 2019

iside

e nessuno ti ascoltava
in attesa della sera
gracidava la rana tu raccoglievi
i capelli in un fiore
il silenzio delle acacie in lontananza
noi nudi nella nostra notte
"dammi del vino" dicevi ora
respira ancora il castano che accarezzavi
sfuggito agli inverni degli spiriti
tu m'ascoltavi? io
t'amavo e annegavo
noi nudi nella notte
curarsi del sacro curarsi
dell'umano le spiagge
le spiagge d'alabastro m'abbracciano
tra noi ancora un mare che nessuno
potrà solcare e un solo
interminabile naufragio
dove nessuno t'avrebbe udita
anima mia nuda
ascoltavi la solitudine di d-o




giovedì 30 maggio 2019

"Les cages sont toujours imaginaires" Max Ernst

l'arte è l'uomo che sogna se stesso e che, sognandosi, si crea, con un volto divino. 
è per questo che i sogni sono al tempo stesso veri e oscuri, poiché nella loro umana oscurità risiede il vero più sublime. 
è per questo che arte e sogno si pongono a fondamento del reale e il reale ne diviene solo pallida allegoria.

M. Ernst, "Les cages sont toujours imaginaires", Zurich Kunsthaus, 1925

mercoledì 22 maggio 2019

ieu sui Arnautz

io sono Arnaut che raccoglie il vento
e caccia la lepre col bue
e nuota contro marea

ieu sui Arnautz qu'amas l'aura
e chatz la lebre ab lo bou
e nadi contra suberna

Arnaut Daniel

M. Chagall, Promenade, 1917

lunedì 20 maggio 2019

la realtà è un sogno del sogno

mi chiedete che cosa faccio mentre dormo? e io ti chiedo che cosa fai quando sei sveglio. tu prendi l'io dei sogni, la totalità del tuo io passato e lo induci, con una contrazione progressiva, ad adattarsi al piccolo cerchio che tracci attorno alla tua azione presente. questo è ciò significa essere sveglio.

H. Bergson, L'énergie spirituelle, 1959

Antonello da Messina, San Girolamo nello studio, 1475 ca.

domenica 5 maggio 2019

Louis Aragon, Prefazione a una Mitologia Moderna



Sembra che ogni idea abbia passato oggi la propria fase critica. È comunemente accettato che un esame generale delle nozioni astratte dell’uomo abbia esaurito insensibilmente queste ultime, che la luce umana si sia sparsa ovunque e che nulla sia così sfuggito a questo processo universale, molto passibile di revisione. Vediamo dunque tutti i filosofi del mondo, prima di fronteggiare il minimo problema, ostinarsi all’esposizione e alla confutazione di tutto quello che hanno detto su questo i loro predecessori. E in tal modo non pensano nulla che non sia funzione di un errore precedente, che non si appoggi su questo, che non ne partecipi. Curioso metodo che cerca di negare in maniera singolare: sembra che abbia paura del genio, proprio là dove tuttavia nulla si richiederebbe se non il genio stesso, l’invenzione pura e la rivelazione. La carenza dei mezzi dialettici, la loro inefficacia nella strada di ogni certezza, in ogni istante sembra che questi che fecero del pensiero il loro dominio ne abbiano preso coscienza solo temporaneamente. Ma questa coscienza non li ha addestrati che a disputare riguardo ai mezzi dialettici e non sulla dialettica stessa, e ancor meno del suo oggetto, la verità. O se questa, per miracolo, li ha occupati, è perché questi la ritenevano come obiettivo e non in se stessa. L’obiettività della certezza, ecco di cosa si discuteva senza difficoltà: della realtà della certezza nessuno se n’era interessato.
I caratteri della certezza variano secondo i sistemi personali dei filosofi, dalla certezza comune allo scetticismo ideale di certi incerti. Ma se pure sia questa ridotta, per esempio alla coscienza dell’essere, la certezza si presenta a tutti i suoi osservatori con dei caratteri propri e definibili che permettono di distinguerla dall’errore. La certezza è realtà. Da questa credenza fondamentale passa il successo della famosa dottrina cartesiana dell’evidenza.
Non abbiamo ancora finito di scoprire le devastazioni di questa illusione. Sembra che nulla abbia mai costituito per il cammino dello spirito una pietra d’inciampo tanto difficile da evitare che questo sofisma dell’evidenza che lusingava una delle più comuni maniere di pensare degli uomini. La si ritrova alla base di ogni logica. In questa si risolve ogni prova che l’uomo si dà di una proposizione che enuncia. L’uomo finisce per appellarsi a quella. Appellandosi a quella, finisce. Ed è così che si è fatto una verità volubile, e sempre evidente, di cui si domanda inutilmente perché non arrivi mai ad accontentarsi.
Ora c’è un regno nero, e che gli occhi dell’uomo evitano, perché questo paesaggio non li lusinga affatto. Questa ombra, che sostiene di dover superare per descrivere la luce, è l’errore con i suoi caratteri sconosciuti, l’errore che, solo, potrebbe testimoniare, a colui che l’avrebbe considerato per se stesso, la realtà fuggevole. Ma chi non sente che il volto dell’errore e quello della verità non potrebbero avere dei tratti differenti? L’errore è accompagnato dalla certezza. L’errore si impone attraverso l’evidenza. E tutto quello che si dice della verità, lo si dica dell’errore: non si sbaglierà ulteriormente. Non ci sarebbero errori senza il sentimento stesso dell’evidenza. Senza di esso non ci si fermerebbe mai all’errore.

Io ero qui coi miei pensieri, quando, senza che nulla ne avesse rilevato l’avvicinamento, la primavera entrò improvvisamente nel mondo.
Era una sera, verso le 5, un sabato: di colpo, s’è fatto, ogni cosa si bagna in un’altra luce e tuttavia fa ancora molto freddo, non si potrebbe dire ciò che è appena successo. Resta sempre il fatto che il gomitolo dei pensieri non saprebbe restare lo stesso, ma seguono a precipizio una preoccupazione perentoria. Si è appena aperto il coperchio del vaso. Non sono più padrone di me stesso talmente sperimento la mia libertà. Non c’è bisogno di far nulla. Non farò più nulla al di là del suo inizio finché farà questo tempo da paradiso. Sono l’espansione dei miei sensi e del caso. Sono come un giocatore seduto alla roulette, non venite a dirgli di piazzare il suo denaro in prodotti petroliferi, vi riderebbe in faccia. Sono alla roulette del mio corpo e gioco sul rosso. Tutto mi distrae all’infinito, tranne la mia stessa distrazione. Un sentimento come di nobiltà mi spinge a preferire questo abbandono a tutto il resto e non saprei comprendere i rimproveri che mi fate. Al posto di occuparvi della condotta degli uomini, guardate piuttosto le donne che passano. Sono dei grandi frammenti di splendori, dei bagliori che non sono affatto ancora spogliati dalle loro pellicce, dai misteri brillanti e mobili. No io non vorrei morire senza averne avvicinata ciascuna, senza averla almeno toccata con la mano, averla sentita piegare, che rinunci sotto questa pressione a ogni resistenza, e poi vattene! Succede che si ritorna in sé tardi la notte, dopo aver incrociato non sono quante di queste scintille desiderabili, senza aver tentato di impossessarsi di una sola di queste vite incautamente lasciate alla mia portata. Allora spogliandomi mi domando con disprezzo cosa faccio al mondo. Questo è un modo di vivere, e non è necessario che io esca fuori per cercare la mia preda, per essere la preda di qualcuno nel fondo dell’ombra? I sensi hanno finalmente stabilito la loro egemonia sulla terra. Ormai che verrebbe a far qui la ragione? Ragione, ragione, o fantasma astratto della veglia, ti avevo già scacciato dai miei sogni, ma eccomi al punto dove questi stanno per confondersi con le realtà dell’apparenza. Non c’è più spazio qui che per me. Invano la ragione mi segnala la dittatura della sensualità. Invano mi mette in guardia contro l’errore, che ecco qui la Regina. Entrate, Signora, questo è il mio corpo, questo è il vostro trono. Lusingo il mio delirio come un bel cavallo. Falso dualismo dell’uomo, lasciami un poco sognare la tua menzogna.

F. Picabia, L'oeil cacodylate, 192

Così, per mille labirinti, mi sono abituato a pensare di non credere sicura oggi alcuna nozione che ho dell’universo senza averne fatto un esame astratto. Mi hanno trasmesso questo spirito d’analisi, questo spirito e questo bisogno. E come l’uomo che si leva dal sonno, ho bisogno di uno sforzo doloroso per sottrarmi da questa consuetudine mentale, per pensare in modo semplice, così come sembra naturale, secondo quel che vedo e quel che tocco. La conoscenza che viene dalla ragione può ciononostante per un istante opporsi alla conoscenza sensibile? Senza dubbio le persone rozze che non si rivolgono che a quest’ultima e disprezzano l’altra mi chiariscono il disprezzo dove è caduto poco a poco tutto quel che viene dai sensi. Ma quando i più sapienti degli uomini mi avranno insegnato che la luce è una vibrazione, che me ne avranno calcolato la lunghezza d’onda, qualunque sia il frutto dei loro lavori razionali, tuttavia non mi avranno reso conto di quel che mi importa della luce, di quel che i miei occhi m’insegnano un po’ di lei, di quel che mi rende differente dal cieco, e che è motivo di miracolo, niente affatto oggetto della ragione.
C’è più materialismo rozzo di quanto non si creda nello stolto razionalismo umano. Questa paura dell’errore, che nella fuga delle mie idee mi ricorda assolutamente, in ogni istante, questa mania di controllo, fa preferire all’uomo l’immaginazione della ragione all’immaginazione dei sensi. E tuttavia è sempre la sola immaginazione che agisce. Nulla può assicurarmi della realtà, nulla può assicurarmi che io la fondi su un delirio di interpretazione, né il rigore di una logica né l’intensità di una sensazione. Ma in questo ultimo caso l’uomo che è passato per diverse scuole secolari ha iniziato a dubitare di se stesso: per quale gioco di specchi fu al servizio dell’altro processo del pensiero, lo si immagini. Ed ecco l’uomo in preda alla matematica. È così che, per liberarsi dalla materia, è divenuto il prigioniero delle proprietà della materia.
In realtà comincio ad avvertire in me la consapevolezza che né i sensi né la ragione possano, se non per un trucco da prestigiatore, concepirsi separati gli uni dall’altra, che senza dubbio non esistono che funzionalmente. Il più grande trionfo, al di là delle scoperte, delle sorprese, delle improbabilità, la ragione lo trova nella conferma di un errore popolare. La sua più grande gloria è di dare un senso preciso a delle espressioni dell’istinto che i mezzi-sapienti disprezzerebbero. La luce non si comprende che attraverso l’ombra, e la verità presuppone l’errore. Sono questi opposti mescolati che popolano la nostra vita, che gli danno il sapore e l’ebrezza. Noi non esistiamo che in funzione di questo conflitto, nella zona dove si scontrano il bianco e il nero. E cosa m’importa del bianco o del nero? Loro sono del dominio della morte.

Non voglio più distogliermi dagli errori delle mie dita, dagli errori dei miei occhi. Ora so che questi non sono che delle trappole grossolane, ma di curiosi cammini verso un obiettivo che nulla può rivelarmi se non questi. A ogni errore dei sensi corrispondono dei misteriosi fiori della ragione. Ammirabili giardini delle convinzioni assurde, dei presentimenti, delle ossessioni e dei deliri. Qui prendono forma degli dèi sconosciuti e mutevoli. Contemplerei questi volti di piombo, queste cannabis dell’immaginazione. Quanto siete belle, colonne di fumo, nei vostri castelli di sabbia! Miti nuovi nascono sotto ciascuno dei nostri passi. Qui dove l’uomo ha vissuto comincia la leggenda, qui dove vive. Non voglio più occupare il mio pensiero che a queste metamorfosi disprezzate. Ogni giorno il sentimento moderno dell’esistenza muta. Una mitologia si intesse e si scioglie. È una scienza della vita che appartiene solamente che a quelli che non ne hanno affatto esperienza. È una scienza viva che si genera e si suicida. M’appartiene ancora, ho ormai ventisei anni, il partecipare a questo miracolo? Avrò a lungo il sentimento del meraviglioso quotidiano? Lo vedo che si perde in ogni uomo che procede nella propria vita come in un cammino sempre più lastricato, che prosegue nell’abitudine del mondo con una disinvoltura crescente, che si disfa progressivamente del gusto e della percezione dell’insolito. È questo che, disperatamente, non potrò mai sapere.


Tratto da Le paysan de Paris, Paris 1926


J. Kolar, Cappella Sistina, 1971