mercoledì 31 maggio 2017

pagine di diario - odrele

Martedì 9 maggio 2017

ODRELE. Poche settimane, piange a letto, solo. Mi avvicino, chiedo, do un’occhiata alla fiche: malaria, anemia, malnutrizione, piaghe nella zona anale. Caso frequente, caso grave, nonostante sia arrivato in ospedale e nonostante la trasfusione in corso, l’ho imparato anche io. Gli porgo un dito e lui con la sua manina lo stringe forte, manina da pelle sfinita, e smette di piangere. Poco dopo vedo arrivare la mamma, Aloko, non più di 14 anni, con un viso da bambina e seni grossi da madre, occhi inesperti e impauriti. Ingravidata da qualche ragazzo in un rah notturno del suo villaggio, Modusu, lasciata sola come una bambina con la sua bambola.
Arriva anche la nonna, che avrà la mia età, solcata dalla fame, e sul suo dorso un altro bambino: anche lui soffre visibilmente di malnutrizione, lo dicono le occhiaie gonfie, quei ciuffi di capelli ingialliti. Saluto e torno ai miei lavori.
Ripasso per caso dopo un paio di ore: nella corsia la mamma si tiene la nuca con le mani, come un ragazzino in panico; capisco e corro a chiamare un infermiere, ma è solo per constatare il decesso.
ENEKU ODRELE, di 5 mesi, nato in un giorno imprecisato di novembre e spentosi il 9 maggio, figlio di Odrele e Aloko, cattolico, non è più. Non dorme, non dorme con quegli occhi bianchi che non si chiudono, con quella bocca rigida e spalancata come a cercare un ultimo respiro.
Justin, l’infermiere di turno, incomincia a bendarlo con garze e pany e intanto canta, come se fosse l’ultima ninna nanna per chi non ha conosciuto oltre la vita. È un canto sottovoce, un canto inverosimilmente dolce e insieme struggente.
Rimane qui col corpo solo la nonna, come per caso, guardandosi attorno, mentre la figlia è corsa fuori: la rincontrerò a vagare fuori dal padiglione di chirurgia, con un’espressione alienata e la riaccompagnerò mano nella mano. Storie di fame, di solitudini, di disperazione senza voce.
Ma Dio si ricorderà di questo nome, Odrele, o è già stato avvolto dal nulla?

Mercoledì 10 Maggio 2017

All’ospedale entra una nonna che mi sorride e con la quale scambio allegramente due chiacchiere in lugbara, un canto, due risate. È contenta, mi dice, perché ha raccolto dei manghi nella brousse attorno e con questi riuscirà a trovare qualche soldo. Mi trovo appena fuori dal cancello dell’ospedale con Benjamin e Michel, prendo il tempo di qualche parola con loro.
Trenta secondi dopo la nonna ritorna, sembra si diriga verso me, anzi cerca proprio me, ma con un’espressione molto differente da poco prima: “mundele, akufi!” dice, e capisco immediatamente anche io.
Ha lasciato i manghi a terra e corre a casa ad avvisare il resto della famiglia, mentre la notte scende e lacrime rigano fitte il suo volto, la voce è stravolta. Anche Monde è morto e vedo che il suo letto è già occupato: ADRIKO TOTO, con una mamma appena tredicenne, che mi sorride e spera, mentre è in corso la trasfusione di sangue, mentre il ventre ondeggia disperato e gli occhi tremano all’indietro. Dice di avermi già incontrato alla festa di Kamakà a Pasqua, io le sorrido e intanto mi chiedo “Dio si dimenticherà di loro?” mi chiedo “Dio si dimenticherà anche di loro?”.
Ne guarisce uno e ne entrano altri cinque.
È una mietitura di sangue e innocenti.
È la strage di Erode a Betlemme.
E prima di chiudere gli occhi, stasera, senza ben capire perché, mi appaiono le parole “Non uccidere” e ne sento i brividi di terrore.

Venerdì 12 Maggio 2017

Stamattina Toto è morto.
È venuta la mamma stessa, Bhileni, a dirmelo; è passata a cercarmi alla cassa e mi ha parlato con un sorriso timido sul volto. È forse per questo che ho pensato di non aver ben capito, ho chiesto conferma a Noella ma c’era troppo trambusto. Ieri avevo dato loro qualche soldo per un pasto decente e ieri sera gli occhi di Toto mi riconoscevano, quasi sorridevano: anche se non sapeva parlare, ne sono sicuro.
Il tempo di arrangiare ciò che sto facendo e, arrivato in pediatria, lei è già partita col suo corpicino, il suo posto è occupato da un altro.
Chiedo a Mireille: “Sì, il bambino del primo letto è morto”, ma stavolta non ce l’ho fatta, ad avvicinarmi al nuovo arrivato.
Silenzio. I pugni allo stomaco fanno male anche quando te li aspetti.
Silenzio. Lo sapevi, Lele.
Silenzio.
Ne guarisce uno e ne entrano altri cinque, mi ripeto chiudendo gli occhi, respirando l’aria calda e la sabbia del cortile: torna a finire il tuo lavoro, Lele.
Ma io che posso fare? Io non posso fare nulla, ma non per questo mi devo arrendere.
I poveri si prendono tutto, talvolta anche quello che non avresti voluto dare. Anche il dolore.
Spesso ti riempiono di gioia, altrettanto spesso ti fanno perdere ogni pazienza e tornare nero nella tua stanza chiusa.
Alcuni sono riconoscenti, da altri ti senti usato e acconsenti più o meno volentieri.
Certo è che i poveri non sono migliori dei ricchi (come peraltro neanche viceversa): non sono più belli, più gentili o più umili, più sinceri o più intelligenti, mai creduto, ma vivono del nostro stesso cielo e soffrono, oppressi da un’ingiustizia muta ma violenta.
I poveri si prendono tutto, talvolta anche quello che non avresti voluto dare, ma è giusto che sia così.


Sabato 13 maggio 2017

La verità, pensavo oggi, è che siamo in guerra, e non da oggi.
Una guerra dell’indifferenza, dell’arroganza e di un materialismo becero, cieco, animale. Una guerra contro il dialogo, il pensiero attivo, contro la nostra spiritualità e ogni concetto di verità. Mica una guerra retorica, una guerra di idee, poiché il sangue cola e i deboli sono vittime: è una guerra assassina, se penso a miriadi di situazioni dappertutto, dai paesi sottosviluppati, ai paesi del Medioriente, dai disoccupati, dai disadattati delle nostre città alle baraccopoli indiane c’è un sistema malato che toglie vita.
Lo dico senza dietrologie: è solo il diluvio che perdura, la fine di un mondo. Lo scrivo senza demonizzare il diverso, senza paura dell’altro, senza terrore del nuovo, senza invocare rivoluzioni, ma solo una coscienza.
È un’evidenza che il mondo dell’opulenza può reggersi solo grazie a un mondo parallelo di oppressi, che il lusso insensato di qualcuno è l’altra faccia della medaglia di Odrele e di tanti, troppi, altri. E questo sistema passa nell’indifferenza, nell’apatia, in quell’accettazione impotente che non ricorda più cosa fosse “uomo”, di come la parola “umanità” si possa declinare unicamente al plurale.
Qui i cittadini disprezzano quelli che vengono dai centri provinciali, che disprezzano a loro volta chi viene dai villaggi, che bollano con disprezzo chi viene dalla brousse: coloro che sono in difficoltà preferiscono dare contro a coloro che sono ancora più deboli, piuttosto che guardare in faccia ciò che li sta annientando, sembra una legge universale. In Europa non avviene lo stesso? La situazione è complicata e merita equilibrio, saggezza, ma spesso sembra che si possa risolvere tutto accanendosi rabbiosamente contro immigrati, scappati dalla disperazione: come se il problema principale, in uno stato in cui le riforme hanno dato il passo a corruzione e mafie, uno stato privo di slancio culturale e di imprenditorialità, sepolto da un’identità dimenticata e burocrazia, fossero loro. Come se si potesse distruggere una cultura dall’esterno, e non fosse invece già marcia interiormente.
La morte dei sogni è la fine del mondo. Il diluvio.
Io, col mio carattere pessimo, ingarbugliato e cocciuto, rancoroso e insicuro, con le mie unghie sempre mangiucchiate e gli occhi bassi, so che le parole, i valori, i sogni sono reali, sono validi solo se “incarnati”: non si inventano, non hanno bisogno di difesa né si proclamano a vanvera, ma hanno vita nelle persone e nelle loro scelte concrete, quotidiane, controcorrente. Verbum caro factum est, qualcuno scrisse. Dove sono finiti i nostri sogni di fraternità, di giustizia? Li abbiamo rimessi in tasca? La verità è che lo sappiamo, vediamo il diluvio che dilaga lentamente, ma preferiamo chiudere gli occhi: ci accontentiamo di un pasto caldo e qualche passatempo, rigirandoci in una perenne alienazione, in una continua lamentazione, ossessionati da paure, tanto da non agire che per queste, senza più esserne protagonisti, della nostra c…o di meravigliosa vita. Si segue un egoismo esasperato, si grida alla libertà per poi perdere la propria autenticità in un mare magnum senza nome, massa incolore, indifferente, mentre la stanchezza dell’abitudine ci ha narcotizzato. Forse è solo una questione di comodità, il diluvio. La fine del mondo, la fine di un mondo, il diluvio ecco: sostituire il sogno con la sopravvivenza, con il terrore. Ciascuno salvi se stesso? No, ciascuno salvi la propria piccola fiammella, ma la salvi all’altro, verso l’altro, verso un mondo futuro, rinnovato, migliore. “La mia vita è inserire vita dove c’è la morte”.
Nella testa ho ancora il nome di Odrele. No, neppure Dio lo ha dimenticato, ne sono sicuro, e neppure il suo volto, che io già confondo con quello di tanti altri: non lo dimenticherà e il mondo stesso ne chiederà conto, di questo suo figlio. Il sogno di Dio non è questo, il sogno dell’uomo era altro, era più alto, ma chi non si alza si allinea. E io so, lo conosco attraverso questi miei nuovi compagni, che si può insultare, oltraggiare, deturpare, violentare, uccidere, devastare la vita, la si può persino annientare, ma la vita è più forte e rigermoglia, silenziosa e ogni volta e per sempre: no, la vita non la si può sconfiggere. Neppure in questa guerra.
Heritier, mi ha detto Suza, è guarito.

Ho finito, di scrivere, di piangere, di gridare. Solo ora mi accorgo che la persona contro cui mi infuoco tanto è il mio piccolo io.



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